domenica 15 aprile 2012

Lo dicevamo anni prima che i salari Italiani sono tra i più bassi dei paesi industrializzati

Conferma dell'OCSE
I salari italiani tra i più bassi dei Paesi industrializzati
Al 23° posto dopo quelli di Spagna e Grecia. I lavoratori e i pensionati italiani tra i più tartassati
L'aumento dei salari e delle pensioni è una priorità

Lo sanno anche i sassi, non c'è ormai più nessuno che osa negarlo senza cadere nel ridicolo: i salari dei lavoratori italiani sono tra i più bassi nei Paesi non solo europei ma del mondo più sviluppato. Ogni anno che passa aumenta la differenza di trattamento rispetto a quanto percepiscono i loro colleghi statunitensi, tedeschi francesi, britannici e via elencando. Un fenomeno che riguarda anche i livelli delle pensioni. Un altro dato strettamente collegato riguarda la pressione fiscale: i lavoratori e i pensionati italiani sono tra i più tartassati. A ciò si aggiunga che nel nostro Paese si registrano livelli alti e in crescendo di disoccupazione, di lavoro precario e sommerso. Inevitabile perciò, in conseguenza di tutto ciò, e in assenza di provvedimenti da parte del governo, la crescita esponenziale delle povertà.
Una conferma di questa deprecabile e intollerabile situazione, l'ennesima, ci viene dall'Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, cui sono associati i 30 Paesi più sviluppati) che a tal proposito segnala il seguente dato scioccante: l'Italia per stipendi si colloca al 23° posto dei Paesi Ocse con guadagni inferiori del 16,5% rispetto alla media dei trenta Paesi che fanno parte dell'organizzazione con sede a Parigi. I dati del rapporto Taxin Vages sono relativi al 2009. Ma se il confronto è con i salari dei principali Paesi europei la distanza si allarga notevolmente: il lavoratore italiano riceve un compenso salariale inferiore del 44% rispetto al dipendente inglese, guadagna il 32% in meno di quello irlandese, il 28% in meno di quello tedesco, il 19% in meno di quello greco, il 18% in meno del francese e -14% dello spagnolo.
L'Italia vanta, contestualmente, una pressione fiscale sulle retribuzioni tra le più elevate. Infatti, il peso di tasse e contributi, il cosiddetto "cuneo fiscale" che calcola la differenza tra quanto pagato da datore di lavoro e quanto effettivamente finisce in tasca al lavoratore, è in Italia al 46, 5%. Nella classifica dei Paesi Ocse, aggiornata al 2009, il nostro Paese è al sesto posto per peso fiscale sugli stipendi, dopo Belgio (55,2%), Ungheria (54,3%), Germania (50,9%), Francia (49,2%) Austria (47,9%).

Quadro drammatico
Un'indagine della Cgil, resa pubblica di recente, ribadisce una volta di più che in Italia i salari dei lavoratori sono troppo bassi, anche a seguito delle tasse che invece sono troppo alte, e tutto ciò crea pesanti difficoltà di sopravvivenza. Risulta che l'80% dei lavoratori percepisce una busta paga sotto i 1.500 euro: il salario medio è di 1.320 euro; ma se consideriamo gli operai, anche quelli specializzati, si arriva a malapena a mille euro. L'indagine sottolinea che, in questo quadro, il 16% non ha i soldi per arrivare alla quarta settimana, il 26% fa sacrifici per far quadrare i conti, il 9% riesce a farcela perché vive ancora in famiglia d'origine, il 25% ce la fa perché gli stipendi in famiglia sono due. Solo per il 24% il proprio stipendio risulta sufficiente. Ancora più drammatici i dati di sussistenza relativi ai nuovi disoccupati: il 66% degli interpellati ha dichiarato di non essere in grado di mantenere la propria famiglia.
Da noi, più che negli altri Paesi, la questione salariale si intreccia fortemente con la questione fiscale nel senso che: la pressione fiscale è esageratamente alta ed esosa sui salari e sugli stipendi del lavoro dipendente (ma è lo stesso per le pensioni); non solo, il fisco in Italia, a causa del fiscal-drag (ossia il drenaggio fiscale che agisce sugli aumenti nominali del reddito), in assenza di un meccanismo di adeguamento automatico, contribuisce non poco a ridurre il potere d'acquisto di salari e pensioni. Secondo un'analisi di parte sindacale, dal 1980 ad oggi la pressione fiscale è aumentata del 12,5% a carico dei lavoratori dipendenti e dei pensionati, principalmente a causa della mancata restituzione del drenaggio fiscale, solo tra il 2002 e il 2008 ha causato una perdita di 1.182 euro.
Un altro dato che deve far riflettere è questo: tra il 2002 e il 2009 il reddito disponibile delle famiglie con a capo un imprenditore o un libero professionista è aumentato di 16.407 euro. Mentre per gli impiegati è sceso di 2.097 euro e per gli operai di 1.848 euro. Il fatto è che lavoratori dipendenti e pensionati, essendo il loro reddito tassato alla fonte, sono gli unici a pagare con certezza le tasse, mentre gli altri soggetti eludono ed evadono a piene mani.
Il paradosso è che in Italia, accanto ai più alti di livelli di pressione fiscale (per chi li paga, cioè lavoratori e pensionati), ci sono le più alte percentuali di evasione fiscale (per chi la può praticare, ossia i padroni, i liberi professionisti e i possessori di patrimoni e di ricchezze). Basti dire che delle 800 mila società di capitali attive, l'81% dichiara redditi negativi e dunque non versa le imposte. Nell'Italia capitalistica, l'evasione fiscale è quasi il doppio rispetto a quella registrata in Francia, Germania e Inghilterra; mentre è quasi quattro volte quella presente in Austria, Irlanda e Olanda. Il sommerso è superiore al 60% alla media dei paesi Ocse: si tratta di 3,4 milioni di lavoratrici e lavoratori irregolari su cui le imprese non pagano tasse e contributi. Stime autorevoli calcolano che l'economia a "nero" raggiunge strutturalmente nel nostro Paese il 24% del PIL (Prodotto interno lordo). Il mancato gettito complessivo ammonta a ben 100-120 miliardi di euro l'anno, derivanti da 300 miliardi di imponibile non dichiarato, quasi un quinto del PIL.

Le colpe del governo Berlusconi
Il governo del neoduce Berlusconi non ha fatto nulla per modificare questa situazione fiscale profondamente ingiusta e illegale nei confronti dei lavoratori e dei pensionati. Tutti i provvedimenti che ha preso sono andati nella direzione opposta per favorire ulteriormente i ceti ricchi e ricchissimi, gli evasori e le mafie. Vedi i condoni fiscali e lo "scudo fiscale" per il rientro anonimo dei capitali esportati illegalmente all'estero, senza sanzioni e con un'aliquota ridicola. Vedi la cancellazione di quelle poche misure antievasione assunte dal governo Prodi. Per non dire del proposito, non ancora attuato, di controriformare ancora l'Irpef (imposta sui redditi delle persone fisiche) riducendo le attuali aliquote di pressione fiscale da cinque a due: la prima al 23%, la seconda al 33%: una controriforma iper-liberista, questa, che cancellerebbe di fatto il metodo progressivo di prelievo fiscale sulla base del principio "chi più ha più deve contribuire". C'è anzi il rischio concreto che il ministro per l'economia Tremonti, col pretesto della crisi finanziaria, del debito pubblico da contenere vari a breve delle misure finanziarie di "lacrime e sangue", sull'esempio di quanto attuato dal governo greco, con gravi conseguenze per i salari dei lavoratori.
Innegabili e pesanti le responsabilità dei sindacati confederali, di Cisl e Uil certamente, schiacciati come sono sulle posizioni del governo e della Confindustria. Ma anche della Cgil, essendo stata uno degli attori principali della "politica dei redditi" portata avanti almeno fino al 22 gennaio del 2009, data in cui governo, Confindustria e i sindacati di Bonanni e Angeletti firmarono l'accordo per il nuovo modello contrattuale padronale e corporativo. I rinnovi dei contratti di lavoro che ne sono derivati hanno prodotto aumenti salariali miseri per giunta diluiti in tre anni.
A onor del vero va detto che la Cgil, da gennaio di quest'anno ha presentato al governo una piattaforma rivendicativa sul fisco e lanciato una campagna di sensibilizzazione. Promuovendo anche, nel marzo scorso, uno sciopero generale di 4 ore, arrogantemente ignorato dal governo. Queste le richieste della Cgil in sintesi: la revisione della struttura dell'Irpef che preveda un aumento delle detrazioni per redditi da lavoro dipendente e da pensioni per almeno 500 euro; la riduzione della prima aliquota dal 23 al 20% per favorire i redditi medio-bassi e della terza aliquota dal 38 al 36%; la costituzione di uno strumento di sostegno unico per le famiglie; un bonus fiscale per coloro che non sono in grado di usufruire delle detrazioni. Inoltre, misure per il recupero dell'evasione fiscale, una nuova imposta sulle grandi ricchezze, un'aliquota sulle rendite finanziarie al 20%.
Una cosa è certa. La lotta per aumentare salari e pensioni, unita alla lotta per conseguenti modifiche dell'Irpef e contro l'evasione fiscale, unita alla lotta contro il lavoro precario e sommerso è una priorità ineludibile. Da imporre a governo e padronato anche con lo sciopero generale e manifestazioni di piazza. Dove prendere i soldi necessari? Si colpiscano i grandi evasori! Si incominci a recuperare i 60 miliardi di euro che ogni anno si mangia la corruzione!

19 maggio 2010

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