domenica 15 aprile 2012

Il nemico del proletariato tunisino ed egiziano è il nostro stesso nemico

. Lo si abbatta qui nel cuore imperialista dell’Europa
Mercoledì 02 Febbraio 2011 17:29
La crisi economica, partita dagli Stati Uniti e dai centri delle metropoli mondiali, sta procedendo come uno tsunami verso le periferie del mondo capitalistico e viceversa, rompendo gli argini dove trova incrinature consistenti. L’area che va dall’Algeria (che ha cercato di fermare la protesta con alcune concessioni sui prezzi dei generi alimentari) fino alla Giordania (allo stato di collasso con la sua immensa massa di rifugiati palestinesi ridotti alla fame) passando per l'Egitto è nella morsa della stessa crisi. Ma anche nello Yemen come in Marocco le piazze si sono accese, mentre sono rientrati in crisi i punti caldi tradizionali attorno ad Israele, il Libano e la Striscia di Gaza.
Nei paesi più deboli, la crisi, divenuta sociale per la disoccupazione dilagante e per il diffondersi della miseria (l’aumento dei prezzi dei generi alimentari è solo la manifestazione più eclatante), si è trasformata in crisi politica, come in Tunisia, dove il potere del vecchio “comitato d’affari della borghesia” è stato rovesciato dalla rivolta popolare, la cui punta avanzata è stata la massa proletaria, ormai stanca di sopportare uno stato di cose durato 23 anni, con l’avallo dalle grandi borghesie europee.
La stessa “rivolta del pane” (quella dei diseredati) è poi esplosa in Egitto, il più grande e industriale paese dell’intera Africa. Il Cairo, Alessandria, Suez, Assuan sono state assediate: masse immense di proletari dei centri industriali, che un anno fa erano entrati in sciopero nel comparto tessile di Mahalla e che pochi anni fa si erano opposti alla crescita dei prezzi del pane assaltando i forni, con straordinario coraggio hanno affrontato la polizia e incendiato i palazzi del governo. Le città di Suez e di Alessandria sono state in mano ai proletari in rivolta, che sono riusciti a respingere la polizia in assetto militare, come riportato dai giornali e dalle televisioni con grande evidenza. Polizia, pretoriani, esercito, carri armati si attestano per le strade: decine i morti, incendi e coprifuoco. “Se salta il tappo egiziano, salta tutto il Medio Oriente!”, gridano allarmati gli osservatori politici delle capitali imperialiste: la paura scorre nelle vene della borghesia mondiale e dunque si raccomanda a Mubarak di non eccedere nella violenza e di farsi da parte.
E’ un momento importante per il proletariato mondiale. Non è la rivoluzione, ma è l’annunzio di eventi che presto o tardi infiammeranno il cuore delle metropoli proletarie, oggi sotto la dittatura della borghesia imperialista.
L’illusione riformista non tarderà, tuttavia, per altre vie, a cercare di imbastire un compromesso tra necessità proletarie e inni alla democrazia, alle elezioni, alla “dignità e libertà”, alle riforme, ai cambiamenti di governo, per poi poter scatenare una violenza “rimessa a nuovo” contro il proletariato. Se in Tunisia il vecchio regime promette un rimpasto politico in attesa di elezioni, in Egitto si cerca di rimediare con un identico rimpasto, presentando dei possibili successori. La macchina della conservazione e dell’oppressione continuerà la propria marcia, se non la si bloccherà con l’aiuto dell’intero proletariato: si rompa dunque il cordone sanitario che tiene lontane le due sponde del Mediterraneo, si connettano i proletari in un abbraccio fraterno. Solo questo deciderà se il sangue versato non sia stato vano.
I paesi europei, attraversati per primi dalla crisi (la Grecia in particolare, ma anche l’Irlanda e il Portogallo), sono stati costretti a chiedere, indebitandosi ulteriormente, un forte sostegno economico per la crescita del debito pubblico, per la crisi del sistema bancario e finanziario, per la disoccupazione dilagante. Ma nel sud del sud (Marocco, Algeria, Tunisia, Giordania, Yemen e oggi Egitto) il sostegno economico e politico che i regimi già colonialisti e oggi imperialisti possono dare, in nome della stabilità e della ripresa dello sfruttamento, si indirizzerà verso il disperato tentativo di riavviare quello sviluppo economico che, negli ultimi anni, si è avuto grazie alla massiccia presenza di aziende europee, oggi coinvolte di rimbalzo nella stessa crisi. Nascano e muoiano pure i governi, ma che il profitto, le rendite, gli interessi riprendano a crescere: questo è il comandamento! Che si tratti di democratici laici, di fratelli mussulmani, di repubblicani o di monarchici, che il sudore operaio continui a scorrere a delizia della classe dominante e della sua corte: questo vogliono a tutti i costi.
Non dal capitalismo, né dalle cosiddette riforme sociali, né dalla miserabile carità religiosa possono giungere a soluzione i bisogni di vita e di lavoro del proletariato, ma dalla distruzione di questo stesso sistema economico.
Il Maghreb e il Medio Oriente, i “cortili di casa” dell’Europa coloniale, cominciano dunque a tremare: e sotto l’incalzare della crisi il secondo va trasformandosi in una polveriera in cui la miccia proletaria è pronta per essere accesa. La continuità della produzione e la ritessitura della rete commerciale sono fondamentali per l’Europa, soprattutto in questo momento in cui si perdono i mercati nella lotta a coltello tra i concorrenti mondiali e s’impone la necessità di materie prime (gas, petrolio) e di mezzi di sussistenza a basso costo. Questo frangente, tuttavia, richiede “sfide ad alto livello”, non giochi di prestigio e piccole schermaglie, preannunciate dalla guerra commerciale e delle valute in pieno corso. Gli incontri bilaterali fra i grandi, i G8 e i G20, sono solo la facciata di evidenti fallimenti. Il bisogno di lavoratori immigrati, stagionali e non, diventa urgente, nella stessa misura in cui si vorrebbe “stabilizzare” il proletariato nazionale.
E’ dunque una malefica illusione quella di “spedire a casa loro” le migliaia di proletari che si presentano alle porte d’Europa: il “bisogno”, da entrambe le parti del Mare Nostrum, costituisce una risorsa economica per tutti, produttività e profitti da una parte e rimesse (di cui gli Stati africani non possono fare a meno) dall’altra. Il mercato nord-africano, sulla sponda sud del Mediterraneo, molto più avanzato economicamente rispetto alle aree centro-africane, ha qui la propria principale porta d'ingresso. Proprio qui la realtà economica locale, del tutto integrata con quella delle vecchie potenze coloniali, ha perduto la propria base originaria (la caratterizzazione territoriale): sia l’import che l’export (macchinari contro energia e prodotti agricoli) hanno direttrici univoche e specializzate verso l’Europa, in una divisione del lavoro centralizzata e concentrata dal di fuori. La profonda crisi attuale spinge dunque verso il baratro.
Nei paesi del Centro capitalistico, invece, non si esce ancora dal quadro della protesta corporativa: operai, precariato d’industria e del pubblico impiego, studenti sono spesso in stato d’agitazione, ma l’inerzia profonda dei processi e la ruggine da lungo tempo ispessitasi nelle strutture economiche e sociali sono difficili da spazzare via. L’illusione democratica ne è la base e il terreno di coltura. La richiesta del mantenimento del reddito e la spinta a riprendere l’attività lavorativa permangono, e non c’è alcuna risposta reale alla disoccupazione, alla precarizzazione, al prolungamento degli ammortizzatori sociali, così come al bisogno, a causa della crisi, della rimessa in funzione, da parte delle banche, del credito (nelle sue diverse forme) alla produzione, al commercio, al consumo. Anche la lotta di difesa economica contro la miseria e la disoccupazione si alimenta di vecchie litanie sui “diritti”, sulle “conquiste sindacali passate”, attivandosi su scioperi lagnosi che si dimostrano solo inutili farse e passeggiate: non scioperi generali ad oltranza, ma scioperi preavvisati, concertati, articolati senza obiettivi (tutta la vicenda Pomigliano e Mirafiori e gli inconcludenti scioperi Fiom ne sono la prova).
Se traballa il potere delle periferie capitalistiche del mondo, il proletariato delle metropoli non può disertare la lotta, non può restare una retroguardia, ma deve divenire quell’avanguardia che un tempo scosse l’Occidente con la sua rivoluzione nel cuore stesso dell’Europa. L’Africa chiama a raccolta i proletari del mondo: risorga il disfattismo di classe nelle metropoli, il proletariato dia il suo contributo di forza e di consapevolezza spingendo al massimo la lotta contro il potere dominante!
E’ evidente che in tutto ciò il ruolo dei comunisti è centrale, perché centrale deve essere sempre di più la consapevolezza che, senza il suo organo di organizzazione e direzione, senza il partito rivoluzionario, ogni moto proletario è destinato alla sconfitta. Lavorare al radicamento internazionale del partito comunista è dunque un’urgenza che non può essere ulteriormente rinviata.

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