giovedì 29 marzo 2012

SCOPERTI VARI TUNNEL DI 12000 ANNI FA, CHE COLLEGHEREBBERO LA SCOZIA ALLA TURCHIA!

Scritto da Wolfman
Giovedì 22 Marzo 2012 09:14

Rivenuta rete di gallerie sotterranee che secondo l’archeologo tedesco Heinrich Kush collegherebbe la Scozia alla Turchia




La scoperta potrebbe rivoluzionare il campo dell’archeologia e portare a una revisione della storiografia antica, così come potrebbe scontrarsi contro la cittadella accademica o sgonfiarsi alla prova dei fatti.

Non abbiamo infatti ancora dati sufficienti per inquadrare la notizia diffusa dall’archeologo tedesco Heinrich Kusch che ha dato alle stampe il suo libro Secrets Of The Underground Door To An Ancient World.

Dopo la scoperta nel 1994 di Gobleki Tepe risalente a 12 mila anni fa e destinata a riscrivere la storia del Neolitico, ora emerge un’altra costruzione megalitica, altrettanto misteriosa: una rete di un migliaio di tunnel sotterranei che avrebbe collegato la Scozia alla Turchia – dove, guarda caso, si trovano proprio gli scavi di Gobleki Tepe, al confine dell’Iraq…





Dopo la scoperta in varie parti d’Europa, tra cui Austria e Germania, di tratti di tunnel, scavati nella roccia, presumibilmente risalenti al Neolitico, Kusch avrebbe dedotto che intorno al 10000 a. C. una popolazione sconosciuta avrebbe costruito i tunnel, o perlomeno avrebbe dato vita al progetto di un mega tunnel sotterraneo che avrebbe unito l’Europa alla Turchia.

Il Dr. Kush ha infatti dichiarato al German Herald che in Baviera sarebbero stati rivenuti ben 700 metri di questa rete sotterranea, mentre in Austria 350 metri, ma in tutto si tratterebbe di un migliaio di tratti di galleria.

Se non possiamo ancora accertare l’esistenza di un unico tunnel sotterraneo scavato nella roccia e al di sotto del livello del mare, è innegabile l’esistenza di diversi tratti di gallerie risalenti, secondo gli studiosi, al Neolitico.

Ora, viene da domandarsi il perché di queste immani costruzioni, gli strumenti utilizzati per scavare gallerie sotterranee e il tempo impiegato.

In merito al primo interrogativo gli studiosi sembrano orientati a spiegare l’architettura neolitica come una forma di rifugio della popolazione dai “predatori” in superficie: uno stratagemma simile non trova però riscontro in studi o scoperte precedenti.

In secondo luogo, quanto tempo potevano passare rifugiati sottoterra i nostri avi senza canaline o condutture d’aria?

I passaggi sotterranei misurano all’incirca 70 cm, ma in alcuni punti si allargherebbero lasciando spazio a delle vere e proprie “camere” dall’utilizzo sconosciuto, che farebbero però pensare alla Camera del Re e alla Camera della Regina della Piramide di Cheope. Un inutile esercizio di sincretismo archeologico? Forse, ma anche nel caso della Grande piramide ci troviamo di fronte a dei veri e propri enigmi, come la mancanza di cartigli o iscrizioni, la presenza dello Zed, e la difficoltà di accesso alla Camera della Regina. La rete sotterranea poteva avere anche una funzione “iniziatica” come probabilmente aveva la Grande Piramide, o serviva soltanto come passaggio da un luogo all’altro del pianeta? E in questo caso, che importanza dovremmo dare alle leggende che narrano di costruzioni sotterranee e di popoli che abitavano nelle viscere della Terra? Gli uomini del Neolitico potrebbero aver “imitato” delle creature che vedevano entrare e uscire della grotte o da nascoste entrate al mondo infero?

In attesa di una conferma da parte dei geologi, la data di costruzione della rete sotterranea sembra coincidere con quella del sito di Gobleki Tepe. Ciò farebbe almeno supporre che possa essere esistita una popolazione anti diluviana più evoluta del classico “uomo del Neolitico”, come abbiamo imparato a conoscerlo dalle conclusioni dell’archeologia accademica. Senza con questo dover necessariamente rispolverare il mito di Atlantide, Lemuria o Mu, non è così inverosimile teorizzare che siano esistite popolazioni scomparse con il Diluvio (riportato dai miti e dalle religioni classiche e accertato dalla geologia) autrici di quelle vere e proprie “anomalie” del sistema storiografico che stentano a farsi ricomprendere sotto la categoria di civiltà “primitive”.

Non è certo perché avevano a disposizione “molto tempo libero”, come alcuni archeologi hanno ipotizzato, che culture classificate come “primitive” avrebbero potuto dare vita a una rete sotterranea di tunnel o ai megaliti di Gobleki Tepe, dotati soltanto di selci e molta pazienza. Il tentativo di banalizzare le scoperte contemporanee perché la loro portata storico-simbolica sfugge ancora ai nostri cervelli positivisti, è ridicolo. Ed è un insulto a quelle popolazione che hanno impiegato decine o centinaia di anni per dare vita a complesse costruzione, il cui fine ancora ci sfugge per nostra limitatezza, non a causa loro…

Se negli ultimi trent’anni stanno emergendo dei reperti – e in questo senso vanno ricomprese anche le ossa di scheletri di Giganti rivenute in tutto il mondo – che sfidano il sapere comune e che non sono per questo “catalogabili” negli schemi che ci siamo fissati finora, forse, sono quelli stessi schemi – per quanto difficile e doloroso possa essere – che dovrebbero essere riveduti. Dal punto di vista storico, antropologico, filologico questi reperti non possono essere stipati a forza in categorie che non li possono contenere. Questa è una violenza che uno storico per quanto convinto delle proprie “credenze” e di quanto appreso fino ad ora, dovrebbe rendersi umilmente conto.

In secondo luogo ci si dovrebbe chiedere quali strumenti siano stati utilizzati ben dodicimila anni fa per scavare questa rete sotterranea e se, come sostiene l’archeologo tedesco, in seguito sorsero in prossimità delle entrate alle gallerie luoghi di culto e Chiese.

L’esistenza di queste gallerie era forse conosciuta anche in un recente passato? E se così fosse, perché questo segreto è rimasto letteralmente “sepolto” fino ad oggi?

Fonte : ildemocratico

lunedì 26 marzo 2012

Dovevamo arrenderci: lo decise la Cia già al G8 di Genova

Scritto il 09/12/11 • nella Categoria: Recensioni
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Manovre lacrime e sangue per tutti tranne che per la “casta” mondiale, sovranità limitata o revocata, bavaglio universale all’informazione. Sindacati neutralizzati, banchieri al governo e partiti-fantasma ormai agli ordini dei signori dell’economia. Quello che oggi chiamiamo crisi era stato largamente previsto, dagli stessi super-poteri che, già nel 2001, prima ancora dell’11 Settembre, si preoccuparono di disinnescare sul nascere una potenziale bomba democratica planetaria, quella del movimento no-global. Diritti contro soprusi, cittadinanza contro privatizzazione. In altre parole: anticorpi civili per difendersi dalla globalizzazione selvaggia. Profeticamente, li pretendeva il “popolo di Seattle”. Fu fermato appena in tempo e nel modo più brutale, con il bagno di sangue noto come G8 di Genova.

E’ la tesi che fa da sfondo al drammatico libro-inchiesta “G8 Gate” firmato da Franco Fracassi per la giovane casa editrice Alpine Studio, nata come voce di qualità nel panorama italiano della narrativa specialistica d’alta quota ma poi, grazie al team guidato da Andrea Gaddi, sempre più disponibile a sondare il terreno minato della letteratura d’indagine: «Cresce la fame di verità, il bisogno di conoscere le vere ragioni di quello che ci sta succedendo», sostiene Gaddi, che nella collana “A voce alta” presenta titoli come quelli dedicati ai retroscena dell’attentato alle Torri Gemelle o al potere segreto dell’Opus Dei. In primissimo piano, grazie al lungo lavoro di Franco Fracassi, l’analisi sulle nuove forme della strategia della tensione: a cominciare dai black bloc, fantomatico gruppo di guastatori che nel 2011 ha «messo a ferro e fuoco Roma e incendiato i boschi della val di Susa», dopo aver devastato, una decina d’anni prima, Praga e Seattle. E soprattutto: Genova.

I black bloc «hanno un nome, ma non un volto». Sono note le loro azioni, ma non il perché le compiono: «I black bloc sono temuti, odiati, talvolta idolatrati, ma nessuno li conosce veramente», dice Fracassi, presentando il suo ultimo lavoro sui neri guastatori senza volto, sempre così puntuali quando si tratta di rovinare cortei importanti, molto temuti alla vigilia proprio perché pacifici. «Di loro si dice che sono anarchici, che sono poliziotti infiltrati, che sono pagati da chi vuole sabotare le manifestazioni e i movimenti di protesta, che sono fascisti camuffati, che sono semplici sbandati carichi d’odio e con la voglia di annichilire il mondo che li circonda». Il nome deriva da una sigla storica, quella degli antinuclearisti tedeschi. Ma è stato tristemente sdoganato soltanto a Genova, nella “macelleria messicana” scatenata dai reparti antisommossa nel 2001: «La polizia ha letteralmente massacrato dimostranti inermi, senza procedere all’arresto di un solo black bloc: ai “neri” è stato anzi permesso di devastare impunemente l’intera città».

Il libro di Fracassi ripercorre le tappe fatali della carneficina: dall’antipasto di Napoli del 17 marzo, in cui furono caricati selvaggiamente i manifestanti pacifici, fino al carnaio di luglio a Genova, con epicentro piazza Alimonda e l’atroce fine di Carlo Giuliani, nonché il corollario della vergogna: il pestaggio indiscriminato della scuola Diaz e poi le torture nella caserma di Bolzaneto. Cuore di tenebra del “buco nero” passato alla storia sotto il nome di G8 di Genova, la crudele uccisione di Giuliani: la pietra con cui si è infierito sul cadavere, fracassandogli il cranio nella speranza di inscenare un incidente credibile (il giovane no-global “ucciso accidentalmente da un sasso lanciato dai dimostranti”) e poi la sparizione della prova regina: Carlo Giuliani fu frettolosamente cremato, racconta la madre, Heidi, perché ai genitori fu raccontato che al cimitero non c’era posto per la tomba. Così, il forno crematorio cancellò per sempre anche il proiettile che Carlo aveva ancora nel cranio: fu davvero sparato dal carabiniere ausiliario Mario Placanica, che oggi chiede la riapertura del processo perché sia finalmente accertata la verità?

Allora reporter d’assalto per l’agenzia ApBiscom, Fracassi si calò fino al collo nella strana guerra civile che devastò le strade del capoluogo ligure, vivendo da vicino l’intero campionario dell’aberrazione andata in scena in quei giorni: la polizia che osserva le devastazioni dei black senza muovere un dito e poi, appena i “neri” si allontanano, carica senza misericordia i dimostranti inermi. Fotogrammi sconcertanti, che Fracassi offre ai lettori con l’immutata emozione dello sguardo ravvicinatissimo, delle manganellate ricevute, delle scene di terrore, della caccia all’uomo scatenatasi persino al pronto soccorso, tra i feriti più gravi. Pagine incalzanti, sempre nel cuore della tensione, tra le fila degli stessi agenti antisommossa – divenuti irriconoscibili, in preda a un’aggressività inaudita – e poi la prima linea delle “tute bianche”, tra ossa rotte e teste “aperte” dalle botte, fino agli inermi manifestanti cattolici: le suore colpite al volto, le ragazzine sfigurate e torturate. Ma soprattutto loro, gli inafferrabili black bloc.

Fracassi li ha seguiti da vicino, per ore: piccoli gruppi ben addestrati, pronti a devastare negozi, automobili e bancomat per poi sganciarsi rapidamente, sempre condotti al sicuro, nel dedalo dei vicoli, da misteriose “guide” perennemente al telefono: con chi? Con “qualcuno” che era perfettamente al corrente, in tempo reale, dei movimenti dei reparti antisommossa. Deduzione elementare, conclude amaramente il giornalista, che ha affrontato un estenuante lavoro di ricerca consultando anche fonti riservate, forze dell’ordine e servizi segreti. Proprio grazie alla sua tenacia, alla vigilia della mattanza riuscì a conquistare la fiducia di alcuni uomini della polizia: «Se vuoi vedere il macello, fatti trovare a mezzogiorno all’angolo tra corso Buenos Aires e piazza Paolo da Novi», gli anticipa un funzionario di polizia alla vigilia del fatale venerdì 20 luglio: «Arriveranno dei black bloc e distruggeranno la banca. Due-tre minuti al massimo. E’ quello il segnale dell’inizio». Fracassi si presenta nel luogo indicato, e i black bloc arrivano con puntualità cronometrica. Prima di intervenire, proprio come previsto, gli agenti attenderanno che si siano allontanati. Poi caricheranno, travolgendo soltanto innocenti.

Se a Genova, come è stato da più parti denunciato, «la democrazia è stata sospesa», non è mai stato chiarito, del tutto, da chi. Dal governo Berlusconi? Tesi debole: l’esecutivo è finito sulla graticola, esposto a critiche planetarie. L’allora vicepremier Fini dietro le quinte? La regia operativa probabilmente anomala, centralizzata nelle mani dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro che di fatto scavalcò le autorità genovesi, questura e prefettura? No, c’era ben altro: secondo Fracassi, chi a Genova “voleva il morto” non era necessariamente italiano. Anzi, quasi certamente era americano: «C’erano troppi interessi in gioco, e il movimento no-global allora era fortissimo e faceva davvero paura. A chi? Alle grandi banche, alla finanza mondiale, alle multinazionali». Genova doveva essere la consacrazione definitiva della protesta, la nascita ufficiale di un “sindacato mondiale” dei cittadini, pronto a mobilitarsi ovunque per difendersi dagli abusi della globalizzazione. Guai se a Genova il movimento avesse vinto: sarebbe diventato troppo ingombrante. Un brutto cliente, col quale i “padroni del mondo” avrebbero dovuto fare i conti. Meglio toglierlo di mezzo per tempo. Coi poliziotti? Ma no: coi black bloc.

Incolpare il governo Berlusconi e la polizia italiana per il massacro di Genova «significa non aver capito nulla di come va il mondo», avverte David Graeber, antropologo della Yale University ed esperto di fenomeni anarchici: «Nei fatti di Genova, il governo americano è infinitamente più coinvolto di quello italiano». Secondo l’antropologo consultato da Fracassi, «Genova non è stata altro che il punto terminale di una strategia avviata a Seattle, sviluppata a Praga e terminata in Italia». Movente: «Nel luglio 2001, all’amministrazione Bush interessava molto di più combattere il movimento no-global che Al-Qaeda: era quella la priorità della Casa Bianca». Un altro americano, Wayne Madsen, reduce dagli scontri al Wto di Washington l’anno prevedente, rivela: «Ho raccolto documenti e testimonianze dall’interno del movimento anarchico Usa e dell’intelligence». Cia, Fbi e Dia organizzavano e guidavano gruppi di devastatori anche nelle manifestazioni no-global nel resto del mondo? «E’ il loro modo di agire, ovunque ci siano interessi americani da difendere».

Per “G8 Gate”, Fracassi ha sondato centinaia di fonti. Tutte convergono drammaticamente verso un’unica ipotesi: a Genova si “doveva” spezzare le gambe, a tutti i costi, al nuovo movimento democratico mondiale. Obiettivo, veicolare il messaggio più esplicito: “Restate a casa, rinunciate a scendere in piazza perché può essere pericoloso”. Mandanti: le grandi multinazionali e persino le loro fondazioni, all’apparenza innocue e filantropiche, in realtà strettamente collegate con settori dell’intelligence. Disponibilità economica: illimitata. E poi la manovalanza principale della missione: i mercenari chiamati black bloc, ben addestrati in gran segreto e specializzati nelle tattiche della guerriglia urbana. «Le forze dell’ordine presenti a Genova – riassume Fracassi – sarebbero state in parte complici e in parte impotenti di fronte ai devastatori», i “neri” sbucati dal nulla e rimasti totalmente impuniti. «Grazie a una sapiente regia mediatica», tutto è avvenuto «di fronte ai giornalisti, ai fotografi e alle telecamere di tutto il mondo, che avrebbero creduto di raccontare le azioni di una formazione chiamata Black Bloc».

Ma tutto questo da chi sarebbe stato finanziato e poi coperto? Una domanda, ricorda Fracassi, che si era posto retoricamente anche il generale Fabio Mini, già comandante delle forze Nato in Kosovo: come avrebbero fatto, i “neri”, «a partire da Berlino e a venire a Genova potendo passare indisturbati tutte quelle frontiere?». E poi: chi ha pagato quel viaggio? «Lei ha una risposta?», domanda Fracassi. «Certo», risponde Mini: «Ci sono organizzazioni che sono fatte apposta per questo genere di cose: si occupano della logistica, della gestione delle risorse, della protezione di chi partecipa alle operazioni». Sia meno vago, lo incalza Fracassi. «Non posso», ammette malinconicamente il generale Mini.

Se è noto che in quei giorni a Genova c’erano non meno di 700 agenti dell’Fbi, Daniele Ganser, insegnante di storia a Basilea ed esperto di organizzazioni coperte come Gladio e Stay Behind, sostiene che la cooperazione tra servizi segreti americani e italiani sarebbe andata «ben oltre il semplice controllo dell’ordine pubblico». Il professore svizzero mette in relazione il Sismi con la Nsa, l’agenzia centrale di intelligence di Washington: «Secondo lei – dice a Fracassi – da chi provenivano le informazioni sulle “tute nere” dall’estero? E’ l’Nsa che ha il compito di intercettare le comunicazioni telefoniche, i fax, le e-mail. Poi le ha passate alla Cia, che a sua volta che ha date al Sismi», conclude Ganser. «A Genova erano presenti entrambi i servizi segreti, italiano e americano: le risulta abbiano fatto qualcosa per fermare i “neri”?».

(Il libro: Franco Fracassi, “G8 Gate”, dieci anni d’inchiesta: i segreti del G8 di Genova, Alpine Studio editore, 229 pagine, euro 14,90. Info: Alpine Studio).

Schiavi alla catena: la Fiat azzera i diritti del lavoro

Scritto il 14/12/11 • nella Categoria: segnalazioni
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C’era una volta il contratto nazionale di lavoro, una delle più importanti conquiste democratiche del nostro secondo dopoguerra. Da ieri non c’è più, grazie allo strappo di Sergio Marchionne e al cambiamento di natura della Cisl e della Uil che da sindacati generali hanno scelto di regredire alla funzione di sindacati aziendali corportativi. Fim e Uilm, infatti, insieme ad altri sindacatini padronali e di destra, hanno firmato l’estensione del cosiddetto “contratto Pomigliano” a tutti gli 86 mila dipendenti della Fiat. Senza alcuna delega da parte dei lavoratori ai quali sarà negato, oggi e per sempre secondo il diktat Fiat e grazie all’articolo 8 della manovra Berlusconi-Sacconi, di esprimersi con un voto su quel che è stato deciso sulla loro pelle.

C’erano una volta anche le Rsu, figlie più o meno legittime degli antichi consigli di fabbrica, che comunque rappresentavano le volontà e il voto dei lavoratori. I delegati eletti democraticamente saranno ora sostituiti da àscari nominati dai sindacati firmatari degli accordi. Non si potrà più conoscere il consenso delle singole sigle perché i lavoratori sono stati retrocessi a pura mano d’opera, privi di diritti e di rappresentanza. In Fiat, come in tutte le aziende italiane, c’era una volta la Fiom, 110 anni di vita, lotte, sconfitte e conquiste, il sindacato dei metalmeccanici più rappresentativo quando le rappresentanze venivano elette. Dal 1° gennaio del 2012 non ci sarà più nelle fabbriche dell’eroe dei due mondi Sergio Marchionne. Perché no? Perché la Fiom non ha accettato il diktat Fiat rifiutandosi di firmare il contratto di Pomigliano.

C’era una volta il diritto di sciopero. E ad ammalarsi, a contrattare organizzazione del lavoro e straordinari. La firma di ieri ha cancellato in blocco questi diritti. Se vogliono lavorare, gli operai dovranno accettare queste regole. Neanche questo è vero perché la Fiat sta andando a rotoli e viene chiuso uno stabilimento dopo l’altro. L’unica cosa che si può dire è che, grazie alla complicità dei sindacati di complemento, il padrone si è ripreso in mano tutto il potere. E’ la vendetta rispetto alle conquiste del ‘69 e degli anni Settanta. Una vendetta preparata lungamente con la complicità dei governi e della politica, quasi tutta la politica. La manovra di Marchionne si affianca alla manovra di Monti e insieme rappresentano i pilastri di una nuova era, basata sulla dittatura della finanza e dei padroni. Il terzo pilastro è l’insieme del sindacato confederale, con l’eccezione della Cgil se finalmente sceglierà di schierarsi con la “sua” Fiom senza se e senza ma. Il quarto pilastro è il Partito democratico, frantumato al suo interno e incapace persino di comprendere i passaggi epocali.

(Loris Campetti, “Firmato l’accordo della vergogna, la Fiom fuori dalle fabbriche”, da “Il Manifesto” del 13 dicembre 2011).

idee LIBRE friends LIBRE news Recensioni segnalazioni Denaro per noi, non contro di noi: tutti a lezione da Wray

Decenni di crisi e di stentata sopravvivenza grazie all’aiuto dello Stato. Poi arriva l’uomo di Detroit, e che fa? Appena la Fiat rialza la testa, anziché rilanciare il lavoro, ne approfitta per demolire cinquant’anni di diritti: fine dell’umanesimo operaio. E’ la globalizzazione, si giustifica Marchionne. La dittatura della finanza: un padrone remoto che emana diktat e impone contratti-capestro, prendere o lasciare. Il tutto, nell’assordante impotenza della politica, ridotta a subire gli ordini impartiti dai tecnocrati di Bruxelles, i maggiordomi dei veri padroni del mondo: le grandi multinazionali, il super-potere finanziario che ricatta popoli interi con lo spettro del debito. Come se ne esce? In un solo modo: recuperando sovranità. A cominciare dalla moneta: non più un cappio al collo, ma una leva formidabile a nostra completa disposizione, progettata per il nostro benessere dal nostro maggiore “sindacato”: lo Stato.

E’ la premessa della Mmt, Modern Money Theory: la teoria della moneta moderna, messa a punto dagli economisti americani che hanno guidato la resurrezione dell’Argentina sprofondata nella catastrofe e poi ribellatasi al giogo del Fondo Monetario Internazionale. La sostiene con entusiasmo Paolo Barnard, spigoloso giornalista e saggista da anni impegnato nella denuncia di quello che chiama “il più grande crimine” della storia moderna: la riduzione in sostanziale schiavitù dei cittadini-lavoratori progressivamente globalizzati. Secondo Barnard, la piena occupazione era possibile: bastava adottare le soluzioni di Keynes, il primo ad accorgersi che solo lo Stato, attraverso la spesa sociale strategica, avrebbe potuto distribuire benessere a piene mani. Prosperità durevole, per tutti? Possibile, se la ragione sociale non è il profitto. Ma se lo Stato finisce per essere a sua volta “privatizzato” da chi invece punta solo al profitto, allora non c’è scampo. Specie se lo Stato perde anche la sua arma fondamentale: la moneta.

Era il lontano 1943, e un francese di nome François Perroux si esprimeva senza reticenze. Già allora, mentre il mondo se la vedeva ancora con le armate di Hitler, monsieur Perroux spingeva lo sguardo molto avanti: sosteneva che, allo Stato, bisognava riuscire a togliere la sua ragion d’essere, cioè la capacità di spendere denaro, a deficit, in favore dei cittadini. Un disegno di lunghissimo respiro, concepito dalle oligarchie planetarie sconfitte dall’avanzata delle democrazie figlie della rivoluzione industriale. Da una parte il super-potere già terriero e padronale, dall’altra la nuova politica democratica, i partiti, i sindacati, le legislazioni sociali. Negli anni ’60 e ’70, sotto la spinta potente delle riforme popolari in tutto l’Occidente, il super-potere ha davvero tremato, temendo di perdere per sempre i propri antichi privilegi. Poi, negli anni ’80, ha scatenato la sua riscossa storica, riuscendo a “rimettere in riga” cittadini e lavoratori: troppi diritti ne stavano facendo una maggioranza pericolosa, autonoma, determinata, democratica. Che andava fermata.

Barnard denuncia una sorta di golpe mondiale, le cui strutture-chiave sono il Wto, la Commissione Trilelaterale, il gruppo Bilderberg. Il quartier generale di Wall Street, i vertici mondiali dell’industria e della finanza. Che avrebbero letteralmente ingabbiato l’Europa, preparando il dramma che oggi invade la cronaca: governi legittimi rassegnati all’impotenza, trattati-capestro come quelli di Maastricht e di Lisbona. Imputato principale: l’Unione Europea non democratica. E a monte, un peccato originale: l’euro. Non in quanto moneta comune, ma in quanto moneta privata: moneta che gli Stati europei non possono stampare, ma sono costretti a farsi prestare a caro prezzo dalla Bce, la banca centrale anch’essa privata, dominata dai super-padroni del pianeta e destinata, per statuto, a non essere “prestatore di ultima istanza”. Per chi lavora, la Bce? Non per noi, ma per i suoi veri azionisti: i super-proprietari della Terra, signori del nostro futuro.

A partire dallo choc per la crisi greca, la parola sovranità ormai domina il dibattito tra le voci più critiche: mentre il fantasma della politica si lascia commissariare dal “governo tecnico” di turno, sotto i colpi del “rigore” che colpisce tutti – dagli operai di Marchionne ai precari, alle famiglie, ai pensionati – il problema del recupero di sovranità si va facendo evidente, palese, assillante. E’ in pericolo il futuro della comunità nazionale, governata attraverso elezioni democratiche: ormai lo Stato è scavalcato, a monte, da decisioni remote, imposte da tecnocrati non-eletti. Decisioni spesso oscure e in ogni caso rovinose per i cittadini. Lo Stato è ridotto all’impotenza, dice Barnard, perché si è realizzato il sogno teorizzato da quel francese, Perroux, e dai suoi sodali: neutralizzare i popoli, privandoli del loro “sindacato” istituzionale. Come? Sottraendogli il portafoglio, il potere di spesa. Massima perversione: privatizzare la moneta, unica vera ragion d’essere del potere pubblico.

Meglio ripartire da lì, allora, per tentare di salvarsi davvero: come ha fatto, ad esempio, l’Argentina. Ricette: quelle indicate da Premi Nobel ed economisti come Stiglitz e Krugman, che bocciano – come crudeli e inutili – le sofferenze “tecniche” imposte da ricette come quelle di Monti, basate sull’austerità. Quello che propone Barnard è un seminario di studio: tutti a lezione dai professori americani della Modern Money Theory. Il giornalista ha lanciato un appello dal suo cliccatissimo sito Internet: sono aperte le adesioni, on line, per organizzare una due-giorni con Randall Wray, Stephanie Kelton, Warren Mosler, Marshall Auerback, William Black. Prestigiosi accademici statunitensi, in prima linea contro la grande menzogna che ha creato la nuova schiavitù: solo una nuova moneta, pubblica e statale, può ricostruire un’economia salva-vite, salva-nazioni, salva-democrazie.

In questa clamorosa iniziativa, Barnard spende il suo acuminato carisma polemico, frustrato dall’assenza di soluzioni pratiche immediate, data la spaventosa latitanza della politica. A chi lo segue, il giornalista bolognese (co-fondatore di “Report”) offre una sponda concreta sul versante che predilige: studiare, per meglio imparare a difendersi. In modo da non faticare, domani, a smontare dogmi e teorie che pretendono di discendere dalla fisiologia inevitabile del mondo. Non è così: se siamo nei guai è perché qualcuno l’ha voluto. E il primo passo per uscirne è la conquista di un nuovo alfabeto della verità, da declinare in moneta sonante: la Modern Money Theory è la soluzione. Significa: restituire il denaro agli Stati, in modo che tornino a fare il proprio dovere: spenderlo per noi, con investimenti strategici che producano lavoro, sicurezza e futuro, anziché disperazione e depressione.

(Sul sito di Paolo Barnard le adesioni on-line per il forum formativo di due giorni, in Italia, con i prestigiosi economisti americani della Modern Money Theory).

Giulietto Chiesa: difendiamoci insieme, o ci fanno a pezzi

Scritto il 10/2/12 • nella Categoria: idee
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L’Italia sta male, e domani starà malissimo? Niente paura: il presidente americano applaude. Barack Obama, premio Nobel per la pace reduce della guerra in Libia e attualmente impegnato a preparare in Siria la prossima grande guerra, quella contro l’Iran, plaude allo stratega Mario Monti. E’ il suo uomo, ha le carte in regola: Goldman Sachs, Trilaterale, Bilderberg, Commissione Europea. Il popolo italiano è in buone mani: nessun pericolo che possa far pesare la propria volontà democratica. Nel giugno 2011, coi referendum, avevamo votato per i beni comuni? Perfetto: con Mario Monti, si privatizzerà tutto. Gli italiani volevano la testa di Berlusconi? Be’, l’hanno avuta. E adesso, per favore, subiscano in silenzio il nuovo programma terminale: la fine della sovranità democratica, motivata ovviamente dall’emergenza del debito. Risultato già scritto: declino e crisi infinita.

Se il manistream racconta favole quotidiane – il buon governo dei saggi che fa crollare lo spread, quasi che la finanza fosse un’entità incorporea e magica, e non un’orchestrazione criminale di poteri occulti che ammassano miliardi spennando popoli – sul web sono tutti bravissimi ad azzardare analisi documentate, smascherando l’impostura: quello che viene abilmente contrabbandato come “risanamento”, e accolto con quasi unanime sollievo dopo gli anni impresentabili del club di Arcore, è la vera punizione. Gli eccessi autocratici del piccolo satrapo milanese non erano niente, in confronto a quello che verrà. Semmai, il super-potere può ringraziare quello che Beppe Grillo chiamava lo “psico-nano”: senza il suo impareggiabile avanspettacolo, l’anonimo e grigio giustiziere Mario Monti non avrebbe mai potuto ottenere i pieni poteri, per conto dei signori delle banche. Obiettivo: fare piazza pulita, una volta per tutte, di cinquant’anni di democrazia italiana: malfunzionante, occupata militarmente dai partiti, ma pur sempre democrazia.

Con la sola eccezione della Lega Nord, i partiti-fantasma – rassegnati all’inciucio “patriottico” officiato dal Quirinale – ora studiano una nuova legge elettorale meno indecente dell’attuale, ma comunque sufficiente a tenere lontani gli italiani dalla possibilità di eleggere davvero il Parlamento. Eppure sono ormai piccole manovre: dal 1° gennaio 2013, avverte Paolo Barnard, promotore del primo summit mondiale sulla Modern Money Theory, grazie al nuovo dispositivo europeo chiamato “Fiscal Compact”, la capacità autonoma di spesa di ogni Stato europeo sarà ridotta praticamente a zero: l’ente pubblico non potrà spendere per i cittadini più di quanto i cittadini non gli diano in tasse. Faremo bingo, profetizzò nel lontano 1943 il francese François Perroux, quando saremo riusciti a privare gli Stati della loro ragion d’essere, cioè la capacità di spesa.

Ci raccontano che il problema è il debito? Mentono: il problema è la privatizzazione del debito pubblico, messo all’asta sul mercato finanziario mondiale, e non più negoziabile mediante una autonoma politica monetaria. Fino a quando uno Stato dispone di moneta sovrana, dicono gli economisti americani che hanno salvato l’Argentina dal default, mantiene capacità pressoché illimitate di copertura e di spesa strategica per favorire domanda e occupazione, generando quindi le risorse necessarie a rimediare a qualunque difficoltà. Nessuna speranza dunque per l’Europa, dominata dalla dittatura della Commissione, governo onnipotente di tecnocrati non eletti da nessuno, a servizio esclusivo dei poteri forti tramite il sistema-prigione dell’euro, moneta che gli Stati sono costretti a prendere a presto (a caro prezzo) dalla Bce: con tanti saluti alla sovranità, e senza che i popoli abbiano mai avuto la minima possibilità di fermare, con un solo voto democratico, questa spirale neo-feudale.

Se Barnard insiste sul problema cruciale della sovranità monetaria, da cui fa discendere ogni altra forma di cittadinanza democratica, non si può trascurare che la grande crisi non è solo finanziaria: sono in moltissimi a ripetere che il sistema industriale dell’Occidente, esteso al resto del mondo con la globalizzazione, ha ormai i giorni contati. Dietro l’angolo, prima ancora della crisi energetica destinata ad esplodere col superamento del picco del petrolio e l’esplosione demografica di paesi-continente come la Cina e l’India, c’è la crisi climatica che, secondo le Nazioni Unite, genererà migrazioni bibliche e catastrofi economiche a causa del progressivo inaridimento dei suoli a partire dall’emisfero meridionale della Terra. Questi, in teoria, sarebbero i problemi coi quali dovrebbe misurarsi la politica: perché in ogni più piccolo paese si riflettono le carenze e le speculazioni irresponsabili di chi dovrebbe affrontare con ben altra serietà la governance planetaria.

Limiti fisiologici della crescita? Sorridono, i super-potenti, di fronte alle obiezioni di un eco-economista come Latouche. E Mario Monti, sbiadito discepolo dell’oligarchia finanziaria mondiale, responsabile dell’attuale disastro, ripete come un disco rotto la sua triste barzelletta: massacrare gli italiani produrrà crescita. Non importa se a smentirlo è un premio Nobel per l’economia come Paul Krugman, secondo cui il rigore non può che debilitare il malato, fino ad ucciderlo. Krugman? Per Barack Obama e Mario Monti, evidentemente conta ancora meno di Latouche. E se questo è l’orizzonte internazionale, gli italiani sono completamente neutralizzati: possono infatti scegliere tra Bersani, che sorregge Monti, e gli eredi di Berlusconi, anch’essi sostenitori di Monti. Altra opzione: restare a casa, disertando le urne. Ipotesi che ormai, secondo i sondaggi, tenta seriamente quasi un italiano su due.

Fra quanti non si rassegnano a questo sostanziale suicidio democratico c’è un valoroso giornalista come Giulietto Chiesa, le cui denunce internazionali – come quella sulle incredibili menzogne dell’11 Settembre – lo hanno spinto sul terreno diretto della politica, con una motivazione lacerante: l’enorme vuoto politico che minaccia l’Italia. Bersani e Berlusconi? Sono praticamente la stessa cosa, obbediscono ai medesimi poteri forti che – attraverso Napolitano – hanno messo in campo Monti. E se non ci sarà un risveglio democratico, il futuro nuovo governo non avrà scelta: dovrà obbedire a Bruxelles, rinunciando a governare direttamente l’Italia. Possiamo fare qualcosa? Ce lo meriteremmo, dice Giulietto Chiesa, perché a votare per i beni comuni, nel giugno 2011, è stata la maggioranza assoluta: il 53% del corpo elettorale. E dunque?

Inutile illudersi che 50 milioni di persone riescano a mobilitarsi in modo permanente: occorre una struttura politica organizzata, che consenta a quei 50 milioni di tornare a partecipare alla vita democratica. Da sola, la democrazia diretta non è praticabile: serve «un intreccio fecondo tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta», grazie a «nuove forme di partecipazione». Per opporre resistenza allo sfacelo della democrazia, serve una massa critica sufficiente: «Non basta la sommatoria di mille esperienze separate: questo avremmo dovuto capirlo da tempo, in molti». Circoli, club, associazioni, movimenti: milioni di italiani, che non si riconoscono nell’attuale offerta politica. «Non mi stanco di ripeterlo: dobbiamo unirci», insiste Giulietto Chiesa, «perché la crisi sta arrivando a grandi falcate, con la sua lama tagliente che ci scarnificherà tutti, se non sapremo difenderci».

E mentre l’Italia sta per crollare, giornali e televisioni tentano di raccontare che il peggio è passato: il radar è già praticamente oscurato. «I tempi non saranno molto lunghi: coloro che ci stanno portando al disastro ci stanno portando anche alla guerra, e dobbiamo sapere che possiamo trovarci, d’un tratto, in una situazione di gran lunga più grave di quella di adesso». Potrebbe mancarci il tempo di capire, il modo di organizzare un’autodifesa. L’unica cosa certa è che, restando in ordine sparso, la sconfitta sarà garantita. Vinceranno i poteri forti: quelli che ieri lucravano al riparo della “casta”, che oggi progettano grandi affari con Mario Monti e che domani chiuderanno il destino dell’Italia direttamente negli uffici di Bruxelles e Francoforte. Dobbiamo prepararci a difenderci da soli, avverte Giulietto Chiesa, perché nessuno verrà in nostro aiuto: «Siamo in tanti, ma siamo divisi: dobbiamo risolvere questo problema, per il nostro bene». Fin che ci resta la Costituzione democratica, abbiamo ancora una possibilità. Una sola, l’ultima.

a diserzione della politica: cittadini sempre più indifesi

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Scritto il 16/3/12 • nella Categoria: idee
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L’incredibile Bersani demolito in mondovisione da Marco Travaglio in soli 13 minuti, senza essere riuscito a dire una parola a giustificazione della Tav Torino-Lione. E poi Alfano che blatera contro il “pericolo rosso” e le nozze gay, mentre il suo capo Berlusconi festeggia l’assoluzione di Dell’Utri in Cassazione. Così, il dialogo con la popolazione italiana – dalla valle di Susa militarizzata alle retrovie dell’ultimo corteo romano della Fiom – è affidato ai reparti antisommossa, mandati “al fronte” da un governo di anonimi tecnocrati che nessuno ha eletto. Ormai, avverte Lorenzo Guadagnucci, stanno usando la polizia contro di noi, secondo lo schema inaugurato al famigerato G8 di Genova: per Andrea Camilleri, quelle erano «prove tecniche di colpo di Stato».

Già allora, scrive Franco Fracassi nel suo libro-inchiesta sulla mattanza del 2001, svariati indizi autorizzarono un sospetto: la polizia italiana fu indotta alla violenza da poteri molto più forti di quelli che dirigono il Viminale. Sovranità limitata, persino nella gestione dell’ordine pubblico? La tesi di Fracassi, argomentata con precisione nel volume “G8 Gate” edito da “Alpine Studio”, si avvale di fonti autorevoli, internazionali e anche italiane, come il generale Fabio Mini, già capo delle forze Nato in Kosovo: “qualcuno” sapeva benissimo che Genova sarebbe stata invasa e devastata dai black bloc, addirittura “introdotti” in Italia con viaggi finanziati da “apposite strutture”, ovviamente “coperte”; quello che gli italiani non potevano sapere è che la polizia non sarebbe “riuscita” a fare nulla per fermarli.

Perché? Molto semplice, dice il libro di Fracassi, citando testimoni statunitensi ed europei: Genova era presidiata da agenti dell’Fbi e l’intera gestione del G8 era in mano all’intelligence americana, che – fin dall’inizio – avrebbe “ordinato” alla polizia italiana di non intercettare i black bloc; al contrario, gli agenti avrebbero dovuto travolgere con inaudita violenza i manifestanti inermi. Messaggio esplicito, secondo il copione collaudato a Seattle: chi protesta contro le ingiustizie sappia che, d’ora in poi, lo farà a rischio della propria incolumità. Democrazia sospesa, denunciarono i contestatori a Genova: se lo Stato non garantisce più il diritto di manifestazione e di espressione, addio libertà democratiche.

Il movente fondamentale? La paura. Il super-potere mondiale, che aveva appena insediato a Washington il gruppo di George Bush – i neoliberisti bellicosi del Nuovo Secolo Americano, pronti a qualsiasi crimine pur di difendere il privilegio della supremazia Usa – erano letteralmente terrorizzati dal movimento “no global”, di cui intuivano la pericolosità politica: caduta l’Unione Sovietica, il “popolo di Seattle” rappresentava una nuova forma di contestazione virale del capitalismo selvaggio e globalizzato, tanto più minacciosa perché interna, partorita proprio dalle università dell’Occidente. Poteva nascere una “rivoluzione dei diritti” su scala mondiale, profumata di Rinascimento? E allora andava neutralizzata subito, soffocata nella culla, prima che potesse indurre il germe del dubbio nell’ignara opinione pubblica ipnotizzata dai media.

Non a caso, negli ultimi dieci anni, proprio la narrazione mediatica è finita nel mirino. Stessa tesi, da Michael Moore a Giulietto Chiesa, da Noam Chomsky a Naomi Klein: solo narcotizzando milioni di persone è possibile “vendere” la versione unilaterale di eventi cruciali tutt’altro che chiariti, come il super-attentato dell’11 Settembre e il “funerale con rito islamico” del fantasma di Osama Bin Laden, per non parlare di menzogne strepitose come le “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein o le recentissime “fosse comuni”, altrettanto inesistenti, di Muhammar Gheddafi. La disinformazione, vera arma di distruzione di massa, monopolizza l’audience e annienta il pensiero critico, relegandolo al rango di espressione folkloristica partorita da una minoranza eretica. Fino a quando? Persino all’epoca della Dc, protesta Paolo Ferrero dopo le ultime cariche della polizia in valle di Susa, la politica sapeva ascoltare il popolo: ora invece si preferisce delegare il “dialogo” ai soli reparti antisommossa.

Ha fatto il giro d’Italia il video nel quale un militante No-Tav provoca un carabiniere chiamandolo “pecorella”; rimasto esemplarmente composto, il giovane militare è stato encomiato dal comandante generale dell’Arma, perché ha fatto bene il suo dovere. Applausi sono arrivati anche da politici di destra e di sinistra: che, a differenza del giovane carabiniere, non hanno fatto il proprio dovere – che era quello di parlare con i cittadini italiani che vivono in valle di Susa e da vent’anni chiedono inutilmente che qualcuno spieghi perché mai si debba fare scempio della loro valle per aprire la strada all’inutile, costosa e probabilmente mafiosa Torino-Lione. Costringere i manifestanti al contatto con le forze dell’ordine, unico interlocutore sul campo: sembra il capolavoro finale di chi il dialogo non l’ha mai voluto. Oggi ho paura della polizia, confessa il filosofo Gianni Vattimo, definendo “fascista” il governo che costringe gli agenti a militarizzare la valle di Susa. Proviamo almeno a parlarci, replica su Facebook un poliziotto come Maurizio Cudicio, anche lui a disagio per lo sconcertante evolversi di una situazione la cui evidente responsabilità è della politica, o meglio della sua eclissi totale.

I partiti non esistono più, sono sordomuti, non mediano con la popolazione e si trincerano dietro ai tecnocrati e ai diktat della Bce. Per questo sale sulle barricate un sindacato come la Fiom, invadendo il terreno lasciato vuoto dalla politica. Da quando? Da molto tempo, sostiene il solitario giornalista Paolo Barnard, che nel saggio “Il più grande crimine” elabora una tesi estrema, ultra-eretica ma purtroppo sempre più profetica: la nostra sovranità democratica è stata sostanzialmente sequestrata dal super-potere mondiale di quelli che oggi l’ex ministro Giulio Tremonti definisce “nazisti bianchi”. Sono i “padroni universali”, gli antichi eredi del latifondo mai rassegnatisi all’avanzata delle democrazie partecipative del dopoguerra e pronti, oggi – attraverso l’arma micidiale della finanza – a prendersi una rivincita storica, abolendo diritti e retrocedendo interi popoli, a cominciare da quello greco, al rango di plebi di ex-cittadini sempre più precari, di nuovi schiavi del lavoro, impauriti dal futuro e tormentati dal bisogno.

Ci sono pietre miliari che, nel silenzio-assenso generale, hanno segnato il nostro destino: il Trattato di Maastricht, con la cessione all’Unione Europea delle sovranità nazionali senza prima la necessaria validazione democratica di un referendum, fino all’adozione dell’euro come moneta comune ma non pubblica, che gli Stati devono prendere a prestito a caro prezzo attraverso la Bce, che tutela i maggiori gruppi bancari privati. Una lunga catena di decisioni storiche, mai discusse: dal Trattato di Lisbona al recentissimo Fiscal Compact, che dal 2013 priverà gli Stati della residua autonomia finanziaria: i bilanci dovranno essere prima validati da Bruxelles e in nessun caso saranno ammessi investimenti aggiuntivi di carattere sociale. Ogni paese – in virtù dell’ideologia neoliberista dominante – non potrà più spendere per i propri cittadini più di quanto i cittadini stessi non versino allo Stato sotto forma di tasse.

L’Italia, nonostante l’evasione fiscale, ha comunque un surplus di bilancio e, sommando il debito pubblico all’esposizione bancaria di imprese e famiglie, è il secondo miglior paese europeo dopo la Germania. Eppure, i “padroni universali” hanno creato la tempesta dello spread fino a far cadere il governo democraticamente eletto, per insediare a Palazzo Chigi il loro uomo, Mario Monti, già consigliere strategico della Goldman Sachs, la banca d’affari che ha rovinato la Grecia, nonché membro del Gruppo Bilderberg e della Commissione Trilaterale, cioè le principali strutture mondiali del super-potere oligarchico che domina il mondo, in nome dei privilegi dei super-padroni.

Paolo Barnard li chiama “criminali”, e spiega: privatizzando anche la moneta, hanno tolto allo Stato la sua capacità fisiologica di gestire il debito a favore dei cittadini, attraverso lo strumento principe della propria valuta sovrana. E’ la tesi della Modern Money Theory, formulata dai grandi economisti americani che hanno salvato l’Argentina dal disastro liberando la divisa nazionale dal cambio fisso col dollaro e rimettendo il paese sudamericano in condizioni di investire su se stesso. Costruendo un evento politico senza precedenti, a febbraio Barnard ha convocato gli economisti americani per un summit a Rimini, completamente autofinanziato dai partecipanti: il primo tentativo mondiale di spiegare l’economia democratica direttamente ai cittadini. Erano oltre duemila i partecipanti, nel silenzio generale dei media con la sola eccezione del “Fatto Quotidiano”.

Quando Bush invadeva l’Afghanistan dell’ex collaboratore Osama Bin Laden e poi l’Iraq dell’ex alleato Saddam Hussein, televisioni e giornali ridevano dei climatologi “catastrofisti” che denunciavano l’emergenza climatica, che oggi – secondo l’Onu – produrrà la più disastrosa migrazione della storia del pianeta, con la fuga di milioni di persone dall’emisfero meridionale devastato e inaridito dalla siccità. Lo diceva già il “popolo no global”, spazzato via dalle piazze di Seattle e poi di Genova a suon di manganellate, le stesse con le quali le autorità hanno accolto a New York il temutissimo movimento “Occupy Wall Street”. Tutto inutile, per il momento: in Italia la finanza mondiale ora siede direttamente al governo e – d’intesa con gli oligarchi della Commissione Europea, anch’essi non eletti da nessuno – progetta lo smantellamento sistematico del welfare, la spoliazione dello Stato, la chiusura degli spazi pubblici e dei servizi sociali, la privatizzazione dei beni comuni.

Oltre alla catastrofe della finanza, alibi perfetto per confiscare diritti civili inaugurando la politica del rigore che colpisce tutti fuorché le banche e le multinazionali, il mondo è palesemente privo di una governance democratica per affrontare le altre grandi crisi, da quella dell’energia – superato il picco del petrolio – a quella della crescita. L’economia occidentale è in recessione: secondo studiosi come Serge Latouche lo sviluppo ha raggiunto i suoi limiti fisiologici avvelenando il pianeta, ma nessun capo di Stato o di governo ha il coraggio di annunciare la verità, primo passo per varare le indispensabili contromisure. Solo in Italia, rinunciare alla Torino-Lione, agli inceneritori e ai caccia F-35 genererebbe centinaia di migliaia di posti di lavoro “utili” e strategici, concentrando investimenti sul trattamento ecologico dei rifiuti, sulla sistemazione idrogeologica e sull’immenso risparmio energetico che si otterrebbe ristrutturando gli edifici, con impressionanti ricadute positive sull’occupazione nel settore edilizio.

Nulla di tutto ciò è nell’agenda del governo, che secondo Ugo Mattei pensa solo a come seppellire definitivamente il risultato democratico dei referendum del giugno 2011 per la difesa dei beni comuni, in perfetto accordo con i “padroni universali” a cui fanno gola i nostri “gioielli di famiglia”, come dice l’ex ministro socialista Rino Formica, che accusa direttamente Mario Draghi di aver piegato l’Italia ai voleri della Germania, attraverso il ricatto finanziario della Bce. Sovranità, diritti, conquiste: una sconfitta dopo l’altra, da vent’anni, e senza più neppure il velo della legittimità democratica, ora che la politica si è dissolta e il super-potere sembra aver gettato la maschera, scendendo in campo in prima persona.

L’opinione pubblica è disorientata: secondo i sondaggi, in mancanza di alternative, alle prossime elezioni voterebbe solo un italiano su due. Gli attuali partiti? Ridotti a gruppi di interessi e caste di addetti ai lavori, affollate di mezze figure buone per le cronache giudiziarie e abbarbicate ad appalti miliardari per infrastrutture-fantasma come la Torino-Lione, che non sanno neppure giustificare. Fallimento storico della politica? Pessima notizia, per tutti: senza più rappresentati legittimi, i cittadini sarebbero totalmente indifesi. E se anche il “popolo dei referendum” dovesse ottenere un’improbabilissima e clamorosa rivincita, il giorno dopo dovrebbe vedersela con gli amici di Monti e Draghi, signori dello spread e padroni del nostro futuro, già scritto – a nostre spese – dalle lobby onnipotenti da cui prendono ordini gli oscuri tecnocrati di Bruxelles. Che fare? Da dove cominciare, per provare a riaffacciarsi sul futuro? Lo ha detto l’ex premier socialista francese Michel Rocard: i popoli europei non si meritano questo ordinamento neo-feudale, è ora di stracciare i trattati e riscrivere le regole tutti insieme, partendo da una parola semplicissima e disastrosamente dimenticata: democrazia.

Licenziare per crescere? Barnard: siete bugiardi e criminali

Scritto il 15/3/12 • nella Categoria: idee
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Licenziare per crescere? Follia, ossimoro. Ma attenti: il nuovo dogma riciclato dal club di Mario Monti in realtà è roba vecchia. La coniò cent’anni fa l’economista inglese Arthur Cecil Pigou, alfiere della scuola “neoclassica” europea, nemica dell’economia democratica fondata sulla condivisione progressiva della ricchezza prodotta. Quello di Pigou non era un errore, ma un calcolo: impoverire milioni di lavoratori significa innanzitutto concentrare fortune inaudite nelle mani di pochissimi “rentiers”, veri eredi dei nobili che in Francia nel 1789 esasperarono il paese fino a far scoppiare la Rivoluzione. Come può un lavoratore amputato nel reddito essere poi colui che consuma abbastanza da sorreggere l’economia a cui l’azienda stessa si rivolge? E, come disse Keynes: in un’economia che soffre per il calo dei consumi, a loro volta come fanno le aziende ad assumere lavoratori?

Oggi, scrive Paolo Barnard nella sua “Lettera a un imprenditore” pubblicata il 14 marzo sul suo sito, il conflitto ormai frontale tra lavoro e capitale produttivo è sostanzialmente fuorviante: entrambi, datore di lavoro e dipendente, sono vittime di un sistema artificiosamente precipitato in una crisi da lungo tempo pianificata, proprio dai discepoli di Pigou. Quell’idea “doveva” sopravvivere, per un motivo: avrebbe condotto esattamente a quel calo dei profitti diffusi, a quell’incrinatura nella macchina capitalista di consumi-produzione e quindi a uno scontro acerrimo fra imprenditori e dipendenti. Tutte cose che servivano perfettamente le mire dei nuovi “rentiers”. Deflazione, disoccupazione, precarizzazione del lavoro: una spirale che avrebbe costretto gli Stati alla spesa a deficit negativa, cioè improduttiva, con cali dei fatturati, scontri distruttivi nel mondo del lavoro, tensioni sociali, danni alle finanze statali. Il punto? La perdita della sovranità monetaria: neutralizzato lo Stato, sono tutti indifesi – i lavoratori, ma anche le aziende.

«Vi stanno distruggendo», avverte Barnard, rivolgendosi agli imprenditori. «E peggio: siete soli. Né Confindustria, né le vostre organizzazioni di rappresentanza hanno capito cosa è in atto nell’Unione Europea. Non sanno o non vogliono capire, e infatti se ne vedono i risultati». Autore del saggio “Il più grande crimine”, apprezzato da uno dei massimi esperti mondiali di storia dell’economia neoliberista come John Henry, Barnard ha promosso a Rimini il primo summit mondiale sulla “Modern Money Theory”, gestito dagli economisti americani di scuola keynesiana secondo cui le politiche di “rigore” sono una truffa, una inutile sofferenza imposta a intere nazioni, costrette a rinunciare alla loro arma naturale di autodifesa: la moneta sovrana. Da lì in poi, tutto diventa un dramma: la crisi, il debito, le tasse. Se sparisce lo Stato come regolatore economico del sistema, è la fine: e proprio l’economia, narrata dai media quasi fosse una scienza occulta, in realtà è «il motore di tutto ciò che ci sostiene, senza il quale non solo i redditi e i fatturati, ma neppure i diritti sono possibili».

«Il dramma che ci minaccia – scrive Barnard – è proprio in questo trasferimento di poteri a sfere neppure immaginabili da chi s’informa e lavora: vi sono forze al lavoro in Europa che mirano, non esagero, alla distruzione delle dinamiche del capitalismo stesso. E non sono affatto forze marxiste». Fino agli anni ’90, prima cioè dell’inquinamento finanziario speculativo, l’economia degli Usa – impiantata in un paese “vergine”, non gravato dal feudalesimo che aveva frenato l’Europa – pur tra colossali ingiustizie aveva badato all’equilibrio dinamico del sistema: redditi sufficienti ad assicurare l’accesso ai consumi, garantendo quindi la salute delle aziende. Nella patria mondiale delle grandi corporation private, grazie al dollaro, è stato proprio lo Stato a far la parte del leone, arrivando a creare la maggiore ricchezza della sua storia spendendo a deficit fino al 25% del Pil.

In Europa, tuttavia, i gangli del potere tradizionale – quello che ereditò gli ideali dell’Ancien Régime e del Neomercantilismo tedesco e francese, transitando poi trasversalmente nel nazismo e persino nelle sfere vaticane – ha sempre visto il capitalismo americano come un’aberrazione, dice Barnard: non certo per le sue derive eccessivamente consumistiche ma, al contrario, solo perché persino quel minimo di contenuto democratico che esso mantiene – cioè la necessità della presenza di una popolazione tutelata abbastanza affinché consumi – era visto come un’insidia inaccettabile per le mire fondamentali di questo potere tradizionale europeo. «Queste mire erano, e sono tuttora, la distruzione di qualsiasi potere popolare e democratico, e l’imposizione, anzi, il ritorno in Europa di un nuovo ordine sociale di tipo para-feudale, con a capo quelli che già Adam Smith e David Ricardo definivano nel ‘7-800 i “rentiers”».

Come i rampolli della nobiltà che fu, oggi gli alfieri delle tecnocrazie europee «ritengono loro diritto “divino” non solo governare i popoli ritenuti masse ignoranti, ma anche prelevare tutta la ricchezza possibile dal lavoro di altri». E questo salasso sta colpendo tutti: i lavoratori, ma anche gli imprenditori. Marginalizzati dalla Rivoluzione Francese alla fine del ‘700, oggi i “rentiers” sono tornati e attualmente governano la struttura non democratica che si sono inventati, l’Unione Europea: «I loro sicari ed esecutori materiali nella Ue moderna sono (o sono stati) i potentissimi tecnocrati come Herman Van Rompuy, Olli Rehn, Jaques Attali, Jaques Delors, o Lorenzo Bini Smaghi e Mario Draghi, e poi gli Juncker, i Weigel fra i tanti». Per Barnard «sono i decisori finali dei nostri destini», quelli che stabiliscono nelle segrete stanze di Francoforte o Bruxelles se un settore produttivo avrà mercato o se invece soccomberà, in virtù dei loro trattati vincolati e non negoziabili, imposti senza neppure spiegazioni ai Parlamenti nazionali europei.

“Rentiers”, aggiunge Barnard, sono divenuti «i finti imprenditori (come Montezemolo o De Benedetti in Italia) che scommettono su rendite da “clienti prigionieri” dei servizi essenziali forzosamente privatizzati e riuniti in monopoli privati», la massa pagatrice della “captive demand”, «violando ogni regola di libero mercato reale». “Rentiers” sono anche «i capitani neomercantili di multinazionali dell’acciaio, metalmeccaniche o dell’high tech franco-tedesche, le cui strategie di profitto hanno abbandonato la virtuosità del libero mercato reale e si basano solo sulla deflazione dei redditi dei loro dipendenti, cui succhiano la vita con pretese di produttività da collasso». Nella Germania “modello” della signora Merkel, «i redditi crescono del 50% in meno rispetto alla media europea con una produttività del 35% superiore, e infatti i consumi interni sono crollati». “Rentiers”, infine, sono i gestori degli “hedge fund” della City di Londra, gli speculatori che estraggono fortune inaudite proprio dall’attacco al tessuto economico di intere nazioni attraverso l’uso della scommessa finanziaria pura: così, oggi le aziende sono «ostaggi impotenti di questi immensi giochi».

Profitto parassitario, a spese di chi investe e lavora. Un disegno concepito in forma larvale già 75 anni fa: serviva «un’intera struttura politico-economica», che oggi si chiama Eurozona. «Il progetto di moneta unica europea – scrive Barnard – nacque da uno dei profeti di questi nuovi “rentiers”, nel 1943. Era l’economista francese François Perroux, che immaginò l’unione monetaria con la mira di ottenere che “lo Stato perda interamente la sua ragion d’essere”. La distruzione delle funzioni monetarie dello Stato è oggi lo strumento primario dei nuovi “rentiers” per affossare l’economia produttiva, i redditi, i consumi e dunque il capitalismo stesso». Perroux lasciò scritto che «il futuro garantirà la supremazia alla nazione o alle nazioni che imporranno la povertà che genera super-profitti e quindi accumulo».

Perché la nostra vecchia “Italietta”, quella della “liretta” degli anni ’70-80, si vide promossa fra i sette più prosperi paesi del mondo, mentre oggi – con questo euro che prometteva rilanci insperati – siamo ridotti al fanalino di coda d’Europa, additati come i somari della classe e sul filo del default? Come fu possibile per quella “Italietta” figurare come il secondo paese al mondo per risparmio privato dopo il Giappone, mentre oggi l’indebitamento delle famiglie sta schizzando ai massimi storici? Come potemmo allora intimidire la macchina delle esportazioni tedesche al punto da indurre la Germania a «sporchi trucchi per soffocare la nostra produttività», come lo Sme? Sono domande che ormai ognuno si pone, di fronte a una crisi sempre più grave, presentata come “inspiegabile” e contrastata da “soluzioni” impopolari – austerità, rigore – che colpiscono tutti tranne le banche e le grandi multinazionali. Manca sempre un passaggio cruciale, eluso dalla narrazione mediatica: la perdita della sovranità monetaria, svolta davvero decisiva.

Il più alto debito pubblico mai registrato dall’Italia repubblicana è quello del 1998, col debito pubblico pari al 132% del Pil, cioè molto sopra l’attuale 114%. Eppure, sottolinea Barnard, allora l’Italia non era affatto relegata tra i Piigs. Ci furono assalti speculativi dei mercati tali da configurare un’emergenza nazionale? Parole come “spread” o “default” erano sulle prime pagine dei quotidiani? No, naturalmente. E perché? «Perché quel debito era in lire, cioè moneta sovrana, ovvero una moneta che l’Italia creava dal nulla e senza limiti, per cui i mercati sapevano che Roma poteva ripagare qualsiasi obbligazione senza problemi». Il Giappone di oggi è un esempio eclatante di quella verità macro-economica: ha un debito quasi doppio di quello dell’Italia, cioè oltre il 200% del Pil, ma nessun mercato lo sta aggredendo. «Ma il Giappone, come l’Italia di allora, ha moneta sovrana. E nessun limite vero nel crearne per pagare i propri debiti».

Il debito pubblico è la somma dei deficit: l’idea che il debito con moneta sovrana sia un peso futuro per i cittadini è falsa, sottolinea Barnard. Il debito statale con moneta sovrana, al contrario, è la ricchezza di famiglie e aziende, per il semplice fatto che neppure lo Stato dovrà mai ripagarlo. Lo spiega un economista della Bocconi, il professor Luca Fantacci: «Nessuno Stato è in grado di ripagare i propri debiti. D’altro canto, gli Stati non sono nemmeno tenuti a ripagare i loro debiti. I debiti degli Stati, da quando hanno preso la forma di titoli negoziabili sul mercato, ossia da poco più di trecent’anni, non sono più fatti per essere ripagati, bensì per essere continuamente rinnovati e per circolare indefinitamente. I titoli di Stato sono emessi, sono acquistati e rivenduti ripetutamente sul mercato e, quando giungono a scadenza, sono rimborsati con i proventi dell’emissione di nuovi titoli». Quindi: se lo Stato a moneta sovrana non è tenuto a ripagare il proprio debito, perché mai dovrebbe pretendere che lo facciamo noi, cittadini e aziende? Semplice: perché non abbiamo più la protezione di una moneta sovrana.

Per noi, l’euro è a tutti gli effetti una moneta straniera, che il Tesoro italiano non può emettere. Chi emette gli euro è il sistema delle banche centrali europee dei 17 paesi dell’Eurozona, le quali li depositano direttamente nelle riserve di istituti finanziari privati. Ogni singolo euro che spende, il nostro Stato deve prenderlo in prestito dai mercati di capitali privati, ai tassi da loro decisi. Questo porta a un immediato impoverimento del Paese, che si riflette su risparmio, consumi e profitti aziendali. Così, lo Stato diviene ostaggio totale dei mercati di capitali privati, che ne possono depredare la ricchezza impunemente. «E ciò rientra con precisione nel piano distruttivo dei nuovi “rentiers”: ecco la catastrofe dell’Eurozona». Dopotutto, aggiunge Barnard, fu proprio uno dei suoi maggiori architetti, il tecnocrate francese Jaques Attali, che in conversazione con l’economista Alain Parguez, ex consigliere di Mitterrand, si lasciò sfuggire la piena verità sui nuovi “rentiers” con queste parole: «Ma cosa credeva la plebaglia europea? Che l’euro fosse stato fatto per la loro felicità?».

Noi, la “plebaglia europea”, abbiamo solo due tipi di ricchezza: quella finanziaria (denaro e titoli) e quella dei beni, cioè risorse, prodotti, case, terreni, infrastrutture, cultura, servizi. Se i principali soggetti economici sono due, il settore pubblico e quello privato, solo il primo – il settore governativo – può creare denaro; il secondo, quello delle aziende e delle famiglie, il denaro può solo trasferirlo: se qualcuno ne accumula di più, significa che altri ne avranno di meno. E’ aritmetico: per far crescere il sistema nel suo complesso, è necessario l’intervento dello Stato, a patto che sia dotato di moneta sovrana da immettere. Solo lo Stato sovrano può creare moneta dal nulla, da riversare nel settore privato sotto forma di spesa: commesse, acquisti, stipendi, contante, emissione di titoli, investimenti. Ma se lo Stato non immette nel sistema più di quanto già riceve sotto forma di tasse, allora addio crescita. Se poi lo Stato punta a spendere ancora meno, accantonando un surplus di bilancio, ecco che il settore economico privato va addirittura in perdita e precipita nella crisi.

Soluzioni? Una sola: se le aziende sperano di crescere, lo Stato deve spendere più di quanto imponga di pagare sotto forma di tasse. Spesa virtuosa, strategica: verso la piena occupazione, il welfare e la “full capacity”, cioè la piena produzione aziendale. Si chiama: economia di spesa a deficit positiva. Condizione operativa di partenza: la sovranità monetaria, quella che sta facendo “volare” l’Argentina, salvata dagli economisti americani della Modern Money Theory. Ma l’Argentina è lontana: per noi, “plebaglia europea”, solo cattive notizie. Cosa si nasconde dietro la retorica bugiarda dell’unione monetaria? E cosa si cela nei mantra dei tecnocrati europei, i nuovi “rentiers”, che vogliono imporre una retromarcia totale, fino a pretendere che sia messa per iscritto, nella nostra Costituzione, un’aberrazione economica e antidemocratica come il pareggio di bilancio? Si nasconde, risponde Barnard, la precisa mira di sottrarci il profitto dell’unica vera crescita possibile, quella promossa dalla spesa virtuosa dello Stato per migliorare il benessere di tutti.

«La paralisi della crescita così ottenuta – scrive Barnard – distrugge lo stesso capitalismo della produzione», di cui vive la nostra economia. «Hanno usato il potere delle scuole economiche “neoclassiche” finanziate dalle maggiori fondazioni e think tanks neoliberiste per creare il “fantasma” del debito pubblico, riuscendo a nascondere che la più formidabile spinta produttiva e reddituale della storia dell’umanità fu originata dal 1946 al 1956 proprio da una colossale spesa a debito degli Stati Uniti d’America, che non risulta siano poi falliti». Oggi, poi, «nel nome della menzogna del debito e grazie alla gabbia dell’euro», ci impongono «le austerità che ancor più strozzano la spesa dello Stato e aumentano la tassazione», quindi deprimono i redditi, quindi i consumi e quindi le aziende, «in una spirale senza fine che prende il nome di “spirale della deflazione economica imposta”».

Inoltre, aggiunge Barnard, lo Stato vittima di queste austerità «si trova a dover far fronte a spese a deficit del tutto negative e improduttive», come gli attuali ammortizzatori sociali, l’aumento delle spese sanitarie, il calo del gettito fiscale dovuto al crollo dei redditi. Questo impedisce allo Stato di investire in modo strategico: con infrastrutture competitive, detassazioni multiple, acquisti diretti della produzione a rischio, emissione di titoli per finanziare attività produttive, incentivi fiscali per reinvestire gli utili in produttività, credito agevolato, ammortizzatori sociali mirati alla formazione d’eccellenza dei lavoratori. Tutto inutile: senza moneta sovrana, lo Stato non può investire per cittadini e imprese, e si limita ad accumulare debito sterile. «Cinicamente, poi, questo aumento di debito negativo viene preso a pretesto dagli stessi tecnocrati europei che lo hanno causato, i nuovi “rentiers”, per imporci ancor più austerità, quindi ancor più deflazione, quindi ancora calo dei redditi e dei consumi e conseguente crollo economico, e tutto il meccanismo pernicioso si auto-alimenta all’infinito».

Ci perdiamo tutti, avverte Barnard, tranne loro: «I nuovi “rentiers” speculano su questo con inimmaginabili profitti, cifre da far impallidire qualsiasi buona azienda italiana, proprio perché ne succhiano la linfa». Per questo, «stanno imponendo un nuovo ordine sociale costruito sulla paura del fallimento di intere nazioni, che loro stessi ricattano e sospingono alla rovina». Solo un dato, tratto da Bankitalia: la crisi finanziaria del 2007, il capolavoro globale dei nuovi “rentiers”, ha complessivamente sottratto all’Italia 457 miliardi di euro in meno di tre anni. Un oceano di denaro, drenato anche alle nostre aziende, con l’aggravio che oggi la stessa macchinazione che ha originato il collasso finanziario globale sta negando agli imprenditori il credito bancario necessario a sopravvivere, mentre incalza ogni giorno di più l’opprimente stretta fiscale che «si mangia tutto», e viene giustificata con quella che per Barnard è una menzogna: il sostegno dei cittadini per finanziare la spesa dello Stato.

Cosa sono le tasse? «Non certo un mezzo per racimolare soldi per la finanza pubblica». Quella è solo un’altra invenzione del sistema “neoclassico” che ci domina. E’ impossibile che le tasse possano pagare alcunché nei bilanci di uno Stato, spiega Barnard, visto che sono denaro che il governo ha immesso nella collettività e che di norma si riprende indietro in percentuale minore: non può in alcun modo rispenderlo, la matematica non glielo permette. «Ma anche immaginando il santificato pareggio di bilancio, dove lo Stato spende 100 e tassa 100, dove sono i fondi da spendere? Ciò che in realtà accade è questo: lo Stato a moneta sovrana inventa denaro spendendo», cioè accreditando conti correnti nel settore privato, «che poi drena dagli stessi conti tassando, distruggendo quel denaro: sì, distruggendolo, perché si tratta solo di unità di conto elettroniche che, all’atto del pagamento delle tasse, scompaiono dai conti sui computer della banca centrale».

Ma allora, perché diavolo uno Stato tassa? Lo fa per quattro motivi. Primo: per tenere a freno il potere economico delle oligarchie private, che altrimenti diverrebbero immensamente ricche e potrebbero spodestare lo Stato stesso. Secondo: per limitare l’inflazione, drenando dalla circolazione il denaro in eccesso. Terzo motivo, per scoraggiare o incoraggiare taluni comportamenti: si tassa l’alcol, il fumo o l’inquinamento, e si detassano le beneficienze o le ristrutturazioni. Quarto: per imporre ai cittadini l’uso della sua moneta sovrana. «Se non fosse per l’obbligo di tutti di pagare le tasse nella valuta dello Stato, non ci sarebbe garanzia di accettazione da parte del settore non governativo di quella valuta». Un meccanismo che però è virtuoso solo per gli Stati a moneta sovrana: dettaglio decisivo, che sembra sfuggire a tutti. «Nella finta contrapposizione degli interessi di imprenditori e lavoratori – conclude Barnard – fu omesso oculatamente (e criminosamente) proprio il ruolo della spesa a deficit positiva», da parte dello Stato. Infatti, «ciò che viene finanziariamente perduto dal sistema-aziende nell’aumento del costo del lavoro, in particolar modo sul fronte della competitività, non solo gli ritorna in termini di acquisti, ma deve e può essere coperto proprio dalle infusioni di spesa a deficit positiva dello Stato». Manovra elementare, che a noi – e solo a noi, “plebaglia europea” – è attualmente preclusa.

Paolo Barnard: il vero potere mondiale ci vuole schiavi

Scritto il 15/8/11 • nella Categoria: idee
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Chi decide il nostro futuro? Quegli «ometti in doppiopetto blu» che in teoria possiamo promuovere o bocciare col voto? No, purtroppo: quelle sono solo «le marionette del vero potere», che risiede lontano, protetto da palazzi inaccessibili, da cui dirama ordini attraverso il più micidiale degli strumenti: la finanza. Il mondo ci sta franando addosso? Non è un caso: era tutto perfettamente previsto. Anzi: organizzato. Da chi è al lavoro da decenni per compiere “il più grande crimine”: lo smantellamento della democrazia, la fine della sovranità, la privatizzazione degli Stati, l’eutanasia della politica. Una piovra elusiva, senza volto, ma pressoché onnipotente e dalle mille sigle: Bilderberg, Wto, Unione Europea e Bce, Fmi, con tanto di lobby e think-tanks, banche centrali, mafie.

E’ il potere vero, quello che può stabilire la rovina di intere nazioni per specularci sopra e realizzare guadagni favolosi, al di sopra degli Stati e della politica. La tesi, attorno a cui lavorano diversi “eretici” italiani, è stata messa a fuoco e divulgata in modo organico e con vastissima documentazione da Paolo Barnard, pioniere della tv-verità prima con Santoro ai tempi di “Samarcanda” e poi con “Report”, fino alla rottura polemica con Milena Gabanelli per la mancata assistenza legale Rai di fronte al mare di querele rimediate in tante inchieste scottanti. Scomparso anche dal web, dove non è più visibile il sito “paolobarnard.info” che raccoglieva un’infinita quantità di scritti, dossier e reportage, il Barnard-pensiero è rintracciabile direttamente su YouTube, dove il giornalista riassume quello che definisce “il più grande crimine” (dal titolo dell’ultimo saggio), oppure su blog come “Disinformazione” che solo due anni fa proponeva il ritratto del “vero potere” secondo Barnard.

Una “profezia”, quella del giornalista italiano, che fa venire i brividi, vista la crisi globale sempre più esplosiva e le immancabili “ricette anti-crisi”, puntualmente annunciate con anni di anticipo dal reporter più scomodo d’Italia: misure così dure e impopolari da decretare la fine di decenni di conquiste democratiche. La sua tesi: le antiche oligarchie terriere, messe in crisi dalle lotte sindacali e democratiche del ‘900, si sono “riprese il mondo” attraverso l’alta finanza, riducendo all’impotenza gli Stati grazie al “ricatto” del debito pubblico, prima fittizio, ma poi divenuto sciaguratamente “privato” con il suo silenzioso trasferimento alle centrali finanziarie mondiali. Operazione coronata dall’introduzione dell’Euro – moneta che non appartiene a nessuno Stato, neppure a Bruxelles – e dal Trattato di Lisbona, vero e proprio «colpo di Stato europeo» che sottrae agli Stati membri ogni residua sovranità: tutte le leggi principali dovranno essere conformi ai diktat di un’élite mondiale, che è in grado di condizionare qualsiasi governo con la leva finanziaria.

Una “spectre” da fantascienza? No, tutt’altro: Paolo Barnard fa nomi e cognomi. Premessa: «Il Potere è stato eccezionalmente abile in molti aspetti, uno di questi è stato il suo mascheramento: il Potere doveva rimanere nell’ombra, perché alla luce del sole avrebbe avuto noie infinite da parte dei cittadini più attenti delle moderne democrazie». Ci hanno messo davanti politici e governi, in modo che il “vero potere” potesse agire «sostanzialmente indisturbato». Non che la Casta sia innocente, naturalmente: le «marionette» che calcano «il cortiletto della politica» hanno «relative torte da spartire», a patto però che «eseguano poi gli ordini ricevuti». Da chi? Da un «colossale e onnicomprensivo ingranaggio invisibile», che secondo l’ex presidente brasiliano Lula «manovra il sistema da lontano: spesso cancella decisioni democratiche, prosciuga la sovranità degli Stati e si impone ai governi eletti».

Secondo Barnard, oggi il vero potere «sta nell’aria», ha avvolto il mondo e dice questo: «Pochi prescelti devono ricevere il potere dai molti. I molti devono stare ai margini e attendere fiduciosi che il bene gli coli addosso dall’alto dei prescelti. I governi si levino di torno e lascino che ciò accada». E’ la vecchia teoria dei “Trickle Down Economics” di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, cioè il neo-liberismo, la scuola di Chicago, il purismo del “libero mercato”. «Questa idea economica comanda ogni atto del Potere, e di conseguenza la vostra vita, che significa che davvero sta sempre alla base delle azioni dei governi e dei legislatori, degli amministratori e dei datori di lavoro. Quindi essa comanda te, i luoghi in cui vivi, il tuo impiego, la tua salute, le tue finanze, proprio il tuo quotidiano ordinario, non cose astruse e lontane dal tuo vivere. La sua forza sta nel fatto di essere presente da 35 anni in ogni luogo del Potere esattamente come l’aria che esso respira nelle stanze dove esiste».

Chiunque arrivi al potere «respira quest’aria», senza scampo, dal momento in cui mette piede all’università, arrivando poi nei Parlamenti, nei consigli di amministrazione, nelle banche, nelle amministrazioni pubbliche. Tutti «conquistati, ipnotizzati, teleguidati: il Potere ha creato attorno a quell’idea degli organi potentissimi», grazie ai quali domina completamente il pianeta. Chi sono i potenti della Terra? «Finanzieri, industriali, ministri, avvocati, intellettuali, militari, politici scelti con cura». Sono loro il vertice del “club”, la super-struttura che «assume nomi diversi a seconda del luogo in cui si riunisce». Ad esempio: prende il nome di Commissione Trilaterale se i suoi membri si riuniscono a Washington, a Tokio o a Parigi, talvolta in altre capitali europee. La Trilaterale nasce nel 1973 come gruppo di influenti cittadini americani, europei e giapponesi; dopo soli due anni «stila le regole per la distruzione globale delle sinistre e la morte delle democrazie partecipative, realmente avvenute», e afferma «la supremazia della guida delle élite sulle masse di cittadini», che devono essere “apatici”, docili, ipnotizzati dai media.

Fra i 390 membri della Trilaterale hanno figurato vip assoluti: da Henry Kissinger a Jimmy Carter, da David Rockefeller a Zbigniev Brzezinski, senza contare gli italiani Giovanni Agnelli e Arrigo Levi, e poi Edmond de Rothschild, George Bush padre, Dick Cheney, Bill Clinton e l’ex capo della Fed, Alan Greenspan, insieme ad accademici (da Harvard alla Bocconi), governatori delle maggiori banche, ambasciatori, petrolieri, ministri, industriali (Solvay, Mitsubishi, CocaCola, Texas Instruments, Hewlett-Packard, Caterpillar, Fiat, Dunlop) e fondazioni come quella di Bill Gates. «Costoro – scrive Barnard – deliberano ogni anno su temi come “il sistema monetario”, “il governo globale”, “dirigere il commercio internazionale”, “affrontare l’Iran”, “il petrolio”, “energia, sicurezza e clima”, “rafforzare le istituzioni globali”, “gestire il sistema internazionale in futuro”». In pratica: tutto. «E leggendo i rapporti che stilano, si comprende come i loro indirizzi siano divenuti realtà nelle nostre politiche nazionali con una certezza sconcertante».

Quando il “club” necessita di maggior riservatezza, si dà appuntamento in luoghi meno visibili dei palazzi delle grandi capitali, e in questo caso prende il nome di Gruppo Bilderberg, dal nome dell’hotel olandese che ne ospitò il primo meeting nel 1954. Sono sempre gli stessi personaggi, più molti altri a rotazione, compresi politici o monarchi in carica (mentre la Trilaterale è riservata ai grandi “ex”). Il Bilderberg è «assai più “carbonaro” della Trilaterale, perché la sua originaria specializzazione erano gli affari militari e strategici», gestiti dai vertici Nato. La peculiarità dirompente del Bilderberg? Al suo interno, i super-potenti possono dire tutto quello che vorrebbero fare: «I desideri più intimi del Potere non trovano neppure quello straccio di freno che l’istituzionalità impone. Da qui la tradizione di mantenere attorno al Bilderberg un alone di segretezza assoluto».

Sono loro, come rivela il visconte Etienne Davignon, presidente del Bilderberg nel 2005, a “coordinare” i vertici dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, della cooperazione transatlantica e dell’integrazione europea, ovvero i primatisti del “libero mercato” con potere sovranazionale e i padrini del Trattato di Lisbona, cioè «il colpo di Stato europeo con potere sovranazionale che ci ha trasformati in cittadini che verranno governati da burocrati non eletti». Per Barnard sono i veri padroni della nostra vita: «Decisioni inappellabili su lavoro, previdenza, servizi sociali, tassi dei mutui, costo della vita». Scelte cruciali, compiute non a Palazzo Chigi o all’Eliseo, ma a Ginevra o a Bruxelles o nelle banche centrali, dopo esser state discusse al Bilderberg. Un campione della “razza padrona”? Peter Sutherland: a capo della Bp, della super-banca Goldman Sachs e della London School of Economics, poi plenipotenziario Onu per l’immigrazione e lo sviluppo, direttore generale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, membro della Commissione Europea e ministro della giustizia in Irlanda. «E ovviamente, membro sia della Commissione Trilaterale che del Gruppo Bilderberg».

Se il “club” resta il primo organo del super-potere, il secondo è il “colosso di Ginevra”, il Wto: l’Organizzazione Mondiale del Commercio nata nel 1994 è «più potente di qualsiasi nazione o parlamento». Riunisce 153 Paesi nella sede ginevrina, dove vengono dettate le regole del commercio internazionale, cioè praticamente di tutta l’economia del mondo: «Fette enormi dei nostri posti di lavoro, di ciò che compriamo, mangiamo, con cui ci curiamo». Decidono tutto “loro”. E, come nel caso della nuova Europa del Trattato di Lisbona, le regole emanate dal Wto, denominate “Accordi”, sono sovranazionali, cioè più potenti delle leggi nazionali. Il meccanismo non è democratico: le decisioni sono dominate dallo strapotere dei Paesi ricchi. «Chi sta al timone è il cosiddetto gruppo Quad, formato da Usa, Giappone, Canada ed Europa. Ma l’Europa intera è rappresentata al tavolo delle trattative del Wto dalla Commissione Europea, che nessun cittadino elegge», sottolinea Barnard. «In realtà, chi decide per tutti noi europei è un numero ancora più ristretto di burocrati: il misterioso Comitato 133 della Commissione, formato da specialisti ancor meno legittimati. La politica italiana di norma firma gli “Accordi” senza neppure leggerli».

Se un Paese si oppone a una regola del Wto, continua Barnard, può essere processato da un tribunale interno, dotato di poteri enormi e formato da tre individui di estrazione economico-finanziaria, le cui sentenze finali sono inappellabili. Una sentenza del Wto può penalizzare o persino ribaltare le scelte democratiche di milioni di cittadini, anche nei Paesi ricchi. Esempio: tutta l’Europa è stata condannata a risarcire gli Usa con milioni di euro perché si è rifiutata di importare la carne americana agli ormoni. Ma neppure gli Stati Uniti hanno potere sul Wto: il presidente Obama, di fronte all’ultima catastrofe finanziaria, aveva deciso di imporre regole restrittive contro le speculazioni selvagge delle banche (vera causa della crisi), ma «gli è stato sbarrato il passo proprio da una regola del Wto, che si chiama “Accordo sui Servizi Finanziari”, e che sancisce l’esatto contrario, cioè proibisce alla Casa Bianca e al Congresso di regolamentare quelle mega-banche. E sapete chi, anni fa, negoziò quell’accordo al Wto? Timothy Geithner, attuale ministro del Tesoro Usa, che è uno dei membri del Gruppo Bilderberg».

In materia di leggi internazionali, il Wto è praticamente onnipotente: ha facoltà di «esautorare le politiche sanitarie di qualunque Paese», e inoltre toglie al cittadino «la libertà di sapere in quali condizioni sono fatte le merci che acquista», anche ostacolando l’uso delle etichette a tutela del consumatore. Inoltre, nelle gare d’appalto, il Wto impone ai politici di concedere alle grandi multinazionali estere le stesse condizioni richieste alle aziende nazionali: favorire l’occupazione nazionale è considerata una discriminazione ai danni del “libero mercato”. Sempre le disposizioni del Wto «accentrano nelle mani di poche multinazionali i brevetti della maggioranza dei principi attivi e delle piante che si usano per i farmaci o per l’agricoltura, poiché permettono la brevettabilità privata delle forme viventi e tutelano quei brevetti per 20 anni». Inoltre, il fatto che i brevetti siano protetti dal Wto per vent’anni «sta alla base anche della mancanza di farmaci salva-vita nei Paesi poveri».

Non basta: il Wto sta «promuovendo a tutto spiano la privatizzazione e l’apertura al “libero mercato” estero di praticamente tutti i servizi alla cittadinanza, anche di quelli essenziali come sanità, acqua, istruzione e assistenza agli anziani, con regole che impediranno di fatto agli amministratori locali la tutela dei cittadini meno abbienti che non possono permettersi servizi privati». Ovviamente questi “Accordi” sono vincolanti su qualsiasi legge nazionale, esautorando quindi i nostri politici dalla gestione dei capitoli-chiave della nostra economia. La strategia del “club” e del Wto, naturalmente, si avvale anche del terzo organo del super-potere: i lobbysti. Paolo Barnard li chiama “i suggeritori”. Sono loro che vengono «ricevuti in privato da ogni politico che conti al mondo e che gli “suggeriscono” (spesso dettano) i contenuti delle leggi e dei decreti, ma anche delle linee guida di governo e persino dei programmi delle coalizioni elettorali».

I “suggeritori” italiani sono un migliaio, ma diventeranno almeno diecimila entro una decina d’anni, scriveva Barnard nel 2008, citando l’agenzia “Reti” dell’ex dalemiano Claudio Velardi e l’attività di lobbying condotta da vari gruppi per finanziare politici e averne in cambio enormi favori. «Con una stima basata sui bilanci passati, si calcola che il denaro sommerso versato alla politica italiana ammonti a diverse decine di milioni di euro all’anno, provenienti dai settori edile, autostradale, metallurgico, sanitario privato, bancario, televisivo e immobiliare». Le ricadute sui cittadini: leggi e regolamenti che «vanno a modificare, spesso in peggio, la nostra economia di vita e di lavoro». Nessuno ne sembra immune: Barnard cita gli oltre 2 milioni di euro finiti nel 2008 all’Udc, l’80% dei quali provenienti dall’immobiliarista Caltagirone («pensate alla libertà di Pierferdinando Casini nel legiferare in campo immobiliare»), o i 50.000 euro a Di Pietro dalla famiglia Lagostena Bassi, che «controlla il mercato delle Tv locali ma che contemporaneamente serve Silvio Berlusconi e foraggia la Lega Nord». E il famigerato Ponte sullo Stretto? Un favore al gruppo Gavio, forte di 650.000 euro versati al Pdl.

Quanto ai “suggeritori” americani, si entra nel Guinness dei Primati: al prezzo di due milioni di morti fra Iraq e Afghanistan, è stata la “lobby del petrolio” a puntare sulle guerre di Bush e i relativi profitti del greggio schizzato alle stelle. Dick Cheney e James Baker III, ma anche l’ex della Enron Kenneth Lay, il presidente del Carlyle Group, Frank Carlucci, e poi Robert Zoellick, Thomas White, George Schultz, Jack Sheehan, Don Evans, Paul O’Neil: rispettivamente, «a servizio di Shell, Mobil, Union Carbide, Huntsman, Amoco, Exxon, Alcoa, Conoco, Carlyle, Halliburton, Kellog Brown & Root, Bechtel e Enron». Se George Bush junior resta «il politico più “oliato” nella Storia americana», Obama si “difende” con la lobby finanziaria-assicurativa: «Quando nel 2008 crollano le banche Usa dopo aver truffato milioni di esseri umani e migliaia di altre banche internazionali, 7 milioni di famiglie americane perdono il lavoro e l’intera economia mondiale va a picco, Italia inclusa», il nuovo presidente «firma un’emorragia di denaro pubblico dopo l’altra per salvare il deretano dei banchieri truffatori».

L’alibi di Obama: “rianimare l’economia” (dai 5.000 agli 11.000 miliardi di dollari, secondo le stime), senza che neppure uno dei super-truffatori finisca in galera. «Anzi: il suo governo ha chiamato a ripulire i disastri di questa crisi globale gli stessi personaggi che l’hanno creata. Invece di farli fallire e di impiegare il denaro pubblico per la gente in difficoltà, Obama e il suo ministro del Tesoro Timothy Geithner gli hanno offerto una montagna di denaro facile affinché comprino i debiti delle banche fallite». Grazie al piano-Obama, i delinquenti della finanza hanno ricevuto da Washington l’85% del denaro necessario per comprare quei debiti, mettendo di proprio solo il 15%, e riservandosi ulteriori, lauti profitti in caso di “ripresa”, senza dover restituire il super-prestito a fondo perduto. «E’ il solito “socialismo al limone: le perdite sono dei contribuenti e i profitti sono degli investitori privati”». Se n’è accorto il “Washington Post”, che ha accusato Obama di non aver posto alcun limite agli speculatori che causarono la catastrofe. «Domanda: quanto denaro ha preso Obama in campagna elettorale dalle lobby finanziarie? Risposta: 38 milioni di dollari».

Altri 20 milioni, continua Barnard, Obama li ha intascati dalle lobby assicurative sanitarie, che ha ricambiato con «una falsa riforma della sanità» che in realtà «non ha nulla di pubblico ed è un ulteriore regalo ai giganti delle assicurazioni private», numerosissimi nella schiera dei 40.000 lobbysti che assediano giornalmente Washington. Compresi gli alfieri del network più leggendario, la lobby ebraica, che condizionano la superpotenza: vietato mettere in dubbio la politica di Israele. Nel 2002, proprio mentre l’esercito israeliano reinvadeva i Territori Occupati con i consueti massacri indiscriminati di civili, a Washington fu sommerso dai fischi l’allora viceministro della difesa Paul Wolfowitz, super-falco “neocon” e filo-israeliano, che si era permesso di citare le “sofferenze palestinesi”. E prima ancora, nel 1992, il presidente uscente Bush fece un clamoroso passo falso: minacciando di bloccare 10 miliardi di aiuti se Tel Aviv non avesse frenato gli insediamenti ebraici nei Territori, perse i due terzi dell’elettorato ebraico che l’aveva sostenuto nell’88 e spianò la strada alla vittoria di Clinton.

Anche in Europa le lobby fanno la loro parte, mettendo in campo 15-20.000 “suggeritori”, che arrivano a spendere un miliardo di euro all’anno per condizionare le scelte della Commissione Europea, che dopo il Trattato di Lisbona è diventata il vero centro decisionale del continente, il super-governo (non eletto) di tutti noi, con poteri immensi. Le grandi aziende rappresentate sono migliaia: tra queste Fiat e Pirelli, Barilla, Canon e Kodak, Johnson & Johnson, Motorola, Ericsson e Nokia, Time Warner, Rank Xerox e Microsoft, Boeing, Dow Chemicals, Danone, Candy, Shell, Hewlett Packard, Ibm, Carlsberg, Glaxo, Bayer, Hoffman La Roche, Pfizer, Merck. E poi banche, assicurazioni, investitori. E’ «un assedio alla politica», secondo Barnard, ma anche «un vero e proprio attentato alla democrazia», perché sono i miliardari a imporre le decisioni, per giunta ad istituzioni comunitarie non più dirette da politici regolarmente eletti.

Da non trascurare, aggiunge Barnard nella sua diagnosi, l’influenza del “quarto organo” del super-potere mondiale, ovvero i “think-tanks”: letteralmente “serbatoi di pensiero”, per sviluppare idee destinate a condizionare la politica. A lanciare l’offensiva fu Lewis Powell nel 1971, quando denunciò una «guerra ideologica contro il sistema delle imprese e i valori della società occidentale» e, per Barnard, diede il via alla riscossa delle élite e alla fine della democrazia partecipativa dei cittadini. Le destre economiche ambivano a «riconquistare il mondo» e «sottomettere la politica, cioè a divenire il vero Potere». Come? Armandosi di idee, raccogliendo denaro, selezionando cervelli e plasmandoli, per poi «immetterli nel sistema di comando della società, infiltrandolo tutto». Oggi le super-fondazioni sono 336, distribuite in ogni continente. «Una delle più note e aggressive è l’Adam Smith Institute di Londra, che ostenta un’arroganza di potere tale da vantare come proprio motto questo: “Solo ieri le nostre idee erano considerate sulla soglia della follia. Oggi stanno sulle soglie dei Parlamenti”».

La politica-marionetta, dice Barnard, è il braccio esecutivo del “vero potere”. «Spesso, i nostri ministri economici, i nostri banchieri centrali, ma anche presidenti del Consiglio» (due nomi: Mario Draghi e l’allora primo ministro Romano Prodi) «si trovano a cene o convegni presso queste fondazioni / Think Tanks, di cui in qualche raro caso i Tg locali danno notizia. In apparenza cerimonie paludate e noiose, in realtà ciò che vi accade è che ministri, banchieri e premier vi si recano per dar conto di ciò che hanno fatto per compiacere all’idea economica del vero Potere». Ovvero: minime regolamentazioni per il business e governi più marginali, secondo i dettami del noto Omega Project emanato dall’Adam Smith nel 1982: direttive che hanno regolarmente «divorato la vita pubblica in Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti», e che ormai hanno varcato la soglia del Parlamento anche in Italia: con la super-manovra di Tremonti imposta da Bruxelles, è come se il “vero potere” descritto col largo anticipo da Paolo Barnard avesse gettato la maschera.

Eppure, i segnali erano chiarissimi. Barnard ricorda il 16 settembre 1992, quando George Soros decise di «spezzare la schiena alla Gran Bretagna» vendendo di colpo qualcosa come 10 miliardi di sterline. Il finanziere causò il collasso del valore della moneta inglese, che fu così espulsa dal Sistema Monetario Europeo: «Soros si intascò oltre 1 miliardo di dollari, ma milioni di inglesi piansero lacrime amare e il governo di Londra ne fu umiliato». Per non parlare dello speculatore John Meriwether, che aveva «irretito praticamente tutte le maggiori banche del mondo con 4,6 miliardi di dollari ad alto rischio». I suoi manager si fregiavano del titolo di “padroni dell’universo”, ma nell’agosto del 1998 contemplarono il crollo dei mercati mondiali per causa loro; la Federal Reserve dovette poi intervenire in emergenza, «col solito salvataggio a spese dei contribuenti». Un copione che si è ripetuto durante l’ultima crisi, con lo speculatore internazionale Joseph Cassano che, franati i suoi investimenti-truffa da 500 miliardi di dollari, telefona alla casa Bianca per dire: «Sorry, ho mandato al diavolo la vostra economia».

«Panico mondiale, fine del credito al mondo del lavoro di quasi tutto il pianeta e, sul piatto di noi cittadini, ecco servita la crisi economica più pericolosa dal 1929 a oggi». Colpa di quello che Barnard chiama il “Tribunale degli Investitori e degli Speculatori Internazionali”, altro braccio armato del “vero potere” che sta privatizzando il mondo, a tappe forzate, espropriando Stati e cittadini. «Altro che Tremonti o Confindustria: nel mondo odierno esiste una comunità di singoli individui privati capaci di movimentare quantità di ricchezze talmente colossali da scardinare in poche ore l’economia di un Paese ricco, o le economie di centinaia di milioni di lavoratori che per esse hanno faticato un’intera vita, cioè famiglie sul lastrico, aziende che chiudono. Le loro decisioni sono come sentenze planetarie. Inappellabili». E irte di cifre mostruose: «Stanno facendo oscillare sul pianeta qualcosa come 525.000 miliardi di dollari in soli prodotti finanziari “derivati”, cioè denaro ad altissimo rischio di bancarotta improvvisa».

E’ possibile che “i mercati” facciano sparire, di colpo, centinaia di miliardi, provocando perdita di posti di lavoro, precarizzazione e relativo effetto-domino sull’economia. Basta che “qualcuno” non sia entusiasta dell’obbedienza dei politici, o che abbia intravisto una convenienza speculativa. «Questa tirannia del vero Potere», scrive ancora Barnard, prende il nome tecnico di “capital flight”: letteralmente, capitali che prendono il volo. E’ semplicemente “denaro in cerca di maggiori profitti”, per dirla con “Investors.com”. Si tratta di «flussi enormi di capitali in uscita da un Paese: spesso così enormi da incidere su tutto il sistema finanziario di una nazione». Peccato che di mezzo ci siano i soliti, ingombranti esseri umani: a milioni.

Il “Tribunale” degli speculatori chiude il cerchio, la super-piramide retta dal “club” e dal Wto con l’appoggio dell’Unione Europea, dei lobbysti e dei think-tank. «Vi si potrebbe aggiungere il World Economic Forum, il Codex Alimentarius, l’Fmi, il sistema delle Banche Centrali, le multinazionali del farmaco», dice ancora Barnard. Senza trascurare le mafie: perché «traffico di droga, prostituzione, traffico d’armi e riciclaggio di rifiuti tossici sono servizi che le mafie praticano per conto di committenti sempre riconducibili al vero Potere, o perché da esso condizionati, oppure perché suoi ingranaggi importanti». Ed ecco composto il puzzle dell’orrore, da cui derivano «i problemi capitali della nostra vita di cittadini, o addirittura i drammi quotidiani che tante famiglie di lavoratori patiscono».

C’è qualcuno che decide tutto, al di sopra qualsiasi controllo. «Se vi sta a cuore la democrazia, la giustizia sociale e la vostra economia quotidiana di lavoro e di servizi essenziali alla persona – conclude Barnard nel suo appello – allora dovete colpire chi veramente opera per sottrarceli, cioè il vero Potere. Ci si organizzi per svelarlo al grande pubblico e per finalmente bloccarlo. Ora lo conoscete, e soprattutto ora sapete che razza di macchina micidiale, immensa e possente esso è». Se gli attuali metodi di lotta dei movimenti sono «pietosamente inadeguati, infantili chimere, fuochi di paglia che mai un singolo attimo hanno impensierito quel vero Potere», secondo Barnard per «arginare un titano di quella portata» l’unica speranza è opporgli «un’organizzazione di attivisti e di comunicatori eccezionalmente compatta, finanziata, ferrata, disciplinata, su tutto il territorio, al lavoro sempre, implacabile, nei luoghi della gente comune, per anni. Altra speranza non c’è. Sempre che ancora esista, una speranza».

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