Nel corso dello sviluppo storico e delle culture che ne derivano, molti filosofi, rivolgendo lo sguardo agli animali, ne hanno rilevato l’unicità, l’intelligenza e l’innocenza.
La presa di posizione contro i sacrifici agli dei e una scelta di vita vegetariana, come etica del rispetto della vita, si collegano con molte figure del pensiero filosofico greco, quali Pitagora, Empedocle, Platone, Porfirio Eraclito. Raccomandando di non mangiare mai animali, di non immolarli agli dèi, né di arrecare loro il minimo danno, ma, anzi, di rispettare col massimo scrupolo le norme della giustizia anche nei loro riguardi, Pitagora prescrive a politici e legislatori di astenersi dal cibo animale «poiché, volendo costoro praticare in sommo grado la giustizia, non devono recare offesa a nessuno degli animali a noi affini. Infatti, come possono persuadere gli altri ad agire giustamente, quando essi stessi fossero dominati dallo spirito di sopraffazione?». Pitagora, che si abbiglia di lino e intreccia il vimine per farsene calzature, ammette solo altari incruenti di frumento, orzo e focacce. Il filosofo medico Empedocle narra, invece, di un’età felice, in cui uomini e animali erano amici fra di loro, «non esistevano guerre, non si tingeva l’altare con l’immacolato sangue dei tori, ma per gli uomini era questo il massimo abominio: le pie membra divorare strappandone l’animo». Diversamente da Pitagora, il cui divieto di maltrattare e mangiare gli animali era fondato sulla credenza dell’esistenza e immortalità dell’anima in ogni corpo, in Empedocle la solidarietà con tutti i viventi è anelito struggente verso la totale armonia. In lui non c’è distinzione tra corpo e anima, tutte le cose sono fornite di intelligenza e di pensiero, «non potrebbe esistere un animale che fosse irragionevole». La fine dell’orrenda strage di animali è, per Empedocle, l’inizio di una nuova civiltà.
Platone, sensibile al pensiero di Empedocle, attribuisce al mondo animale due dimensioni: una divina e l’altra della sua propria ipseità. In ciascun animale, dice, «è presente l’impronta divina ed, essendo questa, luce, bene, perfezione, chi porta l’impronta è somigliante a ciò che l’ha impressa» . Tutti i viventi, perciò, formati su comando dell’Ordinatore dell’Universo, sono dotati di anima: Egli crea gli alberi, le piante e i semi per dare sostentamento a tutti. Coniugandosi anch’egli con la pietà verso tutti i viventi, perché la natura tutta è imparentata con se stessa, spinge lo sguardo verso una originaria vita felice, al di là della proprietà, della caccia, della guerra. Nel Politico, Platone descrive un tempo in cui gli uomini avevano una grande disponibilità di tempo e il potere di stabilire relazioni e conversazioni con gli animali: «discorrevano fra loro e interrogavano tutte le specie animate per sapere se una ve ne fosse che per una sua particolare capacità avesse mai potuto conoscere qualche cosa a tutto superiore nel procurare grande apporto al tesoro dell’intelligenza». Come, più tardi, riconoscerà anche Porfirio, Platone è convinto che, con l’uccisione degli animali, sono penetrati nel mondo il lusso, la guerra, l’ingiustizia. La costruzione della Città della Giustizia impone, perciò, riforme etiche, politiche e religiose che escludano sacrifici di sangue, in conformità anche ad una alimentazione vegetariana: nella Repubblica gli uomini si nutrono di orzo e grano, impastano farine per farne focacce e pani, «così passeranno la vita, come è naturale, in pace e in buona salute, moriranno in tarda età e trasmetteranno ai discendenti un sistema di vita simile a questo».
Diversamente da Platone, Aristotele scriverà opere specifiche sul mondo animale, relativamente a ciò che li differenzia dall’uomo, distinguendo tre anime: vegetativa – o nutritiva – sensitiva e razionale, attribuendo la prima alle piante, la seconda agli animali, la terza agli uomini. Nella concezione di Aristotele, gli animali sono accomunati agli schiavi e alle donne. Ciò nonostante, nel suo trattato Sull’anima, egli rileva come gli animali abbiano desideri, provino piacere e dolore ed abbiano una certa capacità di comprensione intellettuale che li rende simili all’uomo. La prima importante presa di posizione in difesa di tutti gli animali si troverà nelle opere di Plutarco. Il riordino del cosmo, afferma Plutarco, «implica il riconoscimento della giustizia relativamente a tutto l’universo animale». Osservando che «la natura non è zoppa e non ha fatto dell’animale un essere puramente sensitivo»; conclude che la loro debolezza rende semmai ancora più odiosa l’ingiustizia nei loro confronti. In Del mangiar carne, Plutarco esorta l’uomo a vivere più felicemente «senza piatti pieni di pesci o di fegati d’oche, senza trinciare buoi e capretti, senza andare a caccia per uccidere animali indifesi, strappando la vita alle madri delle bestiole, ai piccoli, a tutto ciò che si muove». Tutto ciò, scrive, è pura crudeltà; ancor prima di essere ingiustizia, è irrazionalità, non-senso, mancanza di equilibrio. L’uomo «si pasce di carne rimanendone castigato con molte e lunghe malattie, quando in ogni stagione l’arte dell’agricoltura gli mette a disposizione frutta e seminati in grande abbondanza».
Egli si chiede, perciò, «con quale pensiero ardì il primo fra gli uomini insanguinarsi la bocca, appressarsi alle labbra la carne del morto animale, […] le membra che poco avanti belavano, mugghiavano, andavano e vedevano? Come poterono soffrire gli occhi di scorgere l’uccisione degli animali scannati, scorticati, smembrati?». Gli uomini, dice Plutarco, uccidono gli animali, «le cui voci tremanti sono stimate essere senza significato e pur son preghiere». La più grande opera scritta in difesa del mondo animale sarà, invece, il De abstinentia carnibus di Porfirio di Tiro, dove si afferma che caccia e guerra, indissolubilmente unite, sono l’ingiustizia perseguita con l’inganno e la frode, quale risultato di una terribile violazione originaria. Gli animali, sottolinea Porfirio, «hanno il discorso interiore, […] sono ragionevoli per natura, […] non sono privi di sensibilità, ma ne hanno più degli uomini». L’uomo non è in grado di penetrare nel loro ragionamento. Egli afferma che «il superamento di un universo di dolore inutile è possibile: sicuramente Dio non ha fatto in modo che ci fosse impossibile assicurare la nostra salvaguardia senza fare del male ad altri per cibarsene». Giustamente Eraclito, filosofo di Efeso, ritiratosi a vivere sui monti, osserva come il dolore, espressione della lotta cosmica, attraverso l’uccisione di uomini e animali, allontana dalla comprensione dell’unità dei viventi.
Tratto da promiseland.it - Annalisa Ruffo
http://www.altrogiornale.org/print.php?news.6323
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