Sotto giornale murale di classe appiccicato tempo fa in provincia di Varese
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CATANIA - È morto l’operaio edile disoccupato di 56 anni, Salvatore La Fata, che il 19 settembre scorso si era dato fuoco a Catania per disperazione. È deceduto, nell’ospedale Cannizzaro, per i postumi di ustioni di secondo e terzo grado sul 60% del corpo. L’uomo, che si arrangiava come ambulante, aveva compiuto il gesto dopo il sequestro della merce che vendeva senza autorizzazioni in piazza Risorgimento, dove era bloccato da due vigili urbani.
Per alleviare le sue sofferenze, la Fata era stato immediatamente sottoposto a delicati interventi chirgici, ma le sue condizioni erano rimaste gravi. Oggi il decesso.
IL LEGALE
«Temo che tutto si possa chiudere come un incidente, ma per noi non è così: domani presenteremo una ulteriore denuncia alla Procura ipotizzando il reato di omicidio colposo» ha detto l’avvocato Francesco Maria Marchese, legale della moglie e dei due figli di Salvatore La Fata. «Il Pm di turno ha già autorizzato la restituzione della salma alla famiglia - ha aggiunto il penalista - ma noi riteniamo indispensabile che sia eseguita l’autopsia per valutare con attenzione tutto quello che è accaduto». Per questo, ha annunciato l’avvocato Marchese, che nei giorni scorsi aveva presentato una denuncia per omissione di soccorso e istigazione al suicidio, «domani depositerò in Procura una querela per omicidio colposo e la richiesta di eseguire l’autopsia».
«Torneremo a chiedere - anticipa il legale - che siano identificati di due vigili urbani che lo stavano per multare.
Abbiamo una testimone che dice di avere sentito uno dei due rispondere così alle minacce di suicidio di La Fata: “se lo devi fare, spostati più in là... ”».
IL SINDACO BIANCO
«A Catania il dramma si è trasformato in tragedia e per evitare che questi gesti si diffondano a macchia d’olio, occorre dare risposte immediate sull’occupazione nel segno della legalità», ha detto ieri il sindaco di Catania Enzo Bianco non appena appresa la notizia della morte di La Fata. «Provo dolore e anche rabbia - ha aggiunto Bianco - per la vicenda umana di questo cittadino catanese. Subito dopo il gesto avevo rivolto un richiamo ai governi regionale e nazionale affinché sbloccassero subito tutte le opere cantierabili creando opportunità di lavoro».
I SINDACATI
«Il lutto non basta, le frasi di circostanza suonano stonate. Salvatore La Fata è morto dopo undici giorni di agonia, vittima della crisi del settore edile e dell’inerzia parolaia delle istituzioni politiche. È una tragedia che colpisce tutte le nostre famiglie. E impone di mettere al centro di ogni dibattito azioni immediate per far ripartire il lavoro produttivo», hanno invece scritto in una nota i segretari di Cgil, Cisl, Uil, Fillea, Filca, Feneal di Catania Giacomo Rota, Rosaria Rotolo, Fortunato Parisi, Claudio Longo, Nunzio Turrisi e Francesco De Martino.
«Nel nome di Salvatore La Fata, ricordando la manifestazione unitaria organizzata da Cgil-Cisl-Uil-Fillea-Filca-Feneal in piazza Risorgimento - aggiungono i sindacati - chiediamo al prefetto, in qualità di rappresentante del governo nazionale, - al presidente della Regione e al sindaco di Catania un incontro urgente per definire le iniziative di contrasto al fenomeno delle incompiute, che oggi più di ieri appaiono come un’offesa alla tragedia di migliaia di famiglie a Catania e in provincia.
L’urlo disperato di Salvatore La Fata non sia una voce nel deserto. Ben 13 mila sono i posti perduti in edilizia dal 2008 a oggi in terra d’Etna. Ora - concludono i sindacati - è più urgente uno SbloccaCatania».
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---------------------------------------------------------Archivio giornali murali diffusi e affissi in prov. di Varese anno 2012.
SUPPLEMENTO giorn. murale del 16/5/2012 (Formato PDF)
- Non immolare la vita al profitto. Battersi per il salario minimo garantito di 1.250 € mensili intassabili per disoccupati, occupati con salari più bassi giovani in cerca di lavoro pensionati ex dipendenti con assegni inferiori. Sui suicidi di operai.
Dall'inizio dell'anno ad oggi 15 maggio [2012] circa 70 persone, di cui metà operai metà piccoli imprenditori, si sono tolta la vita a causa della "crisi economica". Il 5 maggio, mentre a Napoli un artigiano dopo avere avuto la notifica di alcune cartelle esattoriali si uccideva con un colpo di pistola motivando il gesto "la dignità vale più della vita", a Torino un edile quarantasettenne dopo la riduzione delle ore di lavoro si impiccava lasciando moglie e due figli. Il giorno 9 solo a Salerno si tolgono la vita due operai: uno di 49 anni impiccandosi per aver perso il lavoro; l'altro, un edile di 62 anni, sparandosi al petto e lasciando un biglietto "Senza lavoro non si può vivere". È una catena angosciosa ed angosciante. E su questa catena tragica riteniamo doveroso dire alcune cose essenziali per quanto riguarda specificamente i suicidi operai.
La morte è un aspetto della vita; e, se non consegue a fatti traumatici, non impressiona più di tanto; a parte il dispiacere che esso provoca tra i familiari e conoscenti. Il suicidio è un gesto estremo con cui un individuo si toglie di mezzo dal suo ambiente (familiare e sociale) per i più vari motivi. Il suicidio di un operaio per mancanza di lavoro (inoccupazione, licenziamento, riduzione d'orario, precarietà, ecc.) non è un suicidio qualsiasi, è un atto di genuflessione del lavoratore nei confronti del padrone che ha il potere di stabilire, crisi o non crisi, come e quando utilizzare la forza-lavoro. È un atto di genuflessione della vittima nei confronti del carnefice in quanto il sistema capitalistico mosso dalla logica del profitto impiega il lavoro salariato solo per sfruttarlo e lo butta sul lastrico quando non può continuare a farlo per la sovrapproduzione e crisi che esso stesso genera. L'operaio è uno sfruttato e per sopravvivere è costretto a lottare contro il proprio sfruttatore e il sistema di supersfruttamento. Quindi il suicidio operaio segna, non solo la disperazione tragica di chi si toglie la vita, ma anche e soprattutto l'indifferenza l'incomprensione (disorientamento, confusione) o la sfiducia nella lotta contro lo sfruttamento, unico modo per tutelare la dignità.
È vero che la dignità vale più della vita; ma non in generale, bensì solo quando la vita è messa in giuoco contro la schiavitù contro lo sfruttamento per la rivoluzione; non certo per non poter pagare puntualmente le tasse. Le cartelle esattoriali, che stanno mietendo tanti artigiani e piccoli imprenditori, non sono un modello di equità o di giustizia, sono gli strumenti di esproprio di massa con cui agisce attraverso "Equitalia", imponendo imposte esose sanzioni pazzesche e aggi usurai, lo "Stato rentier" di avvoltoi e parassiti. Ci dispiace di non poter trattare qui questo argomento, ci limitiamo a precisare a quanti si sentono perseguitati dal fisco che la responsabilità non va attribuita soltanto ai metodi riscossivi pirateschi di Equitalia, ma per la massima parte a questo "Stato rentier" (dominante nel nostro paese dal 2004) che mediante il parlamento e i governi di turno continua a sfornare misure strozzinesche contro le masse popolari a sostegno della banche.
È vero altresì che "senza lavoro non si può vivere". Ma questa verità, in apparenza assoluta, è solo relativa. Ciò di cui ha bisogno indispensabilmente l'operaio è il salario. E al lavoratore, giovane adulto anziano, che si rende disponibile al lavoro, va assicurato il "minimo vitale", specialmente nei periodi di "crisi economica". Questo "minimo vitale" corrisponde al nostro "salario minimo garantito" nell'importo e modalità precisati.
Un accenno, prima di chiudere alla sfilata delle "vedove bianche". Il 4 scorso le mogli di alcuni piccoli imprenditori, che si sono tolti la vita, hanno promosso a Bologna una marcia silenziosa per richiamare l'attenzione sulle problematiche economiche che affliggevano i loro coniugi ma anche sulla loro condizione di vedove senza mezzi. All'iniziativa si sono unite diverse mogli di lavoratori suicidatisi. Così una settantina di partecipanti hanno sfilato, per desiderio di Tiziana Marrone moglie dell'artigiano edile che il 28 marzo si era dato fuoco con la benzina davanti la Commissione tributaria, dall'Ospedale alla sede dell'Agenzia delle entrate. Questa sfilata, passata alla cronaca, come la marcia delle "vedove bianche", ha teso a distinguersi da ogni forma di protesta nei confronti di Equitalia e ha respinto ogni colorazione politica, tramutando il dolore in una specie di auto-colpevolizzazione. Non c'è stato neanche un gemito contro l'iniquità fiscale. E quindi la dignità delle donne in lutto ne è uscita ancor di più compromessa.
Pertanto: 1°) dissuadiamo le vedove operaie a partecipare a questo tipo di sfilate; 2°) invitiamo i lavoratori, anche in preda alla disperazione, ad aver fiducia nella lotta e a non scaricare il dramma quotidiano sulle mogli e sui figli; 3°) sottolineiamo che senza lotta non c'è dignità; 4°) non smettere di lottare anche se si sta soffrendo troppo; 5°) unirsi organizzarsi battersi per ottenere il salario minimo garantito di 1.250 € mensili intassabili.
Milano maggio 2012
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