sabato 8 settembre 2012

Un referendum per dire no all'euro?

di Paolo Becchi
Il picco di caldo raggiunto in questa estate che sta volgendo al termine è stato segnato dalle voci di una possibile iniziativa referendaria diretta a chiamare i cittadini italiani ad esprimersi sulle sorti dell’euro. È stato Roberto Maroni che, per primo, il 16 agosto ha annunciato di voler presentare «in Cassazione una proposta di legge di iniziativa popolare per abbinare alle politiche del 2013 un referendum consultivo nel quali i cittadini italiani possano esprimersi sull’euro».
Tipica provocazione leghista, dettata dalla necessità, per un partito in profonda e forse irreversibile crisi, di rinserrare le fila? Forse. Eppure, inaspettatamente, la proposta viene rilanciata direttamente da un rappresentante del governo, il ministro per gli Affari Europei Enzo Moavero Milanesi, il quale dichiara che «sulla nuova Europa bisogna consultare i cittadini». Applausi bipartisan. Dal PD, Arturo Parisi insiste: «ha ragione il Ministro Moavero. Il futuro dell’Unione dovrà essere deciso da un voto popolare». Poi la prudenza del governo: con l’arrivo del vento freddo, la questione passa nuovamente sotto silenzio.
Il sospetto, però, è che nessuno abbia molto chiaro cosa sia questo “voto popolare”, cosa significhi “consultare” i cittadini. Va da sé che dall’euro l’Italia non potrebbe certo uscire tramite un referendum abrogativo: non soltanto, infatti, l’art. 75 della Costituzione vieta esplicitamente che possa svolgersi un simile referendum sulle leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali ma, secondo una consolidata interpretazione della Consulta, non sarebbe mai possibile interferire, attraverso referendum, con l’ambito di applicazione delle norme comunitarie e con gli obblighi assunti dall’Italia nei confronti dell’Unione Europea. Né, occorre precisare, è possibile nel nostro ordinamento proporre lo svolgimento di referendum consultivi, al di là delle espresse previsioni della costituzione (articolo 132).
Per questo Maroni parla di “proposta di legge di iniziativa popolare” e di “referendum consultivo”. Per uscire dal “blocco” che la costituzione pone all’intervento diretto del popolo in materia di rapporti con l’Europa, egli sembra infatti richiamare il precedente che si ebbe nel 1989, quando, con legge costituzionale (3 aprile 1989, n. 2), fu indetto un “referendum di indirizzo” (ossia consultivo) sul conferimento di un mandato al Parlamento Europeo per redigere un progetto di Costituzione europea (fu un plebiscito a favore dell’Europa, con l’88% dei sì). Fu necessaria, allora, una legge di iniziativa popolare promossa dal Movimento federalista europeo – successivamente sostituita dalla proposta di legge costituzionale presentata dal partito comunista – la cui approvazione richiese la doppia lettura in entrambi i rami del Parlamento, secondo l’iter necessario per le leggi costituzionali.
La Costituzione non prevede, nella sua lettera, un’ipotesi simile, ma nell’89 i partiti furono concordi nell’approvare questo strumento atipico (il “referendum di indirizzo”) mediante una legge costituzionale ad hoc, formalmente “in deroga” o “rottura” di quanto previsto dall’art. 75 della Costituzione, per legittimare con il ricorso al voto popolare l’accelerazione del processo di integrazione europea. Come è stato correttamente notato da parte della dottrina, limitandosi semplicemente all’indizione di quella singola consultazione, la legge costituzionale non ha introdotto nel nostro ordinamento il referendum di indirizzo, il quale è per così dire, una volta svoltesi le operazioni di voto, «uscito dallo scenario costituzionale», facendo così svanire «la temporanea “rottura della Costituzione”». Che sia questo o meno l’obiettivo di Maroni, esso costituisce l’unica soluzione tecnicamente possibile – anche se in “deroga” alla Costituzione – per ritenere ammissibile un referendum consultivo attraverso il quale gli italiani possano esprimere il proprio giudizio sull’euro.
E’, evidente, tuttavia, come la reale posta in gioco non sia, oggi, quella di ripetere l’esperienza del 1989 (ipotesi piuttosto inverosimile), quanto quella di “sfidare” a venire allo scoperto quella maggioranza silenziosa di italiani che si vocifera da tempo abbia ormai assunto posizioni radicalmente euroscettiche. Per questo Maroni promette di raccogliere “milioni di firme” (quando, per presentare una proposta di legge di iniziativa popolare ne basterebbero 50.000). Anche se, come qualcuno ha notato, l’istituto del “referendum consultivo” di cui parla Maroni non esiste nella nostra Costituzione, ciò non significa che una iniziativa legislativa popolare non possa, in realtà, costituire una mossa politica determinante per l’avvenire di questo Paese. È un appello a contarsi, a schierarsi, a prendere posizione, a far sentire finalmente la propria voce, che potrebbe coinvolgere tutti coloro che vogliono dire no alla moneta europea, che potrebbe finalmente trasformare l’euroscetticismo, da vaga sensazione che si respira oggi nell’aria, in una vera forza politica.

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