venerdì 26 giugno 2015

Terrorismo, l'arma dei potenti

Terrorismo, l'arma dei potentidi Noam Chomsky* - da Il Manifesto
"Come mai - si chiede il presidente Bush - siamo così odiati», quando siamo «così buoni"? I leader statunitensi continuano a non curarsi degli effetti a lungo e medio termine della loro politica estera, che li spinge ad usare qualsiasi mezzo per imporre al mondo la propria supremazia. Il finanziamento da parte dell'amministrazione Reagan della contro-rivoluzione anti-sandinista in Nicaragua (57mila vittime), l'aiuto militare alla «lotta contro il terrorismo» condotta dal governo di Ankara contro i kurdi (due-tre milioni di rifugiati, decine di migliaia di vittime, 350 città e villaggi distrutti), il sostegno incondizionato all'occupazione israeliana dei territori palestinesi sono tutti episodi che mostrano come i dirigenti statunitensi non si facciano alcuno scrupolo ad appoggiare pratiche di violenza calcolata e «guerre di bassa intensità» che possono essere equiparate al terrorismo. Ma, come mostra efficacemente la parabola di Osama bin Laden, i loro successi di ieri possono essere scontati successivamente ad un prezzo altissimo. Bin Laden è il prodotto della vittoria statunitense contro i sovietici in Afghanistan: quale sarà il costo del loro nuovo trionfo in questo paese?

di Noam Chomsky*
Dobbiamo partire da due postulati. Primo, che gli avvenimenti dell'11 settembre costituiscono una atrocità spaventosa, probabilmente la maggiore perdita simultanea di vite umane della storia, guerre escluse.
Il secondo postulato è che dovremmo porci l'obiettivo di ridurre il rischio che possano ripetersi tali attentati, siano essi rivolti contro di noi o contro altri. Se non accettate questi due punti di partenza, tutto quello che segue non vi riguarda; se invece li accettate, si pongono molti altri problemi. Cominciamo dalla situazione in Afghanistan. In tale paese vi sarebbero milioni di persone minacciate dalla carestia. Questo era già vero prima degli attentati: sopravvivevano soprattutto grazie all'aiuto internazionale. Ma, il 16 settembre, gli Stati uniti hanno imposto al Pakistan di sospendere i convogli di automezzi che portavano cibo e altri generi di prima necessità alla popolazione afgana. Tale decisione non ha provocato alcuna reazione in Occidente e il ritiro di personale umanitario ha reso ancora più problematica l'assistenza della popolazione. Una settimana dopo l'inizio dei bombardamenti, le Nazioni unite ritenevano che l'avvicinarsi dell'inverno avrebbe reso impossibile l'invio di cibo, già ridotto al lumicino dai raid dell'aviazione americana.
Quando alcune organizzazioni umanitarie civili o religiose e lo stesso portavoce della Fao hanno chiesto una sospensione dei bombardamenti, tale notizia non è stata neppure riferita dal New York Times; il Boston Globe se l'è cavata con appena una riga, ma all'interno di un articolo dedicato a un altro argomento, cioè alla situazione nel Kashmir. Nell'ottobre scorso, la civiltà occidentale si era rassegnata al rischio di veder morire centinaia di migliaia di afgani. Nello stesso momento, il leader di tale civiltà faceva sapere che non si sarebbe degnato di rispondere alle proposte afgane di negoziare sulla questione della consegna di Osama bin Laden, né sulla richiesta di una prova su cui fondare una possibile decisione di estradizione.
Avrebbe accettato soltanto una capitolazione senza condizioni.
Ma torniamo all'11 settembre. Nessun crimine, nulla ha fatto più morti nella storia - o soltanto su tempi molto più lunghi. Peraltro, questa volta le armi hanno puntato su un bersaglio insolito: gli Stati uniti. L'analogia così spesso evocata con Pearl Harbor non è appropriata. Nel 1941 l'aviazione nipponica ha bombardato alcune basi militari in una colonia di cui gli Stati uniti si erano impadroniti in condizioni poco raccomandabili; i giapponesi non avevano attaccato direttamente il territorio americano.
In questi ultimi due secoli, noi americani abbiamo scacciato o sterminato popolazioni di indios - milioni di persone - conquistato la metà del Messico, saccheggiato le regioni dei Caraibi e dell'America centrale, invaso Haiti e le Filippine, uccidendo in quest'ultima occasione anche 100mila filippini. Poi, dopo la seconda guerra mondiale, abbiamo esteso il nostro dominio sul mondo nella maniera ben nota. Ma quasi sempre eravamo noi ad uccidere e il combattimento avveniva al di fuori del nostro territorio nazionale.
Ma, come si ha modo di constatare quando ci fanno domande, ad esempio, sull'Ira e sul terrorismo, le domande dei giornalisti sono molto diverse, a seconda che riguardino una sponda o l'altra del mare di Irlanda. In generale, il pianeta appare sotto tutt'altra luce a seconda che si impugni da molto tempo la frusta o che si sia abituati a subirne i colpi nel corso dei secoli. Forse è per questo, in fondo, che il resto del mondo, pur dimostrando un orrore senza eccezioni di fronte alla sorte delle vittime dell'11 settembre, non ha reagito come abbiamo reagito noi agli attentati di New York e di Washington.
Per comprendere gli avvenimenti dell'11 settembre, occorre operare una distinzione fra gli esecutori del crimine e l'area diffusa di comprensione di cui ha goduto tale crimine, anche fra i suoi oppositori.
Gli esecutori? Supponendo che si tratti della rete di bin Laden, nessuno conosce la genesi di questo gruppo fondamentalista meglio della Cia e dei suoi accoliti, che ne hanno tanto incoraggiato la nascita. Zbigniew Brzezinski, segretario alla sicurezza nazionale dell'amministrazione Carter, si è addirittura felicitato della «trappola» tesa ai sovietici nel 1978, manovrando gli attacchi dei mujaheddin (organizzati, armati e addestrati dalla Cia) contro il regime di Kabul: una manovra che ha spinto alla fine dell'anno successivo i sovietici ad invadere il territorio afgano. Solo dopo il 1990 e dopo l'installazione di basi americane permanenti in Arabia saudita, su una terra sacra all'Islam, questi combattenti sono diventati nemici degli Stati uniti.
Adesso, se si vuole spiegare l'area diffusa di simpatia di cui godono le reti di bin Laden, anche fra le classi dominanti dei paesi del Sud del mondo, occorre considerare innanzitutto la collera che suscita l'appoggio degli Stati uniti a regimi autoritari o dittatoriali di ogni sorta; occorre ricordarsi della politica americana che ha distrutto la società irachena consolidando nel contempo il regime di Saddam Hussein; occorre non dimenticare l'appoggio costante di Washington all'occupazione israeliana dei territori palestinesi dal 1967 ad oggi. Nel momento in cui gli editoriali del New York Times lasciano intendere che «loro» ci detestano perché noi difendiamo il capitalismo, la democrazia, i diritti umani, la separazione fra stato e chiesa, il Wall Street Journal, meglio informato, dopo aver parlato con banchieri e alti dirigenti non occidentali ci spiega che «ci» detestano perché abbiamo ostacolato la democrazia e lo sviluppo economico - e appoggiato regimi brutali, o addirittura terroristici.
Fra le alte sfere dell'Occidente, la guerra contro il terrorismo è stata equiparata ad una «lotta contro un cancro diffuso dai barbari».
Ma queste parole e questa priorità sono tutt'altro che nuove; ne parlavano già venti anni fa il presidente Ronald Reagan e il suo segretario di stato Alexander Haig. E per combattere i nemici depravati della civiltà, all'epoca il governo americano organizzò una rete terroristica internazionale di dimensioni senza precedenti. E, se tale rete commise atrocità innumerevoli da un capo all'altro del pianeta, il massimo impegno venne dedicato all'America latina.
Il diritto internazionale è debole Un caso, quello del Nicaragua, è incontestabile: e infatti è stato risolto dalla Corte internazionale di giustizia dell'Aja e dalle Nazioni unite. Chiedetevi pure quante volte questo precedente indiscutibile di un'azione terroristica a cui uno stato di diritto ha voluto rispondere con i mezzi del diritto sia stato richiamato dai commentatori più in voga. Eppure, si trattava di un precedente ancora più estremo degli attentati dell'11 settembre: la guerra dell'amministrazione Reagan contro il Nicaragua ha provocato 57mila vittime, fra cui 29mila morti (gli altri sono feriti o mutilati), e la rovina di un intero paese, forse in maniera irreversibile (si legga alle pagine 16 e 17).
All'epoca, il Nicaragua aveva reagito. Non facendo esplodere bombe a Washington, bensì appellandosi alla Corte internazionale di giustizia.
E la Corte decise, il 27 giugno 1986, dando ragione alle autorità di Managua. Condannò «l'uso illegale della forza» da parte degli Stati uniti (che avevano minato i porti del Nicaragua) e ingiunse a Washington di porre fine al crimine, senza dimenticare di pagare danni e interessi rilevanti. Gli Stati uniti replicarono che non si sarebbero piegati a tale giudizio e che non avrebbero più riconosciuto la giurisdizione della Corte.
Allora il Nicaragua chiese al Consiglio di sicurezza dell'Onu l'adozione di una risoluzione secondo cui tutti gli stati erano tenuti a rispettare il diritto internazionale. Non si citava nessuno stato in particolare, ma il messaggio era evidente. Gli Stati uniti esercitarono il loro diritto di veto contro questa risoluzione. A tutt'oggi sono quindi l'unico stato che sia stato condannato dalla Corte internazionale di giustizia e che nel contempo si sia opposto a una risoluzione che chiedeva il rispetto del diritto internazionale. Dopo di che, il Nicaragua si rivolse all'Assemblea generale dell'Onu. La risoluzione proposta ottenne soltanto tre voti negativi: quelli degli Stati uniti, di Israele e del Salvador. L'anno successivo il Nicaragua richiese di votare sulla stessa risoluzione. Stavolta, soltanto Israele appoggiò la causa dell'amministrazione Reagan. Arrivato a questo punto, il Nicaragua aveva esaurito tutti i mezzi giuridici a sua disposizione, e tutti erano falliti, in un mondo dominato dalla forza. Questo precedente non lascia adito a dubbi. Quante volte se ne è parlato, all'università, sui giornali?
Si tratta di una vicenda per molti aspetti rivelatrice. Innanzitutto rivela che il terrorismo funziona. E anche la violenza. In secondo luogo che ci si sbaglia a considerare il terrorismo uno strumento dei deboli. Come la maggior parte delle armi di morte, il terrorismo è soprattutto l'arma dei potenti; quando si sostiene il contrario, ciò avviene unicamente perché i potenti controllano anche gli apparati ideologici e culturali che consentono di far passare il terrore per qualcosa di diverso. Uno dei mezzi più correnti di cui dispongono per ottenere tale risultato consiste nel far scomparire la memoria degli avvenimenti di disturbo; in tal modo, nessuno se ne ricorda.
Del resto, la potenza della propaganda e delle dottrine americane è talmente grande da imporsi alle sue stesse vittime. Andate in Argentina, e vedrete che dovrete essere voi a rievocare certi fatti. Allora vi diranno: «Ah, sì, ma lo avevamo dimenticato!».
Nicaragua, Haiti e Guatemala sono i tre paesi più poveri dell'America latina. Figurano anche tra i paesi in cui gli Stati uniti sono intervenuti manu militari, il che non è necessariamente una coincidenza fortuita.
Tutto ciò avvenne in un clima ideologico contrassegnato dai proclami entusiasti degli intellettuali occidentali. Qualche anno fa, l'autocompiacimento faceva furore: fine della storia, nuovo ordine mondiale, stato di diritto, ingerenza umanitaria e via dicendo. Era moneta corrente, proprio mentre lasciavamo che si commettessero atrocità innumerevoli.
Anzi, peggio, davamo un nostro contributo attivo. Ma chi ne parlava?
Una delle più grandi conquiste della civiltà occidentale consiste forse nel rendere possibile questo tipo di incongruenza in una società libera. Uno stato totalitario è privo di questo dono.
Che cosa è il terrorismo? Nei manuali militari americani, si definisce terrore l'uso calcolato a fini politici o religiosi della violenza, della minaccia di violenza, dell'intimidazione, della coercizione o della paura. Il problema di una simile definizione è che essa coincide abbastanza precisamente con quello che gli Stati uniti hanno definito guerra di bassa intensità, rivendicando questo genere di attività.
D'altronde, nel dicembre 1987, allorché l'Assemblea generale dell'Onu ha adottato una risoluzione contro il terrorismo, c'è stata una sola astensione, quella dell'Honduras, e due voti contrari, quelli di Israele e degli Stati uniti. Perché lo hanno fatto? A causa di un paragrafo della risoluzione che precisava che non si intendeva rimettere in discussione il diritto dei popoli a lottare contro un regime colonialista o contro una occupazione militare.
Orbene, all'epoca il Sudafrica era alleato degli Stati uniti. Oltre agli attacchi contro i paesi limitrofi (Namibia, Angola, ecc.) che hanno provocato centinaia di migliaia di morti e causato danni nell'ordine di 60 miliardi di dollari, il regime dell'apartheid di Pretoria doveva affrontare all'interno del paese una forza definita «terrorista»: l'African National Congress (Anc). Quanto a Israele, occupava illegalmente alcuni territori palestinesi fin dal 1967, altri in Libano fin dal 1978, guerreggiando nel sud del Libano contro una forza che Israele stesso e gli Stati uniti tacciavano di «terrorismo»: gli Hezbollah.
Nelle analisi abituali del terrorismo, questo tipo di informazione o di richiamo non è frequente; affinché le analisi e gli articoli dei giornali siano ritenuti rispettabili, conviene in realtà schierarsi dalla parte giusta, ossia dalla parte di chi dispone delle armi più potenti.
Gli inglesi non distruggono Boston Negli anni '90 i peggiori attacchi contro i diritti umani sono stati riscontrati in Colombia. Tale paese è stato il principale destinatario dell'aiuto militare americano, ad eccezione di Israele e dell'Egitto, che costituiscono due casi a sé. Fino al 1999, il primo posto spettava alla Turchia, a cui gli Stati uniti hanno consegnato una quantità crescente di armi fin dal 1984. Perché proprio quell'anno? Non perché questo paese, membro della Nato, dovesse affrontare l'Unione sovietica, già allora in fase di disfacimento, ma affinché potesse portare avanti la guerra terroristica che aveva iniziato contro i kurdi. Nel 1997, l'aiuto militare americano alla Turchia ha superato quello che il paese aveva ottenuto in negli anni dal 1950 al 1983, cioè il periodo della guerra fredda. Risultato delle operazioni militari: da 2 a 3 milioni di rifugiati, decine di migliaia di vittime, 350 città e villaggi distrutti. Man mano che la repressione si intensificava, gli Stati uniti continuavano a fornire quasi l'80% delle armi utilizzate dai militari turchi, accelerando addirittura il ritmo delle consegne.
La tendenza si è ribaltata nel 1999, allorché il terrore militare - naturalmente denominato «controterrorismo» dalle autorità di Ankara - aveva conseguito i suoi obiettivi. Succede quasi sempre così quando il terrore è gestito dai suoi principali utilizzatori, cioè dalle forze al potere.
Nel caso della Turchia, gli Stati uniti hanno trovato un paese tutt'altro che ingrato. Washington le aveva dato gli F-16 per bombardare la sua popolazione e la Turchia li ha utilizzati nel 1999 per bombardare la Serbia. Poi, pochi giorni dopo l'11 settembre, il primo ministro turco Bülent Ecevit ha fatto sapere che il suo paese avrebbe partecipato con entusiasmo alla coalizione americana contro la rete di bin Laden.
In tale occasione, il primo ministro spiegò che la Turchia aveva un debito di gratitudine nei confronti degli Stati uniti, che risaliva alla sua «guerra contro il terrorismo» e all'appoggio incondizionato che era stato assicurato da Washington. Certo, anche altri paesi avevano sostenuto la guerra di Ankara contro i kurdi, ma nessuno con zelo ed efficacia paragonabili a quelli degli Stati uniti. L'appoggio dei turchi ha goduto del silenzio, e forse è più giusto dire del servilismo, degli ambienti colti americani, che non potevano certo ignorare le vicende in corso. Gli Stati uniti dopo tutto sono un paese libero e i rapporti delle organizzazioni umanitarie sulla situazione in Kurdistan erano di dominio pubblico.
All'epoca, quindi, abbiamo deciso di dare il nostro contributo alle atrocità.
La nostra coalizione contro il terrorismo comprende altre reclute di prima scelta. Il Christian Science Monitor, probabilmente uno dei migliori giornali sull'attualità internazionale, ha rivelato che alcuni popoli che non amavano affatto gli Stati uniti cominciavano a rispettarli di più, particolarmente felici di vederli alla testa di una guerra contro il terrorismo. Il giornalista, che peraltro era uno specialista dell'Africa, citava come esempio simbolo di questa svolta il caso dell'Algeria. Eppure, doveva sapere che l'Algeria conduce una guerra terroristica contro il suo stesso popolo. Altri due paesi che hanno abbracciato la causa americana sono la Russia, che porta avanti una guerra terroristica in Cecenia, e la Cina, autrice di una serie di atrocità contro quelli che definisce i secessionisti musulmani.
Sia pure: ma che fare nella situazione attuale? Un radicale estremista come il Papa suggerisce di ricercare i colpevoli del crimine dell'11 settembre per sottoporli a giudizio. Ma gli Stati uniti non desiderano ricorrere alle forme giudiziarie normali, preferiscono non dover addurre alcuna prova, e si oppongono all'esistenza di una giurisdizione internazionale. Anzi, quando Haiti chiede l'estradizione di Emmanuel Constant, giudicato responsabile della morte di migliaia di persone dopo il colpo di stato che ha rovesciato il presidente Jean-Bertrand Aristide il 30 settembre 1991, e presenta prove della sua colpevolezza, la richiesta non sortisce alcun effetto a Washington, e non suscita alcun dibattito.
Per lottare contro il terrorismo è necessario ridurre il livello del terrore, e non aumentarlo. Allorché l'esercito repubblicano irlandese (Ira) commette un attentato a Londra, gli inglesi non distruggono né Boston, città in cui l'Ira conta numerosi sostenitori, né Belfast.
Cercano i colpevoli, e poi li giudicano. Un mezzo per ridurre il livello del terrore consisterebbe nel cessare di contribuirvi noi stessi. Per poi riflettere sugli orientamenti politici che hanno creato un'area diffusa di appoggio, di cui hanno poi approfittato i mandanti dell'attentato. In queste ultime settimane, la presa di coscienza dell'opinione pubblica americana sulle realtà internazionale di ogni sorta, di cui prima solo le élite sospettavano l'esistenza, costituisce forse un passo avanti in questa direzione.
note:

* Professore al Massachusetts Institute of Technology (Mit) di Boston.
Questo testo è tratto da una conferenza svoltasi all'Mit il 18 ottobre scorso. Noam Chomsky è autore di numerose libri, fra cui 11 settembre.
Le ragioni di chi?, Marco Tropea editore, 2001.
(Traduzione di R. I.)
 
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