martedì 28 novembre 2017

Vaccini: perché la "scienza" va presa con le pinze - Guido Viale

Ugo Mattei: perché non ti fanno più togliere la batteria dallo smartphon...

Ugo Mattei: perché non ti fanno più togliere la batteria dallo smartphon...

Cos’è il glifosato

Il 22 agosto è entrato in vigore in Italia il decreto del ministero della salute che stabilisce il ritiro dal commercio di 85 prodotti fitosanitari contenenti la sostanza attiva glifosato, sospettata di essere cancerogena. Inoltre questo diserbante non potrà più essere usato in “parchi, giardini, campi sportivi, aree gioco per bambini, cortili ed aree verdi interne a complessi scolastici e strutture sanitarie” e nella fase di “preraccolta, al solo scopo di ottimizzare il raccolto e la trebbiatura”. Fuori legge anche i prodotti contenenti come coformulante l’ammina di sego polietossilata.

Cos’è il glifosato

  • Il glifosato è una sostanza attiva ampiamente utilizzata nei pesticidi. È stato sintetizzato per la prima volta nel 1950 da un chimico svizzero, ma fu commercializzato come diserbante per l’agricoltura solo negli anni settanta, dalla Monsanto. Inizialmente era impiegato soprattutto prima della semina per liberare i campi dalle erbacce. Da quando esistono le piante geneticamente modificate resistenti al glifosato, questo diserbante può essere usato anche dopo la semina. Il glifosato è venduto in tutto il mondo soprattutto dalla Monsanto, che produce anche i semi delle piante modificate resistenti al pesticida.
  • Negli Stati Uniti il glifosato è stato autorizzato dall’Environmental protection agency, e in Europa dalla Commissione europea, che lo ha approvato una prima volta nel 2002. A fine giugno la Commissione europea ha prorogato l’autorizzazione alla messa in commercio fino alla fine del 2017, in attesa di un parere definitivo sui rischi per la salute dell’Agenzia chimica europea. Intanto ha proposto di limitarne l’uso.
  • In Italia è vietata la coltivazione di piante geneticamente modificate, ma il glifosato è comunque molto usato sia sulle colture arboree ed erbacee sia in aree che non sono destinate all’agricoltura. È uno dei prodotti fitosanitari più venduti a livello nazionale. Il monitoraggio delle presenza del glifosato nelle acque al momento è effettuato solo in Lombardia, dove la sostanza è presente nel 31,8 per cento dei punti di osservazione delle acque superficiali, e il suo metabolita (Ampa) nel 56,6 per cento dei casi. Il glifosato e l’Ampa sono tra le sostanze che più determinano il superamento degli standard di qualità ambientale (Sqa) nelle acque superficiali: l’Ampa in 155 punti (56,6 per cento del totale), il glifosato in 85 punti (31 per cento del totale).

Un mercato fiorente

  • Secondo uno studio della società di ricerca statunitense Transparency Market Research, nel 2012 sono state vendute nel mondo 718.600 tonnellate di glifosato. Il 45, 2 per cento della domanda era legato alla vendita di piante geneticamente modificate (ogm) resistenti al glifosato. All’epoca il mercato globale di questo diserbante valeva 5,4 miliardi di dollari ed entro il 2019 dovrebbe raggiungere gli 8,8 miliardi di dollari, crescendo a un tasso annuo del 7,2 per cento.
  • Lo sviluppo del mercato è legato alla crescente adozione delle colture ogm, in particolare nelle economie emergenti dell’Asia Pacifico e dell’America Latina. I mercati più ricchi sono gli Stati Uniti, il Brasile, l’Argentina, il Sudafrica, l’India e la Cina. Nell’Asia Pacifico, regione che nel 2012 costituiva un terzo della domanda globale di glifosato, la crescita è guidata dalla Cina e dall’India. La regione che garantisce i fatturati più alti è invece il Nordamerica, dove i prodotti a base di glifosato hanno prezzi più alti.
  • I principali produttori di glifosato sono le statunitensi Monsanto, DowAgro e DuPont, l’australiana Nufarm, la svizzera Syngenta e le cinesi Zhejiang Xinan Chemical Industrial Group, Jiangsu Good Harvest-Weien Agrochemical e Nantong Jiangshan Agrochemical & Chemicals.
  • Secondo lo studio, il successo del glifosato potrebbe essere ostacolato dallo sviluppo di erbacce resistenti al prodotto e soprattutto dall’adozione di norme restrittive sugli erbicidi in Europa.
  • Riteniamo inconcepibile che solo per fare gli interessi di Multinazionali, i governi , gli Stati si rendono complici dell'avvelenamento delle proprie popolazioni, poi gli stessi governi si lamentano che si spende troppo per la sanità; prima l'avvelenano e poi ci chiedono soldi per la ricerca di malattie.

venerdì 24 novembre 2017

Usi terapeutici della Cannabis

Usi terapeutici della Cannabisdi Marcello Pamio 
Non dovevo occuparmene più!
Dopo aver scritto Cannabis connection, mi ero promesso di regalare alla pianta più boicottata dell’umanità un meritato e doveroso riposo. Invece…parlando con diverse persone ho potuto constatare quanto sia ancora radicata la disinformazione sulla canapa. Una disinformazione medica che mi ha costretto a riprendere in mano la questione e trattare una volta per tutte l’aspetto forse più importante della pianta: quello terapeutico. 
A tal proposito esiste una documentazione faraonica: libri, articoli, antichissimi erbari, ricerche e pubblicazioni scientifiche, esperienze di volontari, ecc. Tutto testimonia a favore della cannabis nella cura di patologie che vanno dai dolori muscolo-scheletrici, al glaucoma, dall’anoressia e depressione a malattie tremende come epilessia e sclerosi multipla, per non parlare del validissimo aiuto nell’alleviamento degli effetti secondari dei trattamenti chemioterapici nel cancro, come nausea e vomito, e negli stati debilitanti della Sindrome da Immunodeficienza (AIDS). 
I risultati sono così entusiasmanti che oggi sperimentazioni mediche controllate sono iniziate in Stati Uniti, Germania, Spagna, Inghilterra, Belgio, Israele, Olanda e Canada. In quest’ultimo paese addirittura, l’Associazione Medica che riunisce tutti i 52 mila medici canadesi vorrebbe rimuovere dal codice penale l’uso personale della cannabis e sostituirlo con una semplice ammenda[1]. Cosa dire poi del recentissimo studio sull’abuso della droga da parte di una Commissione governativa inglese la cui conclusione è a dir poco incredibile: “Lo spinello dà meno assuefazione delle sigarette e dell’alcol[2]. Non solo, il gruppo di esperti incaricati dal Ministro dell’Interno britannico per valutare i pro e i contro di un alleggerimento della legge sulle sostanze illecite, sostiene che la cannabis potrebbe addirittura fare bene alla salute: “l’azione cardiovascolare – spiega il rapporto – è simile agli effetti dell’esercizio fisico”. 
Ma cosa sta succedendo? Una delle piante più antiche viene prima messa al bando rendendola illegale per decine di anni - paragonata ad una droga tossica e pericolosa per la salute - per poi saltare agli onori delle cronache vivendo oggi un periodo di quasi religiosa redenzione. 
Una redenzione ostacolata da pochi e osannata da molti per via delle altre numerose applicazioni pratiche da guinness dei primati. Dalla canapa infatti oltre a medicinali che funzionano, e questo basterebbe, si possono ottenere: carta indistruttibile, materiale tipo plastica, coloranti, solventi, tessuti resistentissimi, cordame e molto altro ancora. Per questo, molto probabilmente, è stata oggetto della più grande opera di boicottaggio mai realizzata nella storia a noi conosciuta. Una fitocospirazione da fantascienza, che se non lo avete ancora letto vi consiglio di farlo al più presto (Cannabis connection)
Questo recente riconoscimento è la presa di coscienza di un errore passato di proibizionismo gratuito - anche se di gratuito non ha proprio nulla - o la riabilitazione obbligatoria per via di un numero sempre maggiore di utilizzatori e di prove della sua efficacia, almeno in termini medici? La cosa certa è che oggi chi giova di tutto questo, tranne pochissime persone autorizzate dai rispettivi governi a fumarsi la “piantina”, sono le corporazioni chimico-farmaceutiche che approfittando della situazione stanno commercializzando prodotti di sintesi, i cosiddetti analoghi, che emulano il principio attivo della cannabis: il THC. Una emulazione che vedremo in seguito presenta qualche piccolo inconveniente.
Prima però osserviamo a livello fisiologico come agiscono questi cannabinoidi “colpevoli” degli eccezionali risultati terapeutici. 
Il THC, come abbiamo detto è il principio attivo della cannabis, cioè quello che agisce direttamente sull’organismo. Per essere più precisi interagisce con un sistema detto cannabinoide[3]normalmente presente nel corpo umano, e produce i suoi effetti agendo sui recettori del sistema. I recettori sono delle proteine molto speciali che si trovano sulle superfici di determinate cellule. La droga, in soldoni, forma una specie di ponte, un legame con queste proteine e per così dire attiva delle funzioni cellulari interne molto precise. Sono stati identificati due tipi di recettore: il CB1 e il CB2.
I CB1 sono presenti sui neurociti encefalici e spinali come in certi tessuti periferici; i CB2 si trovano principalmente sulle cellule del sistema immunitario ma non nel cervello[4]
Questo è molto interessante: abbiamo recettori della cannabis sul cervello e addirittura nel sistema immunitario[5].
Per dover di cronaca è doveroso anche sottolineare che non esiste solo il THC, questo indubbiamente è il più famoso e il più presente nella pianta, ma esistono oltre 60 cannabinoidi diversi l’uno dall’altro. Al momento attuale non si sa molto sulle proprietà di questi cannabinoidi se non che sembrano essere privi di effetti psicoattivi e/o psicotropi sul cervello. Quindi l’ipotesi che anch’essi influenzino positivamente gli effetti terapeutici della cannabis senza però interferire sul comportamento umano non è da scartare. 
In definitiva questi cannabinoidi di origine naturale interagiscono con parecchie funzioni organiche e sono in grado tra le altre cose di bloccare la liberazione dell’acido glutammico, il principale neurotrasmettitore implicato nella patogenesi dell’ictus[6]; liberare dopamina, un altro importantissimo neurotrasmettitore collegato alla capacità di controllare i movimenti, e tanti altri aspetti più sottili che sono in fase avanzata di studio. A proposito di studi: prima ho accennato alle numerose sperimentazioni che si stanno facendo in tutto il mondo. Bene. Le sperimentazioni per chi non lo sapesse sono sempre costosissime, e nessun istituto di ricerca si sognerebbe di spendere soldi senza la certezza matematica di un notevole tornaconto. Un tornaconto che si materializza molto spesso in un farmaco o una terapia. Nel caso della cannabis abbiamo, per il momento, due tornaconti sintetici: Dronabinolo e Nabilone. Ce ne sarebbero altri, come il Levonantradolo, l’HU-210, il SR141716A, ecc. ma per il momento sono disponibili solo per usi sperimentali. Per il momento però. Domani…è un altro giorno.
Il Dronabinolo, il cui nome commerciale è Marinol® è prodotto dalla Unimed Pharmaceuticals Inc., una compagnia della Solvay Pharmaceuticals Corporation. Il Nabilone detto anche Cesamet® è prodotto in Inghilterra dalla Cambridge Selfcare Diagnostics Ltd per conto della Eli Lilly & Corporation, quella del Prozac® per intendersi.[7] 
Naturalmente a questo punto era d’obbligo spulciare i foglietti illustrativi di questi farmaci. Cosa secondo voi abbiamo trovato? Siamo sempre alle solite: svariati effetti collaterali! Fin qui nulla di strano, visto che non esistono medicinali di sintesi privi di controindicazioni. Però se vi dicessi che le reazioni avverse sono le stesse curate però dalla pianta naturale, come anoressia, depressione, astenia[8], la cosa non assume una aspetto tragicomico? Se uso per esempio la “cannabis sintesis” per aiutare un’astenia potrei vedere insorgere una depressione accompagnata pure da vertigini. Oppure, che ne so, per alleviare nausea e vomito provoco palpitazioni e/o ansietà. Interessante vero? Si cura da una parte e si pagano le conseguenze dall’altra! L’onnipresente rovescio della medaglia. Sicuramente il dritto sarà un basso costo di vendita al pubblico, giusto? Sbagliato. Una ventina di capsule di Cesamet® per esempio, costano 102 sterline circa[9]! E il Marinol è ancora più costoso[10]. Avete capito? Una singola pastiglia, per capirci, costa oltre 15mila di vecchie lire! Più che un dritto, mi sembra un altro rovescio! Il problema è che nessuno sta giocando a tennis, qui abbiamo a che fare con la vita e la salute, già precarie, di tantissime persone sofferenti.
Allo stato attuale quindi, abbiamo da una parte una pianta illegale a gratis che si potrebbe coltivare quasi ad ogni latitudine senza necessità di pesticidi e con un tempo di maturazione rapidissimo di pochi mesi, dall’altra dei prodotti sintetici che costano molto, richiedono diversi anni di studi e presentano inconvenienti secondari da non sottovalutare. 
Cosa fare a questo punto? Legalizzare la pianta proibita per antonomasia, catalogata fin dagli anni ’60 nel campo delle “droghe senza alcun effetto terapeutico[11], oppure continuare a non vederne i risultati in ambito terapeutico puntando esclusivamente nella chimica di sintesi? Secondo voi cosa opteranno i governi democratici dell’unione europea indirizzati magari dalle potenti corporazioni transnazionali della chimica e della farmaceutica? Una vaga idea io ce l’ho, non so voi…
Nessuno certamente vorrebbe una società in cui persone sane si spacciano per malati immaginari inventandosi patologie o peggio ancora falsificando esami per farsi prescrivere dal proprio medico una sigarettina farcita, o peggio ancora vedere malati che soffrono realmente di gravose patologie debilitanti che non possono utilizzare i derivati della cannabis se non da degenti ospedalieri, come sta succedendo oggi nel nostro paese. La farmacia del Policlinico Umberto I per esempio, ma questo è valido per tutti gli ospedali, può somministrare il farmaco derivato dal THC solo dopo il ricovero[12]. Non è questa una burocratica assurdità all’italiana? Una persona in grado tranquillamente di seguire la terapia nella comodità del focolare domestico, magari con la vicinanza dei propri cari, si vede costretta a entrare nell’ambiente asettico e freddo di un nosocomio.
Speriamo allora che passi il recente Disegno di Legge che introdurrebbe l’uso terapeutico della cannabis. Questo almeno permetterebbe di trovare i fitofarmaci sintetici direttamente in farmacia, previa naturalmente ricetta di un medico del servizio sanitario.
Nell’attesa di questo Disegno concludiamo con una comparazione dal punto di vista pratico e farmacologico tra la pillola sintetica e la sempreverde pianta plurimillennaria. 
Apro una parentesi doverosa perché i fattori influenzanti nel caso della cannabis naturale sono numerosissimi: stati d’animo della persona, quanto e come il fumo viene aspirato, quanta cannabis contiene la sigaretta, quanto THC è presente nella pianta, dal tipo di pianta, ecc.
Chiudiamo la parentesi e prepariamoci ad entrare in campo. 
Il fumo di una sigaretta di cannabis rilascia in circolo oltre il 30% del THC totale, mentre per via orale, la pillola, è di 2 o 3 volte inferiore perché dopo essere stata assorbita attraverso l’intestino viene metabolizzata dal fegato prima di raggiungere il grande circolo[13].
Uno a zero per la cannabis e palla al centro. Per essere onesti ci sarebbe una punizione per la chimica se consideriamo le supposte rettali che bypassando il fegato permettono un maggior assorbimento del THC in circolo.
Una volta entrato nel torrente circolatorio il THC si distribuisce  in tutto il corpo principalmente nel tessuto adiposo perché essendo liposolubile si scioglie solo nel grasso. Questa proprietà intrinseca della cannabis è un grosso limite per la formulazione dei preparati cannabinoidi, oltre a rallentare il loro assorbimento intestinale[14].
Due a zero e di nuovo palla al centro. 
Per quanto riguarda gli effetti farmacologici della cannabis documentati finora sono relativi alle vie respiratorie. Uno studio del Western Journal of Medicine del 9 giugno 1993[15] afferma che chi fuma cannabis rischia malattie alle vie respiratorie per il 19% in più di chi non fuma, e che nessuna dipendenza e/o assuefazione fisica è stata dimostrata se non una sporadica dipendenza psicologica in alcuni soggettiDall’altra abbiamo gli effetti secondari del Marinol® e del Cesamet® visti prima.
Diamo un punto alla sintesi chimica perché non tutte le persone sarebbero disposte a utilizzare la pianta attraverso la sigaretta. Se però consideriamo che dei sessanta cannabinoidi naturali contenuti nella canapa, i prodotti farmacologici attualmente in commercio sono basati quasi esclusivamente nel Tetraidrocannabinolo (THC), l’unico con effetti psicotropi, tralasciando gli altri cinquantanove privi di attività sul cervello, è lecito pensare che al momento attuale la pianta potrebbe essere almeno sessanta volte più completa di qualsivoglia prodotto uscito da un laboratorio di ricerca. Calcolando infine i costi rispettivi decisamente incomparabili il risultato finale è di quattro a uno per la cannabis! Avrete capito che questa è una gara surreale perché se avvenisse realmente l’arbrito, rappresentato dalle lobby del farmaco, fischierebbe almeno due o tre rigori per la chimica espellendo magari qualche cannabinoide per “intervento” troppo deciso. Non ci resta che sperare quindi in una invasione di campo che metta fine una volta per tutte a questa assurda e controproducente rivalità. Un “invasione pacifica” da parte di una maggiore consapevolezza che dia, anzi ri-dia, al malato il suo ruolo principale di essere vivente e che santifichi una volta per tutte uno dei diritti più importanti: quello della libera scelta terapeutica. Una scelta che spetta esclusivamente ai singoli individui e non alle organizzazioni sanitarie, tanto meno alle corporazioni; perché…una volta imboccata la strada terapeutica siamo noi a pagarne le conseguenze e/o goderne i benefici. Nessun altro!
Marcello Pamio

[1] ANSA 15 marzo 2002[2] Il Corriere della Sera del 17 Giugno 2002 [3] Veniva usato per designare la famiglia delle sostanze chimiche presenti nella cannabis. Oggi abbraccia tutte le sostanze in grado di attivare i recettori. [4] Uso terapeutico della cannabis. Il rapporto della Camera dei Lord – www.cgil.it/org.diritti/fuoriluogo/Rapporto.htm[5] Idem [6] Inserto Salute di Repubblica del 16 maggio 2002 [7] Uso terapeutico della cannabis. Il rapporto della Camera dei Lord [8] Sito ufficiale MARINOL® www.marinol.com 
[9] Uso terapeutico della cannabis. Il rapporto della Camera dei Lord [10] Idem [11] Inserto Salute di Repubblica del 16 maggio 2002 
[12] Trasmissione Report del 18 febbraio 2002 [13] Uso terapeutico della cannabis. Il rapporto della Camera dei Lord [14] Idem [15] Tratto dal sito www.dica33.it

martedì 21 novembre 2017

Mauro Biglino 2017 - Ecco come e da dove vengono!

I numeri dell'invasione islamica

Prove generali di un'Italia islamizzata

Video Denuncia: La Donna per l'Islam Fondamentalista

Perchè le Donne Musulmane indossano il Velo?

 Questa tipa sta dicendo un mucchio di cazzate; inoltre dimostra che neanche lei come tutti i musulmani, ignorano il vero motivo di coprirsi i capelli, eppure i cosiddetti libri sacri lo dicono.

2050: La fine dell'Europa

la rivolta delle donne milanesi contro l'invasione in Stazione centrale:...

Invasione islamica: il futuro che non vogliamo

venerdì 17 novembre 2017

Oltre il 50% degli alunni: figli di immigrati.

Oltre il 50% degli alunni: figli di immigrati. L’Italianistan è cosa fatta


Scuola1di BRUNO DETASSIS
Dire che la scuola sia diventata multietnica è un eufemismo. Il 50% degli alunni è composto da figli di immigrati. E’ il segnale di una società non solo che cambia ma che è già radicalmente cambiata. Secondo i dati forniti dal Report statistico diffuso dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, nel precedente anno scolastico 2013-2014, nelle scuole di ogni ordine e grado si erano registrati 802.785 alunni figli di migranti, 16.155 in più rispetto al 2012/2013. Di questi 167.591 hanno frequentato la scuola dell`infanzia, 283.233 la primaria, 169.780 la secondaria di I grado, 182.181 quella di II grado.
Se il 50% degli studenti parla straniero a casa e i numeri in tendenza sono destinati a crescere anno dopo anno, si pone una domanda: ma a questi ragazzi, e alle loro famiglie, che interessa il tema dell’indipendenza, dell’autodeterminazione? Fino ad oggi lo Stato ha erogato servizi che hanno garantito nella fruizione dei servizi le categorie economicamente più svantaggiate, e che hanno premiato il peso demografico familiare. Si vede.
Gli alunni con cittadinanza non italiana sono il 9% del totale. Ma è soprattutto la quota di quelli nati in Italia ad essere in forte crescita. Nel 2013/2014, si legge nel report, gli alunni stranieri nel loro complesso sono cresciuti del 2,1% rispetto all’anno precedente, i nati in Italia hanno avuto un incremento dell`11,8%. Ma il dato di fatto è che gli alunni con cittadinanza non italiana nati nel nostro Paese rappresentano ormai il 51,7% del totale degli alunni figli di migranti. E sono aumentati quest`anno anche gli alunni entrati per la prima volta nel sistema scolastico italiano: sono il 4,9% del totale degli alunni con cittadinanza non italiana rispetto al 3,7% dell`anno precedente e al 4,8% di due anni fa.
Da dove arrivano? Ecco la classifica: ai primi posti, Romania, Albania, Marocco, Cina, Filippine, Moldavia, India, Ucraina e Perù.
E dove sono, più di tutti? In Lombardia, con 197.102 presenze; in Emilia Romagna invece gli studenti con cittadinanza non italiana sono il 15,3% del totale. A ruota, ancora, Lombardia e Umbria con il 14%.
E dove sono più concentrati? Hinterland milanese: Pioltello, con oltre il 30%. I comuni di Campi Bisenzio, Cologno Monzese, Arzignano e Prato vanno oltre il 22%. Il 10% degli studenti con cittadinanza non italiana frequenta una scuola non statale contro il 13,3% degli alunni italiani.
Altre cifre inteerssanti dal report del ministero: Alle superiori i percorsi scolastici più opzionati sono quelli professionali e tecnici. Gli alunni figli di migranti che sono nati in Italia scelgono un indirizzo professionale nel 29,2% dei casi, quelli nati all’estero nel 39,5%. La scelta dell’istruzione tecnica riguarda il 41,1% degli alunni figli di migranti nati in Italia e il 38,1% per i nati all’estero. Le ragazze preferiscono gli indirizzi liceali, con in testa l’ex Istituto magistrale. A seguire Liceo Linguistico e Liceo Classico.
Ma, detto questo, la politica si è posta la questione dell’integrazione, dell’impatto sul futuro del Paese? O la scuola, specialmente nell’area del centrodestra, è un capitolo che mai merita attenzione?
Ci si preoccupa di creare percorsi politici verso l’indipendenza delle regioni del Nord, con tempi che non saranno affatto brevi. I futuri stranieri diciottenni, che rappresentano il futuro della prossima classe dirigente, che ne sanno e che ne pensano di uno Stato diverso da quello che li ha accolti?
Non solo siamo un Paese per vecchi, ma siamo soprattutto un Paese che non è più se stesso. L’Italianistan è cosa fatta.

Le imprese italiane che delocalizzano all’estero?

Le imprese italiane che delocalizzano all’estero? Solo delle approfittatrici che portano fuori il know-how  per guadagnare di più e se ne sbattono di tutto il resto. Questo più o meno è il giudizio liquidatorio che molti danno del fenomeno, soprattutto se sono sostenitori del sistema centralistico romano. In realtà è proprio e nessun altro che lo Stato italico a incentivare tale fuga. Sì, avete capito bene. E, manco a dirlo, è colpa dell’assurdo fisco tricolore.
Basta leggere cosa scrive il prof. Dario Fruscio, ex senatore leghista che da qualche tempo ha lasciato definitivamente il Carroccio, sul sito “Coltiviamo il futuro” (www.italiaspa.org), edito dalla Fondazione messa in piedi dall’ex presidente della Coldiretti Sergio Marini:
“… un’impresa con sede in Italia e produzione all’estero dei propri beni è soggetta ad una pressione fiscale pari al 30% del suo reddito imponibile; altra analoga impresa nazionale con propria produzione in loco sconta un carico fiscale pari a circa l’80% del suo reddito imponibile. Fattore di forte propulsione di tale fenomeno è sicuramente da scorgere nell’area della complessa articolazione del sistema fiscale italiano. Nell’Irap, molto preponderatamente. Così stante le cose, parlare di fuga delle aziende industriali dall’Italia pare limitativo e tutt’altro che veritiero.
Più esaustivamente e più credibilmente varrebbe considerare che il fenomeno di cui trattasi, è sì di fuga, ma di una fuga indotta e alimentata da un’altra più grave e terrificante fuga: quella della politica di rimuovere il fattore incentivante delle delocalizzazioni produttive. Vale a dire, di togliere di mezzo l’Irap recuperando integralmente il relativo venir meno del gettito fiscale mediante opportuni e semplici arbitraggi sull’IRES…”.
In sostanza l’autore, con linguaggio diplomatico e professorale che gli appartiene, dice: la fuga delle aziende è incentivata dallo Stato che, grazie soprattutto all’Irap, arriva a tassare l’imponibile fin quasi all’80%, mentre per le imprese che mantengono la sede legale e il domicilio fiscale in Italia, questa tassazione scende intorno al 30%. Quindi ogni discorso sul rilancio dell’economia sono pure balle se non si toglie di mezzo l’odiata Irap, che tassa i mezzi di produzione, cioè quindi agisce a priori di qualsiasi risultato economico ottenga l’azienda. Mentre la logica sarebbe che la tassazione si spostasse sull’imponibile. Ma siamo in Italia… e allora meglio e più facile rapinare le aziende con l’Irap. E farle crepare…
di Gianmarco Lucchi

giovedì 16 novembre 2017

ICE 2020 (Catastrofico) - I Migliori Film Completi [ITA]

DELOCALIZZAZIONE PRODUTTIVA ALL’ ESTERO TRA INCENTIVI

MAURO GIUSTI L’ ESPERIENZA ITALIANA DI DELOCALIZZAZIONE PRODUTTIVA ALL’ ESTERO TRA INCENTIVI E DISSUASIONI Se per delocalizzazione di un’impresa all’estero si intende lo spostamento in altri paesi di processi produttivi o di fasi di lavorazione, al fine di guadagnare competitività, l’esperienza delle imprese italiane di spostare in altri Stati le proprie attività produttive di merci ha origini lontane: rammento trenta e più anni fa la costruzione di stabilimenti della FIAT in Polonia e ancor prima nell’ex Unione Sovietica (Togliattigrad), nei quali venivano costruiti modelli di automobili usciti dalla produzione interna (la 124, la 600, ecc.). Ancor oggi la Piaggio costruisce i motoscooter Vespa ed altri in India. Del resto, in Italia, dagli anni ’50 si era conosciuta una considerevole delocalizzazione interna, dal Nord al Sud, con scarsi risultati perfino nel settore delle imprese pubbliche (all’epoca il 40 per cento dell’ economia), obbligate per legge a concentrare a sud di Roma il 60 per cento dei nuovi investimenti ed il 40 per cento degli investimenti complessivi. Gli esempi citati riguardano essenzialmente imprese di grandi dimensioni: ma la realtà economica italiana è assai diversa. Il 97,80 per cento delle imprese manifatturiere ha meno di 50 addetti; di queste l’82,90 per cento ne ha addirittura meno di 10 ( è la dimensione media più bassa d’Europa, ma non ha valenza necessariamente negativa; Ferrari e Ducati sono imprese medio-piccole, eppure sono campioni del mondo: parva sed pulchra!). Per questo diffuso tipo di microimprese, il processo di globalizzazione ha avuto rilievo essenzialmente come internazionalizzazione dei propri prodotti – spesso di nicchia – alla quale da tempo lo Stato aveva posto attenzione sia con strutture (l’Istituto per il Commercio con l’Estero, ICE) sia con strumenti (ad esempio le garanzie statali per i crediti all’esportazione fornite dalla società pubblica SACE). L’economia classica collocava la produzione vicino alle materie prime ovvero vicino al mercato del consumo: niente di più falso oggi, se si pensa – ad esempio – al fatturato dell’arte orafa fine in Italia (la metà della produzione mondiale), dove non si estrae un grammo d’oro e dove la domanda proviene per oltre la metà dai paesi ricchi del Medio Oriente. 2 MAURO GIUSTI L’ubicazione dei complessi produttivi segue al giorno d’oggi altri impulsi: l’efficienza della logistica e dei trasporti; il peso fiscale; la quiete sindacale; soprattutto, il costo del lavoro. Le delocalizzazioni delle imprese italiane (grandi, medie e in qualche caso medio-piccole, queste talvolta raggruppate in consorzi o in distretti produttivi a tassazione solidale) sono state prevalentemente del tipo low cost seeking, fondato sulla ricerca della riduzione del costo della manodopera e si sono addensate statisticamente in settori produttivi a non alto valore aggiunto, con una forte presenza nelle filiere dell’abbigliamento di qualità (tessili e calzature). Oltre alla grande industria, quasi trent’anni fa ha iniziato a delocalizzare la piccola e media industria della Toscana (pellami, calzature, stoffe di medio livello); quindici anni dopo, ma più massicciamente, la media industria del Veneto (Venezia), che aveva già esperienze in loco di internazionalizzazione della produzione, col ricorso alla abbondante manodopera frontaliera della attuale Slovenia, con essa confinante. Il bisogno era sempre quello di comprimere i costi, grazie allo spostamento all’estero della parte più manuale ed elementare delle fasi produttive. Tenendo in disparte la quiete dei sindacati dei lavoratori (i rinnovi biennali dei contratti collettivi provocano scioperi che neanche il governo di centrosinistra riesce a scongiurare), quanto al primo motivo di delocalizzazione, quello dato dal peso delle imposte sulle imprese (che non costituisce l’oggetto dell’odierna tavola rotonda), non posso non riferirmi al continuo aumento della pressione fiscale complessiva sulle persone giuridiche, giunta al livello medio del 36,57 per cento (8 punti percentuali più della Germania; 12 in più della Francia; 22 in più della Slovenia; 40 in più della Tunisia), dovuto in parte ad una perversa applicazione dell’Imposta Regionale sulle Attività Produttive anche sul costo del lavoro (che è indeducibile dalla base imponibile), con effetti disastrosi sulle aziende labour intensive. Oggi il carico dovrebbe alleggerirsi per le imprese in media di quasi 5 punti percentuali, per l’effetto delle riduzioni denominate “cuneo fiscale”, introdotte con la Legge finanziaria per 2007. Ma il gap resta sensibile, specie con i paesi aventi flat tax. La ricerca dal minor costo del lavoro tout court è invece spinta non da alti livelli salariali dei lavoratori italiani, ma dal costo complessivo del lavoro, gravato a carico dell’impresa quasi di un altro 50 per cento per i contributi parafiscali, il cui importo garantisce l’alto livello del welfare in Italia (assistenza medica, farmaceutica e ospedaliera gratuita per tutti; assicurazione pubblica per gli infortuni sul lavoro; pensioni a 60 anni finora all’80 per cento dell’ultimo stipendio, concesse insieme ad un’indennità di fine rapporto pari ad un mese di salario per ogni anno lavorato; 30 giorni lavorativi di ferie all’anno). L’ ESPERIENZA ITALIANA DI DELOCALIZZAZIONE PRODUTTIVA ALL’ ESTERO TRA INCENTIVI E DISSUASIONI 3 Sono queste le principali ragioni che hanno determinato lo spostamento delle fasi lavorative ad alta concentrazione di manodopera verso paesi con abbondanza di lavoratori non specializzati a basso costo (il costo orario di un lavoratore è in Italia di 19 Euro, in Romania di 1,50 Euro), iniziando da paesi non eccessivamente distanti dalla “casa madre” e verso i quali c’era già una delocalizzazione puramente commerciale in espansione. Esemplifichiamo: la Toscana, che è la più grande delle regioni peninsulari, ha trasferito la sua produzione calzaturiera di medio livello (quella di èlite è rimasta, così come nella Regione Marche: Tod’s; Hogan, ecc.) in Tunisia ed in Marocco, parzialmente per i prodotti migliori di quella fascia, totalmente per quelli scadenti (i sandali estivi per il mercato tedesco); il Veneto invece ha prescelto la Romania (prima dell’UE) ed in particolare la provincia occidentale di Timisoara (dove esisteva un’antica tradizione tessile) per decentrare il proprio “Sistema Moda” sia dell’abbigliamento (Benetton; Stefanel; Marzotto; Diesel, ecc.) sia delle calzature di ogni tipo (compresi gli scarponi da sci): su 800.000 lavoratori rumeni occupati nelle 15.000 imprese italiane in Romania, 150.000 operano in quel distretto industriale, di cui 1.500 nel solo stabilimento della Geox. Ma sono presenti anche AGIP, IVECO, Zoppas. Il modello ricalca quello statunitense degli anni ’60 - ’70 nei paesi meridionali del NAFTA, con l’intero processo produttivo delegato all’estero, mantenendo in patria l’ideazione e la progettazione del prodotto, nonché il design, la finitura e il controllo finale di qualità, per evitare perdite di immagine della marca. Prima di esprimere un giudizio su questo imponente fenomeno (adesso in rallentamento, alla ricerca nel medio periodo di locations più lontane e più convenienti nell’Estremo Oriente e nel Sud Est asiatico), occorre delineare le formule giuridiche usate per realizzarlo. Si va dalla semplice importazione di prodotti finiti realizzati all’estero su licenza ad un vero outsourcing realizzato ricorrendo a subfornitori stranieri; si hanno forme di partenariato, sia con reali partnership sia col franchising; rare sono le joint ventures e anche l’offshoring, ottenuto con l’acquisizione ex novo di imprese mediante investimenti durevoli all’estero (IDE) Ma il 90 per cento delle delocalizzazioni delle piccole e medie imprese è avvenuto con il sistema del TPF (Traffico di Perfezionamento Passivo), consistente nell’esportazione di materie prime o semilavorate (le tomaie e le suole delle scarpe, da assemblare), con garanzia di riacquisto e quindi di reimportazione del prodotto se la lavorazione è stata perfettamente eseguita. Da qui la seconda osservazione tributaria del nostro discorso: questo tipo di traffici presuppone la neutralità doganale, con azzeramento dei dazi (assoluto 4 MAURO GIUSTI per tessili, pellami, calzature), come si è verificato con i paesi del Trattato del Magreb e con quelli dell’Europa Orientale, ancor prima che divenissero membri dell’Unione europea. Della delocalizzazione della produzione si è interessata la legislazione italiana fin dal 1990, con la L. 100 (modificata nel 1998 e nel 2000) che ha istituito la Società Italiana per le imprese Miste all’Estero (SIMEST), a capitale azionario prevalentemente pubblico (76 per cento), per promuovere e garantire gli investimenti durevoli all’estero e anche partecipare al capitale (fino al 25 per cento per un massimo di 8 anni) di società produttrici costituite all’estero da soggetti italiani, sostenute anche con finanziamenti pubblici per le attività delocalizzate. Questa società finanziaria di partecipazioni gestisce dal 1999 quasi tutti gli aiuti per le imprese italiane all’estero, specie nei paesi extra UE, potendo elevare la sua temporanea partecipazione diretta in alcune imprese fino al 50 per cento se si tratta di costituire dei veri e propri “parchi industriali”, nei quali siano accolti in forma organizzata gli investimenti all’estero di capitali italiani. Prolungando gli effetti della legge Ossola del 1977, la società SIMEST agevola anche la semplice penetrazione commerciale (che spesso precede la delocalizzazione) mediante crediti all’esportazione e favorisce la partecipazione a gare internazionali per l’aggiudicazione di commesse, oltrechè ad agire per il sostegno del made in Italy. Con la legge 57/2001 è stata ulteriormente promossa la partecipazione in società miste costituite all’estero, incrementando gli incentivi per l’internazionalizzazione delle imprese, questa volta soprattutto medie e piccole (art. 21). Infine, due più recenti leggi, la 56/05 e la 80/05, hanno incrementato la concessione di aiuti per la delocalizzazione fuori dalla UE, la prima delle due concentrandosi in paesi selettivamente individuati come prioritari dal Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (che opera adesso presso la Presidenza del Consiglio), con ausili erogati secondo studi di fattibilità e prolungati qualora la provvista dei mezzi sia assicurata dalla Banca Europea per gli Investimenti (BEI) o dalla Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERS); è stata anche data una delega al governo per riordinare gli enti operanti per la promozione degli interessi italiani all’ estero (4 ministeri e vari enti pubblici), unificando i fondi disponibili (comma 932 della Legge finanziaria 2007). Questa prima legge ha anche istituito un numero imprecisato di “Sportelli unici” nei paesi di maggior interesse commerciale ed imprenditoriale per l’Italia, cioè degli uffici pubblici polivalenti per garantire ed ampliare il sostegno alle imprese italiane operanti in quei luoghi mediante consulenze ed orienta- L’ ESPERIENZA ITALIANA DI DELOCALIZZAZIONE PRODUTTIVA ALL’ ESTERO TRA INCENTIVI E DISSUASIONI 5 menti di parte pubblica, anche sotto forma di tutela legale delle imprese e dei loro diritti di proprietà industriale ed intellettuale. Uno dei fini principali della legge (art. 5) consiste nella creazione in loco di strutture permanenti di specifico supporto alle produzioni italiane “di qualità”, le uniche la cui collocazione sui mercati non risente del rafforzamento dell’euro. Sorprendentemente, la seconda delle leggi del 2005 citate, la n. 80, immediatamente successiva, prevede anche clausole di salvaguardia alla delocalizzazione d’impresa, stabilendo che tutti i benefici fin qui descritti (che permangono) non si applicano a quelle imprese che, investendo all’estero, non mantengano sul territorio nazionale la direzione commerciale e le attività di ricerca e di sviluppo, “nonché una parte sostanziale delle attività produttive”. Dispone inoltre la L 80/0580 che le imprese italiane che abbiano investito all’estero e abbiano l’intenzione di reinvestire in Italia, godranno delle stesse agevolazioni e degli incentivi che le leggi riservano alle imprese straniere che investano o delocalizzino in Italia. Siamo in presenza della previsione di una vera e propria contro-delocalizzazione, provocata dai primi sintomi di crisi dell’ occupazione qualificata derivante dall’esodo delle aziende ed attuata con una norma restrittiva tesa ad arginare la fuga delle unità produttive ed a premiarne il rientro, usando di veri e propri disincentivi. Questa evoluzione normativa non è così contraddittoria come sembra: più semplicemente mette in risalto le due facce della delocalizzazione, che è virtuosa quando liberamente sostituisce una produzione nazionale con una produzione straniera, mentre è dannosa se provoca contraccolpi all’occupazione, soprattutto a quella qualificata, cosa che avviene quando dal trasferimento di parte degli stabilimenti si passa ad una “rilocalizzazione” nello stato estero dell’intera catena produttiva, per la convenienza di riposizionare l’intera azienda in un contesto di fattori competitivi analogo a quello interno di venti o trenta anni fa. Ciò è avvenuto nei casi nei quali la “casa madre” resta simbolicamente in Italia col suo marchio, ma il processo produttivo si è spostato per l’80 per cento all’estero, coinvolgendo nell’esodo il marketing strategico e parte del lavoro progettuale, che è iniziato a diminuire in modo rilevabile (il 2 per cento in meno). Se da un lato la delocalizzazione d’impresa è sembrata ridurre i flussi di immigrazione (ma l’effetto è dubbio quanto agli immigrati che non lavorano), dall’altro incrementa le importazioni (dei beni finiti) e deprime il Prodotto Interno Lordo complessivo, cui vengono sottratti i salari esteri ed in gran parte i profitti esteri, che colà rimangono. Da qui la tentazione di un protezionismo di ritorno o di un neo-protezionismo per fronteggiare l’eccessiva fuga delle imprese: un espediente vincolativo da parte della politica, che non capisce il multi- 6 MAURO GIUSTI forme fenomeno ma percepisce il disagio che esso provoca nell’elettorato (in Francia il tema è stato oggetto della “campagna” presidenziale). Nella particolare esperienza italiana, è assai difficile tracciare un confine netto tra delocalizzazione virtuosa e delocalizzazione viziosa, per giustificare misure pubbliche tese a sventare l’impoverimento del tessuto economico nazionale. Per quanto concerne il rilevante Sistema del Made in Italy, nei settori dell’abbigliamento ed accessori (si pensi alla Luxottica che è il massimo gruppo mondiale per gli occhiali da sole) e dell’arredo casa (mobili, cucine, divani, oggettistica ornamentale, piastrelle di ceramica, ecc.), la delocalizzazione ha dapprima concesso alle aziende più dinamiche un vantaggio competitivo considerevole, subito dopo ridotto parzialmente dall’avere reso più semplici (anche con la troppo facile vendita delle medesime macchine utensili a chiunque) le falsificazioni di tali prodotti di qualità, sia nelle forme dell’imitazione grossolana sia in quelle delle raffinate copie fraudolente, ambedue assai lesive di questo settore trainante dell’economia, che esporta ancora benissimo, nonostante l’aumento dell’euro, a causa di una domanda consolidata, e cresce se non nel numero dei beni sicuramente nel loro valore, grazie ai moltissimi nuovi ricchi del mondo ed alle tantissime fashion victims. Il poco tecnologico sistema produttivo italiano, dopo anni di arresto, ha ripreso a collocare sui mercati mondiali questi prodotti di pregio a media tecnologia (con qualche punta nell’alta tecnologia), maturando la valutazione dei paesi emergenti non solo come piattaforme produttive (e centrali di contraffazione), ma anche come mercati di sbocco per i beni finali prodotti in Italia o all’estero. Dalla delocalizzazione “stracciona” si è giunti così ad una produzione decentrata market seeking. L’apparato produttivo del paese ha cioè finalmente compreso il vantaggio di operare con filiere produttive decentrate all’estero, che agiscano in nicchie di qualità sempre più numerose: una delocalizzazione offensiva (che comprende la penetrazione sul mercato locale perché in espansione) accanto a quella difensiva (il minor costo per sopravvivere). Il terzo ed ultimo riferimento tributario riguarda il trattamento fiscale dei profitti da delocalizzazione. Premesso che le fabbriche delle società locali sono giuridicamente indipendenti dalla casa madre, gli utili distribuiti restano prevalentemente nel paese straniero, che li assoggetta alla sua fiscalità (minore) e non rilevano per la casa madre italiana. Qualora rifluiscano in società italiane subiscono un trattamento fiscale del tutto equivalente a quello dei redditi delle società di fonte interna (legge delega 80/2003 e decreto legislativo 344/2003, modificato dal decreto legislativo 247/2005). Solo se il percettore fosse un socio imprenditore persona fisica, la tassazione avverrebbe sul 40 per cento dell’utile, al massimo con un acconto L’ ESPERIENZA ITALIANA DI DELOCALIZZAZIONE PRODUTTIVA ALL’ ESTERO TRA INCENTIVI E DISSUASIONI 7 del 12,50 per cento sul dividendo defalcato dell’imposta straniera (cosiddetto “netto frontiera”). Se la somma è negativa, si configura un credito fiscale. La materia è regolata anche (ad es. con la Slovacchia) da singoli Accordi reciproci contro la doppia imposizione: ma il grosso degli utili resta imputato al soggetto estero del gruppo e all’estero rimane, se non è allettato a rientrare da condoni sulla materia valutaria (il riuscito “scudo fiscale” dello scorso governo, che ha tassato al 2,50 il rientro dei capitali). In sintesi, l’aliquota di questa imposta sulle società è al 33 per cento (ma non è la sola: vi si aggiunge quella sulle attività produttive) ed esistono molti casi particolari (per esempio si può configurare un consolidato mondiale del gruppo), i quali non rendono tuttavia più conveniente la tassazione degli utili da delocalizzazione, che in sede fiscale non sono favoriti. Non essendo un sociologo, nulla posso dire sulle conseguenze sociali della delocalizzazione delle imprese all’estero: tuttavia mi accorgo dello sfruttamento della manodopera malpagata e maltrattata e mi accorgo anche dell’esportazione dell’inquinamento da produzione, che ha raggiunto livelli terrificanti nei paesi emergenti. Poiché la possibilità di questi abusi non durerà all’infinito, la delocalizzazione d’impresa dovrà elevarsi a livello di sistema, di visione macroeconomica strategica: la scelta di sola convenienza aziendale, a livello microeconomico, la delocalizzazione cosiddetta imitativa (del vicino) non avranno vita lunga. Si guarderà ancora al vantaggio del minor costo ma accanto a quello delle maggiori vendite, ampliando il parco dell’offerta: gli Stati Uniti non hanno rivali nella redditizia delocalizzazione dei servizi, specie nella logistica, dove l’Europa è assente. Nella globalizzazione avrà successo la specializzazione, se azzeccata e duratura e quindi guidata dalla politica economica e non soltanto dalle singole scelte aziendali.

venerdì 10 novembre 2017

I danni fatti dal PD contro gli Italiani

Da circa tre anni, tre anni e mezzo, i signori della sinistra, evidentemente pensando che gli italiani siano tutti minus habens, ovvero coglioni, vanno ripetendo, un giorno sì e l’altro pure, nelle interviste ai giornali o nei talk-show televisivi, la seguente filastrocca: Berlusconi ha governato per vent’anni il Paese; e se esso è ridotto male, se è in ginocchio, se cresce poco e perde costantemente competitività, la colpa è solo sua.
Ecco, in un paese normale, nessun politico s’azzarderebbe a dire bubbole di tal fatta: apparirebbe spregiudicato, immorale e del tutto inaffidabile. In Italia, invece, dove gli elettori sono di bocca buona, di memoria corta e soliti parteggiare per gli o per gli altri in modo del tutto acritico, esattamente come fanno con la propria squadra del cuore ogni sacrosanta domenica, ciò è possibile. E, siccome lo è, diventa necessario fare ciò che altrove sarebbe del tutto superfluo: occuparsi di tale vicenda, innanzitutto, sbugiardare lor signori, poi, e ricordare quali e quanti danni, infine, essi abbiano arrecato al Paese.
Gli anni di governo del centrodestra e del centrosinistra
Il primo governo Berlusconi è stato in carica dal 10 maggio 1994 al 17 gennaio 1995: 8 mesi. Il secondo governo Berlusconi, dall’11 giugno 2001 al 23 aprile 2005: 3 anni e 10 mesi. Il terzo, dal 23 aprile 2005 al 17 maggio 2006: un anno ed un mese. Il quarto, ovvero l’ultimo, dal 7 maggio 2008 al 16 novembre 2011: 2 anni e 6 mesi. Totale8 anni ed un mese. Negli ultimi venti anni.
Il primo governo di centrosinistra della cosiddetta Seconda Repubblica fu quello presieduto da Lamberto Dini: appoggiato dal Pds, da Rifondazione comunista e dal Ppi, è stato in carica dal 17 gennaio 1995 al 17 maggio 1996. Ovvero: 1 anno e 4 mesi. Il primo governo Prodi è stato in carica dal 18 maggio 1996 al 21 ottobre 1998: 2 anni e 5 mesi. Il primo governo D’Alema, dal 21 ottobre 1998 al 22 dicembre 1999: un anno e 2 mesi. Il secondo governo D’Alema, dal 22 dicembre 1999 al 25 aprile 2000: 4 mesi. Il governo Amato (II), dal 25 aprile 2000 all’11 giugno 2001: un anno ed un mese. Il secondo ed ultimo governo Prodi, invece, è stato in carica dal 17 maggio 2006 al 7 maggio 2008: 2 anni. Totale8 anni e 4 mesi.
Il centrodestra, dunque, negli ultimi vent’anni, ha governato 8 anni ed un mese. Il centrosinistra, invece, se si tiene conto anche del governo Dini, 8 anni e 4 mesi; se si esclude quest’ultimo, e non v’è ragione di farlo, 7 anni esatti.
Domanda. Visto che il centrosinistra ha governato più del centrodestra, com’è possibile che i signori del Pd abbiano l’ardire di affermare l’esatto contrario? Quale forma di rispetto mostrano nei riguardi degli italiani, a partire da chi li vota?
A voi la risposta.
Leggi ad personam varate dal centrosinistra
Una delle innumerevoli storielle che i signori della sinistra vanno raccontando, è la seguente: Berlusconi è stato l’unico politico della storia repubblicana ad essersi cucito addosso leggi ad personam; prima che arrivasse lui al potere, infatti, mai ne era stata varata una. Una sesquipedale balla.
Per ragioni di brevità, qui si ometterà di riportare tutte (ovvero: dalla prima all’ultima) le leggi ad personam di cui ha fruito l’autoproclamatosi “tessera numero 1 del Partito democratico”, l’ingegner Carlo De Benetti (editore de La Repubblica e de L’Espresso); il cui fratello è stato finanche senatore dei Ds. Basterà citarne solo tre: il tentativo di svendita (a suo favore) della SME da parte di Romano Prodi (all’epoca, Presidente demitiano dell’IRI); la legge Visentini sui registratori di cassa; la svendita delle frequenze della telefonia mobile grazie alla quale, l’Ingegnere, ebbe a creare l’Omnitel facendo uno dei migliori affari della propria vita.
Veniamo alla “ciccia”. La prima legge ad personam di cui si è giovata, in tempi relativamente recenti, la sinistra, è stata l’amnistia del 1990 (all’epoca varata dal Presidente della Repubblica in quanto rientrava ancora tra le potestà di quest’ultimo). Senza di essa, buona parte della classe dirigente dell’ex Pci, a cominciare da Massimo D’Alema, sarebbe finita irrimediabilmente in galera, causa finanziamenti illeciti (nazionali ed esteri) percepiti in nome e per conto del partito. È un fatto noto a chiunque abbia una certa età. Ma del tutto sconosciuto alla stragrande maggioranza, se non alla totalità, delle persone che abbiano un’età ricompresa tra i 20 e i 30 anni.
Passiamo oltre.
La storiella secondo cui Berlusconi sarebbe l’unico ad essersi fatto leggi su misura, diventa ancora più grottesca se si tiene conto di un fatto: nella cosiddetta Seconda Repubblica, il primo ad aver preteso il varo di una legge ad personam, per sfuggire a qualche grana giudiziaria, non fu il Cavaliere, ma Romano Prodi, nel 1997. A raccontarlo, una persona non certo sospettabile d’essere berlusconiana, l’ex magistrato e parlamentare del Pci e poi del Pds, Ferdinando Imposimato:
«Il PM Geremia, con l’avallo del Procuratore Coiro, chiese il rinvio a giudizio per abuso di ufficio dell’ex Presidente del Giudizio Romano Prodi, quale ex Presidente dell’IRI (…). Nel frattempo il governo presieduto da Prodi approvò, con l’appoggio del Ministro della Giustizia suo difensore (Giovanni Maria Flick, ndr), una nuova legge che modificava in senso restrittivo l’abuso in atti di ufficio; ed il Presidente Prodi venne assolto perché il fatto non sussiste; ma la legge era ad personam(…)».
Questa fu la prima legge ad personam varata nella Seconda Repubblica. La prima. Evidentemente destinata, lo dice il sinistro Imposimato, a parare le terga a Prodi.
L’ultima, invece, è stata approvata giusto qualche mese fa, quando al governo c’era Mario Monti, e aveva la funzione di tutelare un mammasantissima del Partito democratico: Filippo Penati. Con essa gli sono stati cancellati, dalla sera alla mattina, 3 dei 7 capi d’imputazione gravantigli sul capo. Un cadeux di cui, a sinistra, nessuno s’è scandalizzato.
Dunque, se è fuor di dubbio che Berlusconi abbia fatto ricorso ad innumerevoli leggine ad personame più di chiunque altro, è altrettanto indubbio che non sia stato il solo; e che la sinistra abbia sempre fatto altrettanto per avvantaggiare sé e i propri amici.
Attendiamo, ovviamente invano, che se ne scusi; o, quantomeno, che eviti di impartire lezioni di morale ad altri non avendone i titoli.
Vent’anni di tasse e di sfracelli economici
Diciamo subito che, negli 8 anni e 4 mesi in cui ha governato il Paese, la sinistra ha fatto pochissime cose buone; essenzialmente due: 1) ha garantito, rispetto al centrodestra, una migliore tenuta dei conti pubblici; 2) ha liberalizzato qualche comparto economico. Punto e basta.
Il resto è stato solo: tasse, tasse e tasse. Non a caso, gli elettori non hanno mai voluto ch’essa governasse per due legislature di fila (come non l’hanno voluto per il centrodestra).
Ora, siccome è impossibile ricostruire vent’anni di sfracelli economici (e non) fatti da lor signori, richiederebbe molto tempo e spazio, per ragioni di brevità ci si limiterà a considerare quelli principali.
1) La peggiore imposta esistente in Italia, per giudizio unanime, è l’Irap: essa fu voluta ed introdotta da Romano Prodi nel 1997. Nulla è riuscito a danneggiare il sistema imprenditoriale italiano quanto questo balzello. Per il quale, nessuno, a sinistra, ha mai chiesto scusa.
2) Se la spesa pubblica, a livello regionale, al pari del debito, ad un certo punto è esplosa, lo si deve, per giudizio unanime, alla sciagurata riforma del Titolo V della Costituzione voluta dal centrosinistra. A parte Renzi, che ne ha preso le distanze (ma solo in parte), nessuno, a sinistra, se n’è mai scusato.
3) Fino a qualche anno fa, la stragrande maggioranza delle Regioni, delle Province e dei Comuni era saldamente nelle mani del centrosinistra. Va da sé, quindi, ch’essa sia la principale responsabile anche dello spaventoso incremento delle addizionali locali registratosi negli ultimi lustri: «negli ultimi vent’anni le imposte nazionali sono raddoppiate, e i tributi locali sono aumentati addirittura cinque volte. Letteralmente esplosi. Tanto che negli ultimi dodici anni le addizionali Irpef regionali e comunali sono cresciute del 573%, ed il loro peso sui redditi è triplicato, arrivando in alcuni casi oltre il 17%» (Mario Sensini, Corriere della Sera, 21 luglio 2013). Nessuno, a sinistra, se n’è mai scusato.
4) La sinistra, a parte incrementare esponenzialmente il prelievo sul ceto medio e medio-alto, provocandone la proletarizzazione (si pensi ai danni arrecati dalla riforma delle detrazioni e delle deduzioni e da quella delle aliquote varate con la Finanziaria 2007), non hai mai fatto alcunché di significativo per le classi meno abbienti e, come se non bastasse, ha ignorato del tutto la questione rappresentata dalla povertà assoluta. Al contrario, il che potrebbe sembrare assurdo, del centrodestra: che alla povertà assoluta ha pensato di dare qualche risposta con l’innalzamento ad un milione di lire (516 euro) delle pensioni minime; con la no tax area; e con la tanto vituperata (a sinistra) social card. Ora, se la sinistra non si preoccupa di emancipare le persone dall’indigenza assoluta, né fa qualcosa di rimarchevole per mettere in moto i cosiddetti “ascensori sociali” (a parte qualche modesta liberalizzazione), ma passa le giornate a litigare e a cercare solo il modo per impoverire i cosiddetti ricchi (comunicando, così, ai poveri: non farò mai alcunché perché anche voi possiate esserlo; diverreste, altrimenti, miei nemici), a cosa cacchio serve?
5) Negli ultimi vent’anni ha dimostrato di non aver mai reciso il legame con gli ambienti dell’eversione rossa e dell’antagonismo movimentista. Due esempi su tutti: la notevole quantità di ex Brigatisti Rossi cui si è peritata di trovare un posto di lavoro (inclusa la carceriera di Aldo Moro); il fatto di aver intestato un’aula del Senato, come primo atto della legislatura 2006-2008, a Carlo Giuliani. Atti vergognosi dai quali, a sinistra, nessuno, nemmeno Renzi, ha mai preso le distanza scusandosene.
6) L’Italia è allo stremo, prossima alla morte, per l’eccessivo peso fiscale, la ridondante presenza dello stato, la diffusa cultura keynesiana ed antiliberale che alberga a sinistra quanto a destra, e una crisi economica internazionale che ne ha accentuato i pluridecennali problemi. E, però, il Paese ha iniziato a mostrare segni di cedimento, ed è entrato in recessione tecnica, prima che accadesse ad altre nazioni anche per la politica economica, fiscalmente assassina, portata avanti dall’ultimo governo Prodi. A dirlo, i dati economici riguardanti il Pil del secondo trimestre 2008 e la disoccupazione in crescita nel primo trimestre di quello stesso anno. Roba interamente ascrivibile alle pessime politiche realizzate allora dal centrosinistra. A dirlo, poi, il professor Luca Ricolfi, notoriamente uomo di sinistra (06/03/2008):
«Il segnale più negativo è il rallentamento della crescita, iniziato nei primi mesi dell’anno anche «grazie» alla prima Finanziaria del governo Prodi, che fin dall’estate del 2006, con il Documento di Programmazione Economico-Finanziaria, aveva manifestato l’intenzione di correggere l’andamento dei conti pubblici pagando il prezzo di una riduzione del tasso di crescita del Pil (0,3 punti in meno, pari al 20% del tasso di crescita previsto).
Un brusco stop allo sviluppo
Tutto lascia pensare, però, che il prezzo che l’Italia ha dovuto pagare sia maggiore: la stima di 0,3 punti di Pil di contrazione della crescita è decisamente più bassa di quelle prodotte dai centri di ricerca non governativi, e comunque era basata su un mix di aumenti di imposta e riduzioni di spesa che poi è peggiorato nella versione finale della legge finanziaria (gli aggravi fiscali dovevano coprire un terzo della manovra, ma sono saliti a circa due terzi in corso d’opera). È probabile che quella scelta ci sia costata una decina di miliardi di euro, più o meno le risorse che ora si stanno freneticamente cercando per affrontare la «questione salariale» ed evitare lo sciopero generale minacciato dai sindacati. Al momento (inizio 2008) non si conosce ancora il tasso di crescita del Pil nel 2007 (mancano le stime del 4° trimestre), ma già sappiamo che la produzione industriale è in forte rallentamento, la produttività continua a ristagnare, le aspettative delle imprese per i prossimi mesi non sono buone.
Una massiccia pressione fiscale
Il secondo segnale negativo riguarda i mezzi che sono stati usati per ridurre il deficit. Certo siamo tutti felicissimi di essere finalmente rientrati nei parametri di Maastricht, ma la vera domanda è: qual è il prezzo che abbiamo pagato per raddrizzare la barca?
La risposta è sconsolante. Poiché non si è trovato il coraggio di ridurre la spesa pubblica, si è fatto ricorso alla comoda via degli aumenti della pressione fiscale (di 1,7 punti fra il 2005 e il 2006, di ulteriori 1,1 punti fra il 2006 e il 2007). Il miglioramento dei conti pubblici nel 2007 è stato ottenuto essenzialmente grazie a tre grandi operazioni: l’aumento dei contributi sociali, il conferimento forzoso del Tfr all’Inps, l’aumento selvaggio delle tasse locali. E questo massiccio aumento del prelievo fiscale – come da manuale – ha frenato la crescita e aggravato i bilanci delle famiglie (…).
Famiglie sempre più in difficoltà
Un’occhiata alla serie storica dell’indagine Isae sui bilanci familiari mostra che nel 2007 il numero di famiglie in gravi difficoltà economiche ha raggiunto il punto massimo da quando esiste l’indagine (ossia dal 1999). La necessità di ricorrere ai risparmi o far debiti per quadrare il bilancio era aumentata considerevolmente nei primi anni di introduzione dell’euro (specie fra il 2002 e il 2003), poi – nel corso del 2006 – era leggermente diminuita, ma nel 2007 è tornata di nuovo a salire e nella seconda metà dell’anno ha toccato il massimo storico».
Si potrebbe continuare con moltissimi altri esempi ma il post è già troppo lungo e in pochi arriverebbero a leggerlo fino in fondo. Dunque ci si ferma qui.
Il punto è che i nostri problemi, che ci trasciniamo dalla fondazione della Repubblica, e non dall’altro ieri, negli ultimi vent’anni si sono pesantemente aggravati: avremmo dovuto avere politiche economiche radicalmente liberali, che consentissero al Paese di reggere al meglio la sfida della competizione globale, e ne abbiamo invece avute di keynesiane e stataliste esattamente come ai tempi della Prima Repubblica.
La colpa è anche, o soprattutto, della sinistra. Se questa, però, si limita ad attribuirne la responsabilità al centrodestra, senza pronunciare plurimi mea culpa e come se negli ultimi vent’anni non avesse mai toccato palla, dimostra solo di essere inaffidabile ed impresentabile anche più della coalizione berlusconiana.

Il che è tutto dire.

Il PDL si è ricompattato : Verità e Democrazia: I danni arrecati all'Italia da Berlusconi

Verità e Democrazia: I danni arrecati all'Italia da Berlusconi: di Michele Berlusconi e i suoi sodali sono un male per l’Italia sostanzialmente per le seguenti tre principali ragioni: 1) Berlusconi d...

giovedì 9 novembre 2017

La prima causa dei tumori



Svolta TUMORE, il Nobel per la medicina: ”So di cosa si nutre, non mangiate mai questi cibi…”


La causa primaria del cancro è dovuta al cibo: mai mangiare alimenti acidificanti.
Nel 1931 lo scienziato tedesco Otto Heinrich Warburg ha ricevuto il Premio Nobel per la scoperta sulla causa primaria di cancro.
Proprio così. Ha trovato la causa primaria del cancro e ha vinto il Premio Nobel.
Otto ha scoperto che il cancro è il risultato di un potere anti-fisiologico e di uno stile di vita anti-fisiologico.
Perché? Poiché sia con uno stile anti-fisiologico nutrizionale (dieta basata su cibi acidificanti) e l’inattività fisica, il corpo crea un ambiente acido.
(Nel caso di inattività, per una cattiva ossigenazione delle cellule.)
L’acidosi cellulare causa l’espulsione dell’ossigeno
La mancanza di ossigeno nelle cellule crea un ambiente acido.
Egli ha detto: “La mancanza di ossigeno e l’acidità sono due facce della stessa medaglia:. Se una persona ha uno, ha anche l’altro”
Cioè, se una persona ha eccesso di acidità, quindi automaticamente avrà mancanza di ossigeno nel suo sistema.
Se manca l’ossigeno, avrete acidità nel vostro corpo.
Egli ha anche detto:
“Le sostanze acide respingono ossigeno, a differenza delle alcaline che attirano ossigeno.”
Cioè, un ambiente acido è un ambiente senza ossigeno.
Egli ha dichiarato:
“privando una cellula del 35% del suo ossigeno per 48 ore e’ possibile convertirla in un cancro”
“Tutte le cellule normali, hanno il bisogno assoluto di ossigeno, ma le cellule tumorali possono vivere senza ossigeno”. (Una regola senza eccezioni.)
“I tessuti tumorali sono acidi, mentre i tessuti sani sono alcalini.””
Nella sua opera “Il metabolismo dei tumori,” Otto ha mostrato che tutte le forme di cancro sono caratterizzate da due condizioni fondamentali: acidosi del sangue (acido) e ipossia (mancanza di ossigeno).
Ha scoperto che le cellule tumorali sono anaerobiche (non respirano ossigeno) e non possono sopravvivere in presenza di alti livelli di ossigeno.
Le cellule tumorali possono sopravvivere soltanto con glucosio e in un ambiente privo di ossigeno.
Pertanto, il cancro non è altro che un meccanismo di difesa che ha alcune cellule del corpo per sopravvivere in un ambiente acido e privo di ossigeno.
In sintesi:
Le cellule sane vivono in un ambiente ossigenato e alcalino che consente il normale funzionamento.
Le cellule tumorali vivono in un ambiente acido e carente di ossigeno.
Importante:
Una volta terminato il processo digestivo, gli alimenti, a secondo della qualità di proteine, carboidrati, grassi, vitamine e minerali, forniscono e generano una condizione di acidità o alcalinità
nel corpo. in altre parole ….. dipende unicamente da ciò che si mangia.
Il risultato acidificante o alcalinizzante viene misurato con una scala chiamata PH, i cui valori vanno da 0 a 14, al valore 7 corrisponde un pH neutro.”
E ‘importante sapere come gli alimenti acidi e alcalini influiscono sulla salute, poiché le cellule..per funzionare correttamente dovrebbe essere di un ph leggermente alcalino(poco di sopra al 7).
In una persona sana, il pH del sangue è compreso tra 7.4 e 7.45.
Se il pH del sangue di una persona inferiore 7, va in coma.
Gli alimenti che acidificano il corpo:
* Lo zucchero raffinato e tutti i suoi sottoprodotti. (E’ il peggiore di tutti: non ha proteine, senza grassi, senza vitamine o minerali, solo carboidrati raffinati che schiacciano il pancreas)
Il suo pH è di 2,1 (molto acido)
* Carne. (Tutte)
* Prodotti di origine animale (latte e formaggio, ricotta, yogurt, ecc)
* Il sale raffinato.
* Farina raffinata e tutti i suoi derivati. (Pasta, torte, biscotti, ecc)
* Pane. (La maggior parte contengono grassi saturi, margarina, sale, zucchero e conservanti)
* Margarina.
* Antibiotici * e medicine in generale.
* Caffeina. (Caffè, tè nero, cioccolato)
* Alcool.
* Tabacco. (Sigarette)
Antibiotici * e medicina in generale.
* Qualsiasi cibo cotto. (la cottura elimina l’ossigeno aumentando l’acidita’ dei cibi”)
* Tutti gli alimenti trasformati, in scatola, contenenti conservanti, coloranti, aromi, stabilizzanti, ecc.
Il sangue si ‘autoregola’ costantemente” per non cadere in acidosi metabolica garantire il buon funzionamento e ottimizzare il metabolismo cellulare.
Il corpo deve ottenere delle basi minerali alimentari per neutralizzare l’acidità del sangue nel metabolismo, ma tutti gli alimenti già citati
(Per lo più raffinati) acidificano il sangue e ammorbidiscono il corpo.
Dobbiamo tener conto che CON il moderno stile di vita, questi cibi vengono consumati almeno 3 volte al giorno”, 365 giorni l’anno e tutti questi alimenti sono anti-fisiologici.
Gli alimenti alcalinizzanti:
* Tutte le verdure crude. (Alcune sono acide al gusto, ma all’interno del corpo avviene una reazione è alcalinizzante.”. Altre sono un po acide, tuttavia, forniscono le basi necessarie per il corretto equilibrio)
Verdure crude producono ossigeno, quelle cotte no.
* I Frutti, stessa cosa. Ad esempio, il limone ha un pH di circa 2,2, tuttavia, all’interno del corpo ha un effetto altamente alcalino. (Probabilmente il più potente di tutti)
(non fatevi ingannare dal sapore acidulo)
* I frutti producono abbastanza ossigeno.
* Alcuni semi, come le mandorle sono fortemente alcalini.
* I cereali integrali:
L’unico cereale alcalinizzante è il miglio. Tutti gli altri sono leggermente acidi, tuttavia, siccome la dieta ideale ha bisogno di una percentuale di acidità, è bene consumarne qualcuno.
Tutti i cereali devono essere consumati cotti.
Il miele è altamente alcalinizzante.
* La clorofilla la pianta è fortemente alcalina.
(Da qualsiasi pianta) (in particolare aloe vera, aloe noto anche come)
* L’acqua è importante per la produzione di ossigeno.
“La disidratazione cronica è la tensione principale del corpo e la radice della maggior parte tutte le malattie degenerative.” Lo afferma il Dott. Feydoon Batmanghelidj.
* L’esercizio ossigena tutto il corpo.

“Uno stile di vita sedentario usura il corpo.”
L’ideale è avere una alimentazione di circa il 60% alcalina piuttosto che acida, e, naturalmente, evitare i prodotti maggiormente acidi, come le bibite, lo zucchero raffinato e gli edulcoranti.
Non abusare del sale o evitarlo il più possibile.
Per coloro che sono malati, l’ideale è che l’alimentazione sia di circa 80% alcalina, eliminando tutti i prodotti più nocivi.
Se si ha il cancro il consiglio è quello di alcalinizzare il piu’ possibile.”
Inutile dire altro, non è vero?
Dr. George W. Crile, di Cleveland, uno dei chirurghi più rispettati al mondo, dichiara apertamente:
“Tutte le morti chiamate naturali non sono altro che il punto terminale di un saturazione di acidità nel corpo.”
Come precedentemente accennato, è del tutto impossibile per il cancro di comparire in una persona che libera il corpo dagli acidi con una dieta alcalina, che aumenta il consumo di acqua pura e che eviti i cibi che producono acido.
In generale, il cancro non si contrae e nemmeno si eredita. Ciò che si eredita sono le abitudini alimentari, ambientali e lo stile di vita. Questo può produrre il cancro.
Mencken ha scritto:
“La lotta della vita è contro la ritenzione di acido”.
“Invecchiamento, mancanza di energia, stress, mal di testa, malattie cardiache, allergie, eczema, orticaria, asma, calcoli renali, arteriosclerosi, tra gli altri, non sono altro che l’accumulo di acidi”.
Dr. Theodore A. Baroody ha detto nel suo libro “Alcalinizzare o morire” (alcaline o Die):
». In realtà, non importa i nomi delle innumerevoli malattie Ciò che conta è che essi provengono tutti dalla stessa causa principale:. Molte scorie acide nel corpo”
Dr. Robert O. Young ha detto:
“L’eccesso di acidificazione nell’organismo è la causa di tutte le malattie degenerative. Se succede una perturbazione dell’equilibrio e un corpo inizia a produrre e
immagazzinare più acidità e rifiuti tossici di quelli che è in grado di eliminare allora le malattie si manifestano.”
E la chemioterapia?
La chemioterapia acidifica il corpo a tal punto che ricorre alle riserve alcaline del corpo immediatamente per neutralizzare l’acidità tale, sacrificando basi minerali (calcio, magnesio e potassio) depositati nelle ossa, denti, articolazioni, unghie e capelli.
Per questo motivo osserviamo tali alterazioni nelle persone che ricevono questo trattamento e tra le altre cose la caduta dei capelli.

Per il corpo non vuol dire nulla va senza capelli, ma un pH acido significherebbe la morte.
Niente di tutto questo è descritto o raccontato perché, per tutte le indicazioni, l’industria del cancro (leggi: industria farmaceutica) e la chemioterapia sono alcune delle attività più remunerative
che esistano..Si parla di un giro multi-milionario e i proprietari di queste industrie non vogliono che questo sia pubblicato.
Tutto indica che l’industria farmaceutica e l’industria alimentare sono un’unica entità e che ci sia una cospirazione in cui si aiuta l’altro al profitto.
Più le persone sono malate, più sale il profitto dell’industria farmaceutica.
E per avere molte persone malate serve molto cibo spazzatura tanto quanto l’industria alimentare produce.
E per avere molte persone malate serve molto cibo spazzatura, tanto quanto ne produce l’industria alimentare.
Quanti di noi hanno sentito la notizia di qualcuno che ha il cancro e qualcuno dire: “… Può capitare a chiunque ……”
No, non poteva!
“Che il cibo sia la tua medicina, la medicina sia il tuo cibo”.
Ippocrate (il padre della medicina)  fonte: a