Scritto il 15/3/12 • nella Categoria: idee
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Licenziare per crescere? Follia, ossimoro. Ma attenti: il nuovo dogma riciclato dal club di Mario Monti in realtà è roba vecchia. La coniò cent’anni fa l’economista inglese Arthur Cecil Pigou, alfiere della scuola “neoclassica” europea, nemica dell’economia democratica fondata sulla condivisione progressiva della ricchezza prodotta. Quello di Pigou non era un errore, ma un calcolo: impoverire milioni di lavoratori significa innanzitutto concentrare fortune inaudite nelle mani di pochissimi “rentiers”, veri eredi dei nobili che in Francia nel 1789 esasperarono il paese fino a far scoppiare la Rivoluzione. Come può un lavoratore amputato nel reddito essere poi colui che consuma abbastanza da sorreggere l’economia a cui l’azienda stessa si rivolge? E, come disse Keynes: in un’economia che soffre per il calo dei consumi, a loro volta come fanno le aziende ad assumere lavoratori?
Oggi, scrive Paolo Barnard nella sua “Lettera a un imprenditore” pubblicata il 14 marzo sul suo sito, il conflitto ormai frontale tra lavoro e capitale produttivo è sostanzialmente fuorviante: entrambi, datore di lavoro e dipendente, sono vittime di un sistema artificiosamente precipitato in una crisi da lungo tempo pianificata, proprio dai discepoli di Pigou. Quell’idea “doveva” sopravvivere, per un motivo: avrebbe condotto esattamente a quel calo dei profitti diffusi, a quell’incrinatura nella macchina capitalista di consumi-produzione e quindi a uno scontro acerrimo fra imprenditori e dipendenti. Tutte cose che servivano perfettamente le mire dei nuovi “rentiers”. Deflazione, disoccupazione, precarizzazione del lavoro: una spirale che avrebbe costretto gli Stati alla spesa a deficit negativa, cioè improduttiva, con cali dei fatturati, scontri distruttivi nel mondo del lavoro, tensioni sociali, danni alle finanze statali. Il punto? La perdita della sovranità monetaria: neutralizzato lo Stato, sono tutti indifesi – i lavoratori, ma anche le aziende.
«Vi stanno distruggendo», avverte Barnard, rivolgendosi agli imprenditori. «E peggio: siete soli. Né Confindustria, né le vostre organizzazioni di rappresentanza hanno capito cosa è in atto nell’Unione Europea. Non sanno o non vogliono capire, e infatti se ne vedono i risultati». Autore del saggio “Il più grande crimine”, apprezzato da uno dei massimi esperti mondiali di storia dell’economia neoliberista come John Henry, Barnard ha promosso a Rimini il primo summit mondiale sulla “Modern Money Theory”, gestito dagli economisti americani di scuola keynesiana secondo cui le politiche di “rigore” sono una truffa, una inutile sofferenza imposta a intere nazioni, costrette a rinunciare alla loro arma naturale di autodifesa: la moneta sovrana. Da lì in poi, tutto diventa un dramma: la crisi, il debito, le tasse. Se sparisce lo Stato come regolatore economico del sistema, è la fine: e proprio l’economia, narrata dai media quasi fosse una scienza occulta, in realtà è «il motore di tutto ciò che ci sostiene, senza il quale non solo i redditi e i fatturati, ma neppure i diritti sono possibili».
«Il dramma che ci minaccia – scrive Barnard – è proprio in questo trasferimento di poteri a sfere neppure immaginabili da chi s’informa e lavora: vi sono forze al lavoro in Europa che mirano, non esagero, alla distruzione delle dinamiche del capitalismo stesso. E non sono affatto forze marxiste». Fino agli anni ’90, prima cioè dell’inquinamento finanziario speculativo, l’economia degli Usa – impiantata in un paese “vergine”, non gravato dal feudalesimo che aveva frenato l’Europa – pur tra colossali ingiustizie aveva badato all’equilibrio dinamico del sistema: redditi sufficienti ad assicurare l’accesso ai consumi, garantendo quindi la salute delle aziende. Nella patria mondiale delle grandi corporation private, grazie al dollaro, è stato proprio lo Stato a far la parte del leone, arrivando a creare la maggiore ricchezza della sua storia spendendo a deficit fino al 25% del Pil.
In Europa, tuttavia, i gangli del potere tradizionale – quello che ereditò gli ideali dell’Ancien Régime e del Neomercantilismo tedesco e francese, transitando poi trasversalmente nel nazismo e persino nelle sfere vaticane – ha sempre visto il capitalismo americano come un’aberrazione, dice Barnard: non certo per le sue derive eccessivamente consumistiche ma, al contrario, solo perché persino quel minimo di contenuto democratico che esso mantiene – cioè la necessità della presenza di una popolazione tutelata abbastanza affinché consumi – era visto come un’insidia inaccettabile per le mire fondamentali di questo potere tradizionale europeo. «Queste mire erano, e sono tuttora, la distruzione di qualsiasi potere popolare e democratico, e l’imposizione, anzi, il ritorno in Europa di un nuovo ordine sociale di tipo para-feudale, con a capo quelli che già Adam Smith e David Ricardo definivano nel ‘7-800 i “rentiers”».
Come i rampolli della nobiltà che fu, oggi gli alfieri delle tecnocrazie europee «ritengono loro diritto “divino” non solo governare i popoli ritenuti masse ignoranti, ma anche prelevare tutta la ricchezza possibile dal lavoro di altri». E questo salasso sta colpendo tutti: i lavoratori, ma anche gli imprenditori. Marginalizzati dalla Rivoluzione Francese alla fine del ‘700, oggi i “rentiers” sono tornati e attualmente governano la struttura non democratica che si sono inventati, l’Unione Europea: «I loro sicari ed esecutori materiali nella Ue moderna sono (o sono stati) i potentissimi tecnocrati come Herman Van Rompuy, Olli Rehn, Jaques Attali, Jaques Delors, o Lorenzo Bini Smaghi e Mario Draghi, e poi gli Juncker, i Weigel fra i tanti». Per Barnard «sono i decisori finali dei nostri destini», quelli che stabiliscono nelle segrete stanze di Francoforte o Bruxelles se un settore produttivo avrà mercato o se invece soccomberà, in virtù dei loro trattati vincolati e non negoziabili, imposti senza neppure spiegazioni ai Parlamenti nazionali europei.
“Rentiers”, aggiunge Barnard, sono divenuti «i finti imprenditori (come Montezemolo o De Benedetti in Italia) che scommettono su rendite da “clienti prigionieri” dei servizi essenziali forzosamente privatizzati e riuniti in monopoli privati», la massa pagatrice della “captive demand”, «violando ogni regola di libero mercato reale». “Rentiers” sono anche «i capitani neomercantili di multinazionali dell’acciaio, metalmeccaniche o dell’high tech franco-tedesche, le cui strategie di profitto hanno abbandonato la virtuosità del libero mercato reale e si basano solo sulla deflazione dei redditi dei loro dipendenti, cui succhiano la vita con pretese di produttività da collasso». Nella Germania “modello” della signora Merkel, «i redditi crescono del 50% in meno rispetto alla media europea con una produttività del 35% superiore, e infatti i consumi interni sono crollati». “Rentiers”, infine, sono i gestori degli “hedge fund” della City di Londra, gli speculatori che estraggono fortune inaudite proprio dall’attacco al tessuto economico di intere nazioni attraverso l’uso della scommessa finanziaria pura: così, oggi le aziende sono «ostaggi impotenti di questi immensi giochi».
Profitto parassitario, a spese di chi investe e lavora. Un disegno concepito in forma larvale già 75 anni fa: serviva «un’intera struttura politico-economica», che oggi si chiama Eurozona. «Il progetto di moneta unica europea – scrive Barnard – nacque da uno dei profeti di questi nuovi “rentiers”, nel 1943. Era l’economista francese François Perroux, che immaginò l’unione monetaria con la mira di ottenere che “lo Stato perda interamente la sua ragion d’essere”. La distruzione delle funzioni monetarie dello Stato è oggi lo strumento primario dei nuovi “rentiers” per affossare l’economia produttiva, i redditi, i consumi e dunque il capitalismo stesso». Perroux lasciò scritto che «il futuro garantirà la supremazia alla nazione o alle nazioni che imporranno la povertà che genera super-profitti e quindi accumulo».
Perché la nostra vecchia “Italietta”, quella della “liretta” degli anni ’70-80, si vide promossa fra i sette più prosperi paesi del mondo, mentre oggi – con questo euro che prometteva rilanci insperati – siamo ridotti al fanalino di coda d’Europa, additati come i somari della classe e sul filo del default? Come fu possibile per quella “Italietta” figurare come il secondo paese al mondo per risparmio privato dopo il Giappone, mentre oggi l’indebitamento delle famiglie sta schizzando ai massimi storici? Come potemmo allora intimidire la macchina delle esportazioni tedesche al punto da indurre la Germania a «sporchi trucchi per soffocare la nostra produttività», come lo Sme? Sono domande che ormai ognuno si pone, di fronte a una crisi sempre più grave, presentata come “inspiegabile” e contrastata da “soluzioni” impopolari – austerità, rigore – che colpiscono tutti tranne le banche e le grandi multinazionali. Manca sempre un passaggio cruciale, eluso dalla narrazione mediatica: la perdita della sovranità monetaria, svolta davvero decisiva.
Il più alto debito pubblico mai registrato dall’Italia repubblicana è quello del 1998, col debito pubblico pari al 132% del Pil, cioè molto sopra l’attuale 114%. Eppure, sottolinea Barnard, allora l’Italia non era affatto relegata tra i Piigs. Ci furono assalti speculativi dei mercati tali da configurare un’emergenza nazionale? Parole come “spread” o “default” erano sulle prime pagine dei quotidiani? No, naturalmente. E perché? «Perché quel debito era in lire, cioè moneta sovrana, ovvero una moneta che l’Italia creava dal nulla e senza limiti, per cui i mercati sapevano che Roma poteva ripagare qualsiasi obbligazione senza problemi». Il Giappone di oggi è un esempio eclatante di quella verità macro-economica: ha un debito quasi doppio di quello dell’Italia, cioè oltre il 200% del Pil, ma nessun mercato lo sta aggredendo. «Ma il Giappone, come l’Italia di allora, ha moneta sovrana. E nessun limite vero nel crearne per pagare i propri debiti».
Il debito pubblico è la somma dei deficit: l’idea che il debito con moneta sovrana sia un peso futuro per i cittadini è falsa, sottolinea Barnard. Il debito statale con moneta sovrana, al contrario, è la ricchezza di famiglie e aziende, per il semplice fatto che neppure lo Stato dovrà mai ripagarlo. Lo spiega un economista della Bocconi, il professor Luca Fantacci: «Nessuno Stato è in grado di ripagare i propri debiti. D’altro canto, gli Stati non sono nemmeno tenuti a ripagare i loro debiti. I debiti degli Stati, da quando hanno preso la forma di titoli negoziabili sul mercato, ossia da poco più di trecent’anni, non sono più fatti per essere ripagati, bensì per essere continuamente rinnovati e per circolare indefinitamente. I titoli di Stato sono emessi, sono acquistati e rivenduti ripetutamente sul mercato e, quando giungono a scadenza, sono rimborsati con i proventi dell’emissione di nuovi titoli». Quindi: se lo Stato a moneta sovrana non è tenuto a ripagare il proprio debito, perché mai dovrebbe pretendere che lo facciamo noi, cittadini e aziende? Semplice: perché non abbiamo più la protezione di una moneta sovrana.
Per noi, l’euro è a tutti gli effetti una moneta straniera, che il Tesoro italiano non può emettere. Chi emette gli euro è il sistema delle banche centrali europee dei 17 paesi dell’Eurozona, le quali li depositano direttamente nelle riserve di istituti finanziari privati. Ogni singolo euro che spende, il nostro Stato deve prenderlo in prestito dai mercati di capitali privati, ai tassi da loro decisi. Questo porta a un immediato impoverimento del Paese, che si riflette su risparmio, consumi e profitti aziendali. Così, lo Stato diviene ostaggio totale dei mercati di capitali privati, che ne possono depredare la ricchezza impunemente. «E ciò rientra con precisione nel piano distruttivo dei nuovi “rentiers”: ecco la catastrofe dell’Eurozona». Dopotutto, aggiunge Barnard, fu proprio uno dei suoi maggiori architetti, il tecnocrate francese Jaques Attali, che in conversazione con l’economista Alain Parguez, ex consigliere di Mitterrand, si lasciò sfuggire la piena verità sui nuovi “rentiers” con queste parole: «Ma cosa credeva la plebaglia europea? Che l’euro fosse stato fatto per la loro felicità?».
Noi, la “plebaglia europea”, abbiamo solo due tipi di ricchezza: quella finanziaria (denaro e titoli) e quella dei beni, cioè risorse, prodotti, case, terreni, infrastrutture, cultura, servizi. Se i principali soggetti economici sono due, il settore pubblico e quello privato, solo il primo – il settore governativo – può creare denaro; il secondo, quello delle aziende e delle famiglie, il denaro può solo trasferirlo: se qualcuno ne accumula di più, significa che altri ne avranno di meno. E’ aritmetico: per far crescere il sistema nel suo complesso, è necessario l’intervento dello Stato, a patto che sia dotato di moneta sovrana da immettere. Solo lo Stato sovrano può creare moneta dal nulla, da riversare nel settore privato sotto forma di spesa: commesse, acquisti, stipendi, contante, emissione di titoli, investimenti. Ma se lo Stato non immette nel sistema più di quanto già riceve sotto forma di tasse, allora addio crescita. Se poi lo Stato punta a spendere ancora meno, accantonando un surplus di bilancio, ecco che il settore economico privato va addirittura in perdita e precipita nella crisi.
Soluzioni? Una sola: se le aziende sperano di crescere, lo Stato deve spendere più di quanto imponga di pagare sotto forma di tasse. Spesa virtuosa, strategica: verso la piena occupazione, il welfare e la “full capacity”, cioè la piena produzione aziendale. Si chiama: economia di spesa a deficit positiva. Condizione operativa di partenza: la sovranità monetaria, quella che sta facendo “volare” l’Argentina, salvata dagli economisti americani della Modern Money Theory. Ma l’Argentina è lontana: per noi, “plebaglia europea”, solo cattive notizie. Cosa si nasconde dietro la retorica bugiarda dell’unione monetaria? E cosa si cela nei mantra dei tecnocrati europei, i nuovi “rentiers”, che vogliono imporre una retromarcia totale, fino a pretendere che sia messa per iscritto, nella nostra Costituzione, un’aberrazione economica e antidemocratica come il pareggio di bilancio? Si nasconde, risponde Barnard, la precisa mira di sottrarci il profitto dell’unica vera crescita possibile, quella promossa dalla spesa virtuosa dello Stato per migliorare il benessere di tutti.
«La paralisi della crescita così ottenuta – scrive Barnard – distrugge lo stesso capitalismo della produzione», di cui vive la nostra economia. «Hanno usato il potere delle scuole economiche “neoclassiche” finanziate dalle maggiori fondazioni e think tanks neoliberiste per creare il “fantasma” del debito pubblico, riuscendo a nascondere che la più formidabile spinta produttiva e reddituale della storia dell’umanità fu originata dal 1946 al 1956 proprio da una colossale spesa a debito degli Stati Uniti d’America, che non risulta siano poi falliti». Oggi, poi, «nel nome della menzogna del debito e grazie alla gabbia dell’euro», ci impongono «le austerità che ancor più strozzano la spesa dello Stato e aumentano la tassazione», quindi deprimono i redditi, quindi i consumi e quindi le aziende, «in una spirale senza fine che prende il nome di “spirale della deflazione economica imposta”».
Inoltre, aggiunge Barnard, lo Stato vittima di queste austerità «si trova a dover far fronte a spese a deficit del tutto negative e improduttive», come gli attuali ammortizzatori sociali, l’aumento delle spese sanitarie, il calo del gettito fiscale dovuto al crollo dei redditi. Questo impedisce allo Stato di investire in modo strategico: con infrastrutture competitive, detassazioni multiple, acquisti diretti della produzione a rischio, emissione di titoli per finanziare attività produttive, incentivi fiscali per reinvestire gli utili in produttività, credito agevolato, ammortizzatori sociali mirati alla formazione d’eccellenza dei lavoratori. Tutto inutile: senza moneta sovrana, lo Stato non può investire per cittadini e imprese, e si limita ad accumulare debito sterile. «Cinicamente, poi, questo aumento di debito negativo viene preso a pretesto dagli stessi tecnocrati europei che lo hanno causato, i nuovi “rentiers”, per imporci ancor più austerità, quindi ancor più deflazione, quindi ancora calo dei redditi e dei consumi e conseguente crollo economico, e tutto il meccanismo pernicioso si auto-alimenta all’infinito».
Ci perdiamo tutti, avverte Barnard, tranne loro: «I nuovi “rentiers” speculano su questo con inimmaginabili profitti, cifre da far impallidire qualsiasi buona azienda italiana, proprio perché ne succhiano la linfa». Per questo, «stanno imponendo un nuovo ordine sociale costruito sulla paura del fallimento di intere nazioni, che loro stessi ricattano e sospingono alla rovina». Solo un dato, tratto da Bankitalia: la crisi finanziaria del 2007, il capolavoro globale dei nuovi “rentiers”, ha complessivamente sottratto all’Italia 457 miliardi di euro in meno di tre anni. Un oceano di denaro, drenato anche alle nostre aziende, con l’aggravio che oggi la stessa macchinazione che ha originato il collasso finanziario globale sta negando agli imprenditori il credito bancario necessario a sopravvivere, mentre incalza ogni giorno di più l’opprimente stretta fiscale che «si mangia tutto», e viene giustificata con quella che per Barnard è una menzogna: il sostegno dei cittadini per finanziare la spesa dello Stato.
Cosa sono le tasse? «Non certo un mezzo per racimolare soldi per la finanza pubblica». Quella è solo un’altra invenzione del sistema “neoclassico” che ci domina. E’ impossibile che le tasse possano pagare alcunché nei bilanci di uno Stato, spiega Barnard, visto che sono denaro che il governo ha immesso nella collettività e che di norma si riprende indietro in percentuale minore: non può in alcun modo rispenderlo, la matematica non glielo permette. «Ma anche immaginando il santificato pareggio di bilancio, dove lo Stato spende 100 e tassa 100, dove sono i fondi da spendere? Ciò che in realtà accade è questo: lo Stato a moneta sovrana inventa denaro spendendo», cioè accreditando conti correnti nel settore privato, «che poi drena dagli stessi conti tassando, distruggendo quel denaro: sì, distruggendolo, perché si tratta solo di unità di conto elettroniche che, all’atto del pagamento delle tasse, scompaiono dai conti sui computer della banca centrale».
Ma allora, perché diavolo uno Stato tassa? Lo fa per quattro motivi. Primo: per tenere a freno il potere economico delle oligarchie private, che altrimenti diverrebbero immensamente ricche e potrebbero spodestare lo Stato stesso. Secondo: per limitare l’inflazione, drenando dalla circolazione il denaro in eccesso. Terzo motivo, per scoraggiare o incoraggiare taluni comportamenti: si tassa l’alcol, il fumo o l’inquinamento, e si detassano le beneficienze o le ristrutturazioni. Quarto: per imporre ai cittadini l’uso della sua moneta sovrana. «Se non fosse per l’obbligo di tutti di pagare le tasse nella valuta dello Stato, non ci sarebbe garanzia di accettazione da parte del settore non governativo di quella valuta». Un meccanismo che però è virtuoso solo per gli Stati a moneta sovrana: dettaglio decisivo, che sembra sfuggire a tutti. «Nella finta contrapposizione degli interessi di imprenditori e lavoratori – conclude Barnard – fu omesso oculatamente (e criminosamente) proprio il ruolo della spesa a deficit positiva», da parte dello Stato. Infatti, «ciò che viene finanziariamente perduto dal sistema-aziende nell’aumento del costo del lavoro, in particolar modo sul fronte della competitività, non solo gli ritorna in termini di acquisti, ma deve e può essere coperto proprio dalle infusioni di spesa a deficit positiva dello Stato». Manovra elementare, che a noi – e solo a noi, “plebaglia europea” – è attualmente preclusa.
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