diario 12/9/2010
Legge Biagi, una legge molto chiacchierata e poco conosciuta
di Luca Scarabosio
Periodicamente, nel dibattito politico, si ritorna a parlare della legge Biagi, da alcuni santificata come la soluzione al problema della competitività del sistema italiano, da altri demonizzata ad essere la principale causa della precarietà, con posizioni predefinite, che prescindono spesso dal contenuto effettivo del testo legislativo.
In questo articolo, si cercherà di evidenziare, entrando nel merito, pregi e limiti della legge Biagi. Quello che si sosterrà è che le forme di contratto tradizionale eccessivamente tutelate possono rappresentare un limite soprattutto allo sviluppo delle piccole e medie imprese, che hanno nella flessibilità e adattabilità il loro punto di forza, ma che, allo stesso tempo, occorra rapidamente una riforma, all’interno della linea indicata dalla legge Biagi, che favorisca un insieme di tutele maggiori per i lavoratori atipici, quali ad esempio indennità di disoccupazione o accesso al credito personale, in modo da rendere sostenibile e stabile nel tempo il modello di sviluppo economico complessivo.
La legge 30, chiamata comunemente anche legge Biagi (Legge 14 febbraio 2003, n. 30 o, più brevemente, legge 30/2003 - "Delega al Governo in materia di occupazione e mercato del lavoro") è una legge di riforma del mercato del lavoro che stata varata dal secondo governo Berlusconi. La legge prende il nome del giuslavorista Marco Biagi che vi ha contribuito come consulente e che è stato assassinato il 19 marzo 2002 a Bologna dalle Nuove Brigate Rosse. In realtà è improprio attribuire la regolamentazione del mercato del lavoro alla legge n. 30/2003, in quanto quest'ultima è solo una legge delega al Governo. Ad essa ha fatto seguito il D. Lgs. 10 settembre 2003 n. 276, "Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30", che è invece la fonte normativa definitiva (nel seguito tale decreto verrà comunque per brevità indicato come legge Biagi).
E’ indubbio che la legge Biagi introduca una serie di novità la cui portata è paragonabile allo Statuto dei lavoratori. Diversamente da quest'ultimo, però, l'intento del legislatore parte dal presupposto secondo cui la flessibilità in ingresso nel mercato del lavoro è il mezzo migliore, nella recente congiuntura economica, per agevolare la creazione di nuovi posti di lavoro e inoltre che la rigidità del sistema crea spesso alti tassi di disoccupazione.
La vastità della riforma è evidenziata dallo stesso numero degli articoli del Decreto, ben 86, e dagli istituti introdotti ex novo o modificati.
In estrema sintesi, la legge Biagi ha introdotto o modificato numerosi contratti di lavoro: dalla somministrazione all'apprendistato, al contratto di lavoro ripartito, al contratto di lavoro intermittente, o al lavoro accessorio e al lavoro occasionale, nonché il contratto a progetto. Ha inoltre disciplinato le agenzie di somministrazione di lavoro abrogando l'istituto del lavoro temporaneo o interinale, ha introdotto procedure di certificazione e la Borsa continua nazionale del lavoro, ossia un luogo di incontro fra domanda e offerta di lavoro e, infine, ha esteso notevolmente la definizione di trasferimento di ramo d'azienda all'art. 2112 del Codice Civile, non creando nuovi ambiti di possibile applicazione, ma includendovi operazioni già previste dalle normative, per le quali non esistevano gli stessi diritti e tutele.
In particolare, la riforma, da un lato, ha ridisegnato gli istituti già presenti nell’ordinamento italiano e, dall’altro lato, ha introdotto nuove tipologie contrattuali, in alcuni casi sostituendo figure giudicate “inadeguate”, in altri regolamentando ex novo figure prima ignote o conosciute solo dalla prassi giurisprudenziale, come gli istituti del lavoro part-time e l’apprendistato. Di fatto, l’apprendistato, rivolto ai giovani in cerca di occupazione, consiste in un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato, seppur “speciale” ed è riconducibile a un contratto di lavoro a causa mista, ovvero la causa tipica, prestazione di lavoro contro retribuzione, viene arricchita, in quanto l’azienda è tenuta a fornire formazione professionale.
Per quanto riguarda, invece, le nuove forme contrattuali in sostituzione di quelle già presenti rilevano il lavoro somministrato a tempo determinato che prende il posto del lavoro interinale, e il contratto di inserimento che ha sostituito il contratto di formazione lavoro. Innovativi sono, invece, la forma di lavoro a chiamata
(riconosciuto, per via contrattuale, un tentativo di regolamentazione), il lavoro ripartito (riconoscimento embrionale nella prassi giurisprudenziale) nonché la somministrazione di lavoro a tempo indeterminato.
Una particolare considerazione merita il lavoro a progetto, novità che si innesta nel tessuto delle collaborazioni coordinate e continuative già note. Il contratto di "lavoro a progetto" si caratterizza per il contenuto prevalentemente personale della prestazione; per l'assenza di un vincolo di subordinazione; la determinazione di un progetto specifico o programma di lavoro, stabilito dal committente.
In verità, il lavoro di Biagi riprende (apportando sostanziali modifiche) la riforma del mondo-lavoro varata, nel 1997, da Tiziano Treu. La riforma Treu introduceva nuove forme di lavoro, al fine di avvicinare l’obsoleto sistema occupazionale italiano a quei sistemi europei più innovativi e caratterizzati da una maggiore flessibilità.
Pertanto, con Treu si delinearono già forme di occupazione differenti dal posto fisso: collaborazione coordinata continuativa (co.co.co) e il lavoro interinale; poi ripresi e modificati dalla legge Biagi.
La legge Biagi, come già evidenziato, è stata e continua a essere oggetto di dibattiti: da un lato i difensori che, sottolineando il coraggio di Biagi nel delineare una tale riforma capace di mettere in discussione e superare una cultura che manifesta riserve mentali sull’impresa, quale fattore di sviluppo, evidenziano l’effetto positivo della riforma sulla crescita dell’occupazione; dall’altro lato i contestatori, i quali ritengono che la legge abbia soltanto aumentato la precarietà dei lavoratori.
In particolare, secondo i difensori, attraverso la legalizzazione del “lavoro flessibile”, la legge Biagi ha ottenuto il risultato di aumentare il numero di lavoratori occupati regolarmente offrendo tutte le discipline, sia pur minime, a vantaggio del gran numero di “precari”. Inoltre, le forme contrattuali introdotte rispondono alle molteplici esigenze di un mercato del lavoro eterogeneo e globalizzato e l’adozione, per le assunzioni, di tali tipologie contrattuali consentono alle imprese di beneficiare, non solo di sconti contributivi e fiscali, ma anche della possibilità di un “maggiore ricambio del personale”, ove quello assunto non si fosse giudicato adatto.
A titolo di esempio, possiamo ricordare gli articoli 54-59 che disciplinano l'assunzione di soggetti cosiddetti svantaggiati, tra cui spiccano le donne. Si legge in particolare che « Per quanto riguarda l'assunzione di donne, tutte le donne assunte con contratto di inserimento, a prescindere dalla zona geografica di appartenenza, danno la possibilità di fruire dell'agevolazione contributiva del 25%. [...] Gli incentivi consistono in una riduzione, pari o superiore al 25%, dei contributi previdenziali ed assistenziali a carico del datore di lavoro »
Mentre i contestatori argomentano che alla flessibilità non ha fatto seguito una parallela riforma sugli ammortizzatori sociali, tramutando così una situazione di lavoro flessibile in una situazione precaria.
La situazione italiana è in effetti differente da altri Paesi come gli USA dove ad un mercato del lavoro flessibile si accompagna dal dopoguerra una facilità a trovare un nuovo impiego in tempi rapidi per tutte le fasce di età che compongono la forza-lavoro.
Le aziende inoltre versano minori contributi ai lavoratori precari e questi hanno un accantonamento pensionistico inferiore ai loro colleghi con contratti tipici (anche se negli ultimi anni la differenza è stata di molto ridotta). Questa situazione, combinata al progressivo invecchiamento dei componenti del nostro paese, ha fatto emergere un dibattito sull'opportunità di integrare le pensioni gestite dall'Inps con un fondo pensione privato, il cui rischio ricade totalmente sul sottoscrittore.
L'elevato numero di forme contrattuali previste ha, in alcuni casi, disorientato le aziende, spingendole a sfruttare solo una piccola percentuale dell'ampio ventaglio di soluzioni messo a disposizione. Forme come il lavoro condiviso, il lavoro a chiamata o lo staff leasing sono concretamente poco o per nulla usate.
Il lavoro precario inoltre crea delle situazioni economiche complicate per i dipendenti con in contratti "atipici" che in quanto precari, non sono in grado di poter fornire garanzie reali di un salario nel lungo periodo, lasciandoli in evidente difficoltà nel momento in cui sono costretti, a richiedere agli istituti di credito del denaro per far fronte alle piccole spese quotidiane o per l'acquisto della casa nella quale andare ad abitare.
Il precariato, pone quindi il dipendente in una situazione di debolezza, nella quale, sottoposto al rischio di perdere il lavoro, più difficilmente potrà rivendicare i suoi diritti (sicurezza compresa) ed un salario migliore.
Le premesse per una discussione pacata sull’argomento devono però partire da alcuni dati caratterizzanti il mercato del lavoro italiano:
• in Italia lavora regolarmente solo un cittadino su due tra 15 e 65 anni. Il tasso di occupazione non supera infatti la soglia del 55,4 per cento ed è il più basso d’Europa. Ciò significa che solo un cittadino su due paga il sistema previdenziale. La media europea è del 63,9 per cento, e nei Paesi più evoluti si raggiungono percentuali superiori al 70 per cento. Ancor più grave è la situazione se parliamo di donne, adulti over 45 e giovani. Per queste categorie il tasso di disoccupazione è inchiodato su cifre notevolmente superiori rispetto a quelle che si registrano negli altri Paesi europei, in Giappone e negli Stati Uniti; in Italia il tasso di disoccupazione è attorno al 9 per cento, con punte superiori al 18 in alcune aree del Mezzogiorno;
• il nostro mercato del lavoro registra il più alto differenziale territoriale in termini di occupazione. All’Italia senza lavoratori del Nord-Est si contrappone l’Italia senza lavoro del nostro Mezzogiorno. Nei mesi più recenti la disoccupazione è scesa al Sud sotto la soglia del 20 per cento, ma l’inefficienza del sistema dei servizi pubblici all’impiego (nelle regioni meridionali si concentra il maggior numero dei suoi “utenti”) ne aggrava le caratteristiche strutturali e permanenti nel tempo;
• la partecipazione alle attività educative o formative dei giovani è di oltre 6 punti inferiore alla media europea, mentre i tassi di disoccupazione giovanile e di disoccupazione cosiddetta di lungo periodo (più di dodici mesi senza lavoro o formazione) sono tra i più alti d’Europa;
• contratti di lavoro di buona qualità, che negli altri Paesi hanno mostrato di poter fornire occasioni di lavoro, non precarie ma adattabili, a persone altrimenti escluse dal mercato del lavoro regolare vengono fortemente limitati da leggi farraginose e obsolete. Ancora una volta i dati parlano chiaro. Il lavoro a tempo parziale, per fare un solo esempio, non supera il 9 per cento, mentre la media europea è del 18 per cento. Paesi come Olanda e Regno Unito registrano tassi di molti superiori, rispettivamente del 42 e del 25 per cento.
• il lavoro nero e irregolare assume dimensioni due o tre volte superiori rispetto alla media degli altri Paesi europei. Stime recenti ci dicono che il fenomeno del lavoro irregolare riguarda oltre cinque milioni di posizioni lavorative.
• al gruppo di lavoratori protetti da forti tutele (gli occupati nelle amministrazioni pubbliche e nelle imprese di grandi e medie dimensioni) si accompagnano dunque gruppi con tutele moderate (i lavoratori atipici e i lavoratori occupati nelle piccole imprese) e gruppi senza tutela alcuna (i lavoratori in nero).
In questo vanno inquadrati gli obiettivi della legge Biagi, che si ispirano alla “Strategia Europea per l’occupazione”:
- creare un trasparente ed efficiente mercato del lavoro, capace di incrementare le occasioni di lavoro e di garantire a tutti un equo accesso a un’occupazione regolare e di qualità;
- mettere in atto una strategia allo scopo di contrastare i fattori di debolezza strutturale dell’economia (disoccupazione) e perseguire politiche del lavoro efficaci e moderne, soprattutto nelle aree svantaggiate del Mezzogiorno;
- introdurre forme di flessibilità regolata, e contrattata con il sindacato, in modo da bilanciare le esigenze delle imprese di poter competere sui mercati internazionali
con la tutela e valorizzazione del lavoro;
- introdurre nuove tipologie di contratto utili ad adattare l’organizzazione del lavoro ai mutamenti dell’economia e anche ad allargare la partecipazione al mercato del lavoro di soggetti “deboli”;
- affermare un maggiore ruolo delle organizzazioni di tutela e rappresentanza in funzione della gestione di attività utili alle politiche per l’occupazione
In sintesi, quindi la legge Biagi è principalmente orientata ad aumentare l’occupabilità, ed è rivolta ad assicurare ai giovani e ai disoccupati gli strumenti per fronteggiare le nuove opportunità occupazionali e i cambiamenti repentini del mercato del lavoro, e può essere particolarmente utile per le piccole e medie imprese che hanno nella velocità di adattamento al cambiamento il loro punto di forza.
I nuovi mercati globali richiedono senza dubbio maggiore flessibilità e un più ampio ventaglio di schemi contrattuali per cogliere appieno le occasioni di lavoro offerte dalle tecnologie della informazione e della comunicazione. La legge Biagi asseconda queste esigenze, garantendo in ogni caso che coloro che lavorano con contratti di tipo flessibile godano di una sicurezza adeguata e di una posizione occupazionale più elevata. Non solo le donne devono poter lavorare con il trattamento economico e normativo garantito agli uomini, ma anche con uguali responsabilità e opportunità di carriera. Le misure di riforma contenute nella legge Biagi hanno come obiettivo prioritario l’innalzamento del tasso di occupazione delle donne e, in generale di tutte le categorie di persone a rischio di esclusione sociale.
La legge Biagi prevede anche la semplificazione delle procedure di collocamento e l’apertura regolata agli operatori privati finalizzate al potenziamento delle azioni di prevenzione della disoccupazione e la massima efficacia dei servizi, attraverso un modello che contempla la cooperazione e la competizione tra strutture pubbliche, convenzionate e private.
Un Paese moderno deve poter contare su un efficace collocamento pubblico (servizi per l’impiego in una logica “a rete”, dando vita ad una “borsa continua del lavoro”, con informazioni in tempo reale sulle opportunità offerte dal mercato). Ma deve poter contare anche su un ruolo attivo dei privati.
La delega prevista nella “legge Biagi” mantiene però confermato l’obiettivo di vietare ipotesi di intermediazione o interposizione nei rapporti di lavoro volte a ledere i diritti dei lavoratori. Ciò su cui incide è invece la soppressione di tutte quelle norme obsolete, proprie di un sistema di produzione e organizzazione del lavoro oggi superato, finalizzate esclusivamente all’obiettivo di irrigidire in sé e per sé l’uso della manodopera, anche là dove non esistano istanze di tutela del lavoro.
Senza adeguati interventi in formazione e in istruzione, la flessibilità rischia di tradursi in precarietà ed emarginazione sociale. In questa prospettiva, una prima area di intervento è rappresentata dalla revisione e razionalizzazione dei rapporti di lavoro con contenuto formativo (contratto di apprendistato, contratto di inserimento, il tirocinio)
Per quanto riguarda il lavoro a tempo parziale, è bene ricordare come questa tipologia contrattuale, largamente valorizzata dal legislatore comunitario, venga ancora utilizzata in una misura ridotta rispetto agli altri paesi comunitari.
L’esperienza degli altri Paesi è assai significativa quanto soprattutto alle tecniche incentivanti utilizzate per incoraggiare la stipulazione di contratti a tempo parziale. Inutili appesantimenti burocratici mortificano l’autonomia individuale delle parti e il ruolo della contrattazione collettiva nella gestione di uno strumento contrattuale che, negli altri Paesi, ha mostrato di poter fornire occasioni di lavoro, non precarie ma adattabili, a persone altrimenti escluse dal mercato del lavoro regolare. Soprattutto i vincoli legislativamente imposti alla introduzione di clausole flessibili, rispetto alla collocazione temporale della prestazione lavorativa ad orario ridotto e alla sua estensione nel tempo, comprimono ingiustificatamente la autonomia delle parti sociali e quella dei soggetti titolari dei rapporti di lavoro, trattati con ingiustificata subalternità dal legislatore. La disciplina delineata dalla riforma Biagi punta dunque a incentivare questa forma contrattuale rendendola più interessante sia per i datori sia per i prestatori di lavoro.
Grazie alla legge Biagi inoltre è stato introdotto per la prima volta nel nostro Paese il lavoro intermittente (altrimenti detto a chiamata), nella duplice versione con o senza l’obbligo di corrispondere una indennità di disponibilità a seconda della scelta del lavoratore di vincolarsi o meno in tal senso, anche al fine di regolarizzare le prassi esistenti di lavoro non dichiarato o comunque non regolare (il fenomeno del “lavoro a fattura”, con l’emissione di semplici note o fatture a titolo di lavoro autonomo da parte di soggetti a cui è in realtà richiesta una prestazione lavorativa intermittente come dipendenti). Si tratta di prassi che non solo ledono i diritti dei prestatori di lavoro ma che risultano distorsive della stessa competizione corretta tra imprese e che, in definitiva, contrastano con un’impostazione volta a modernizzare le regole del nostro mercato del lavoro.
La legge Biagi prefigura anche la sperimentazione del lavoro accessorio (soprattutto nel campo dell’assistenza alla persona, venendo incontro alla necessità di moltissime famiglie di regolarizzare la cura dei bambini e degli anziani, semplificando al massimo le modalità di gestione del rapporto di lavoro) ed anche del lavoro ripartito o a coppia (inducendo anche in questo caso una logica di solidarietà, soprattutto fra le lavoratrici, che consenta un miglioramento della qualità di vita personale e familiare).
Per quanto riguarda il lavoro a progetto, la legge Biagi riconduce a questa tipologia i rapporti in base ai quali il lavoratore assume stabilmente, senza vincolo di subordinazione, l’incarico di eseguire, con lavoro prevalentemente od esclusivamente proprio, un progetto o un programma di lavoro, o una fase di esso, concordando direttamente con il committente modalità di esecuzione, durata, criteri e tempi di corresponsione del compenso. In estrema sintesi, conferisce conferire riconoscimento giuridico ad una tendenza che si è rivelata visibile con il passare degli anni, soprattutto in ragione della terziarizzazione dell’economia, quella appunto di lavorare a progetto. Si rintracciano sovente caratteristiche di coordinamento e continuità nella prestazione, ma pur sempre in un ambiente di autonomia organizzativa, circostanze che reclamano un’apposita configurazione.
Ciò detto, occorre sicuramente evitare l’utilizzazione delle collaborazioni coordinate e continuative in funzione elusiva o frodatoria della legislazione posta a tutela del lavoro subordinato, ricorrendo a questa tipologia contrattuale solo al fine di coprire spazi anomali nella gestione flessibile delle risorse umane. Il lavoro a progetto si differenzia rispetto anche ai rapporti di lavoro meramente occasionali perchè vengono stabilite alcune tutele fondamentali con particolare riferimento a maternità, malattia e infortunio, nonché alla sicurezza nei luoghi di lavoro.
Al fine di sostenere la diffusione delle nuove tipologie contrattuali, in un quadro di flessibilità regolata e sostenibile, la legge Biagi prevede la messa a regime di una procedura di certificazione dei rapporti di lavoro. Tale sistema, del tutto innovativo per l’esperienza italiana, prevede su base volontaria un meccanismo di certificazione dei rapporti di lavoro e si basa su analoghe esperienze presenti in altri Paesi europei. Si tratta dunque di un meccanismo finalizzato a dare alle parti ausilio nella più precisa definizione del testo contrattuale, potendo contare sul supporto fornito dall’ente bilaterale o dalla stessa Direzione provinciale del lavoro anche a mezzo di codici di comportamento, linee-guida, realizzate in una logica di assistenza per favorire la regolarizzazione dei rapporti.
In conclusione, il pensiero di Marco Biagi secondo cui “riformare il mercato del lavoro è la condizione per conseguire l’obiettivo di aumentare l’occupazione, accrescendone la qualità” trova sicuramente applicazione nella legge che prende il suo nome, ma la riforma deve essere ancora completata da un insieme di maggiori tutele per i lavoratori atipici, quali, ad esempio, indennità di disoccupazione o facilità di accesso ai prestiti personali, al fine di rendere stabile nel tempo il modello di sviluppo economico di imprese e lavoratori italiani.
Torino, 04/09/2010
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