lunedì 30 aprile 2012

A COSA SERVE INTERNET? [2011]

Passaparola- La Grecia è in default - Beppe Scienza

Di Pietro conosce l’ESM?



Incredibile.
Una ex dirigente del partito, Lidia Undiemi, lascia l’IDV con una lettera pubblica per la complicità del partito con il governo Monti nella ratifica di trattati che rischiano di mettere in ginocchio la nazione in favore dei poteri finanziari e lui nemmeno sa di cosa si tratta facendo lo scarica barile con Orlando.
Non soltanto nessuno dei due ha risposto alla lettera aperta spiegando ai propri elettori di cosa si tratta, ma continuano a girare l’italia per ottenere ancora “poltrone” con gli stipendi d’oro di ruoli che stanno omettendo di svolgere al parlamento!
La cosa sconvolgente è, come potrete vedere dal video, che una ragazza di poco più di diciotto anni con una semplice domanda a bruciapelo metta in palese imbarazzo un dirigente nazionale di un partito che nasce e vive grazie all'idea di essere di lotta e opposizione ai poteri forti.
Di Pietro dimostra di non sapere nulla della questione e cita Rinaldi?
Quest'ultimo lavora al parlamento europeo mentre la ratifica del trattato ESM è in corso al parlamento nazionale con una società civile che si sta opponendo ormai da mesi con il lavoro svolto dalla Undiemi che ha lanciato numerosi appelli ai parlamentari.
Se un leader è in grado di ignorare ed isolare un proprio dirigente che ha lavorato per anni gratuitamente per la sua organizzazione, come potrebbe trattare i cittadini?
Verrebbe da dire che Orlando “non lo sa fare”, visto che come parlamentare e vice presidente dell’EDRL non sta compiendo il proprio dovere difendendo la nazione dagli attacchi del “governo delle banche”.
Come potrebbe fare il sindaco “dei cittadini” un politico che li sta già abbandonando?
L’unica vera fonte di potere del governo Monti è l’assenza di una vera opposizione capace di guadagnarsi lo stipendio in Parlamento.

giovedì 26 aprile 2012

Partito Socialista Italiano - Settimo Torinese: Monti e la trilaterale

Partito Socialista Italiano - Settimo Torinese: Monti e la trilaterale:

Partito Socialista Italiano - Settimo Torinese: Tutti contro tutti

Partito Socialista Italiano - Settimo Torinese: Tutti contro tutti:

Partito Socialista Italiano - Settimo Torinese: Modifica illegale della costituzione

Partito Socialista Italiano - Settimo Torinese: Modifica illegale della costituzione:

Partito Socialista Italiano - Settimo Torinese: Spagna. Rajoy vuole il carcere per chi organizza p...

Partito Socialista Italiano - Settimo Torinese: Spagna. Rajoy vuole il carcere per chi organizza p...: 26 Aprile 2012 Le restrizioni ventilate dal governo potrebbero essere uno scudo preventivo in vista di nuove misure impopolari Neg...

Partito Socialista Italiano - Settimo Torinese: Ungheria, l’ora del Tek

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Monti e la trilaterale

martedì 24 aprile 2012

Stati sull’orlo della bancarotta. Che cosa succede ai cittadini?


SCHEDA


di Mauro Munafò
La recente crisi economica greca ha riportato l’attenzione sul pericolo che una nazione dichiari "fallimento". Ma spesso è difficile capire gli effetti concreti per i cittadini. Con l'aiuto di un esperto abbiamo cercato di capire cosa succede a risparmi e servizi pubblici
Quali sono gli effetti per le persone quando uno stato fallisce? La recente crisi economica greca ha riportato l’attenzione sul pericolo che una nazione dichiari “bancarotta”, ma è spesso difficile capire gli effetti reali per i cittadini di fronte a un evento del genere. Per rispondere alle domande più pratiche abbiamo consultato il professorePaolo Manasse, docente di Macroeconomia e di Politica Economica Internazionale all'Università di Bologna (qui la sua pagina personale e qui il suo blog) e grazie alle sue risposte abbiamo realizzato questa scheda riassuntiva.

Cosa significa fallimento per uno stato? E chi lo dichiara?
Il fallimento di uno stato indica che quel paese non è più in grado di far fronte ai debiti e agli interessi che maturano su questi. A dichiarare questa insolvenza può essere il governo o vari indicatori internazionali. Uno dei più riconosciuti è quello di Standard & Poor.

Cosa fa lo stato quando fallisce?
A differenza del fallimento di una banca o di un’azienda, non esiste un tribunale che può costringere uno stato a pagare i suoi debiti e le istituzioni internazionali non possono comunque violare la sovranità di un paese. E’ importante però capire che un “default” (termine con cui si indica un fallimento) non è mai totale, ma ci sono diversi livelli. Per semplificare, un paese punta sempre a “ristrutturare” un debito, ovvero cerca di raggiungere un accordo per cui invece di restituire la cifra pattuita, restituisce una cifra inferiore o spalmata su più anni.

Quali sono gli effetti sui dipendenti pubblici? E sulle tasse?
Se uno stato non ha più soldi con cui pagare i debiti, deve agire necessariamente sui suoi conti. Questo può avvenire in due modi: aumentare le entrate (alzando le tasse) o tagliare le spese. Nel secondo caso le voci più importanti sono tre: salari dei dipendenti pubblici, pensioni e sanità. E’ quindi inevitabile che il governo agirà con forza su queste tre voci. Tanto per riferirsi all’esempio greco, gli stipendi dei dipendenti pubblici sono stati tagliati di oltre il 20% e l’Iva alzata di 2 punti (e forse salirà ancora).

E sui servizi pubblici?
Il discorso fatto per le persone vale anche per i servizi. Se lo stato deve tagliare le spese, agirà con riduzioni dei salari e degli organici dell’amministrazione, influendo negativamente su tutti i servizi erogati. Sanità e pensioni sono due delle voci più “costose” del bilancio statale ed è assai probabile che finiscano per essere ridimensionate.

Che succede a chi ha dei titoli di stato, bot ecc?
Innanzitutto la cedola, che permette di incassare ogni anno una certa quota di interessi, non viene corrisposta, del tutto o in parte. Al momento della scadenza del titolo inoltre non si potrà più tornare in possesso del proprio investimento. A questo punto però è probabile che lo stato agisca invitando a una ristrutturazione del titolo. In poche parole: ti ridò qualcosa domani perché oggi non mi è possibile. In ogni caso un evento del genere porta al crollo o all’azzeramento del valore del titolo, con possibilità pressoché nulle di rivenderlo.

C’è un pericolo per i conti correnti? Sono garantiti?
La situazione è piuttosto complessa. Se lo stato non può pagare le banche con cui ha contratto un debito (perché magari hanno comprato titoli di stato), queste inevitabilmente si trovano senza liquidità e rischiano di fallire a loro volta. A tutto questo si deve aggiungere il piano psicologico dei mercati: se c’è il sentore di un fallimento, parte l’assalto agli sportelli e non c’è istituto che possa resistere al prelievo contemporaneo di buona parte dei suoi clienti. La copertura di garanzia dei conti correnti, decisa dalla banche centrali, non è mai totale e in caso di una crisi delle proporzioni di un fallimento di uno stato, non è detto che si trovino davvero le risorse per sostenerle.

E per i mutui? Anche qui dipende dalla banca. L'immobile resta di proprietà di chi ha acceso il mutuo, ma se l’istituto dichiara bancarotta, verrà nominato un liquidatore e le rate dovranno essere corrisposte ai creditori della banca insolvente. E’ anche vero che, come dimostrato dall’esempio americano, in caso di crisi generale il valore del mercato immobiliare potrebbe crollare tanto da rendere non conveniente continuare a pagare il mutuo con i prezzi fissati in periodo di stabilità. Se ad essere insolvente è invece chi ha acceso il mutuo, è l'istituto bancario che può vendere l'immobile per rifarsi dei crediti non riscossi.
(2 Maggio 2010)

euro: missione impossibile.

Viviamo ormai per pagare gli interessi sul debito pubblico. E' una fornace in cui via via inceneriamo servizi sociali, nuove tasse, risparmi, case, diritti. Mentre alimentiamo questo roveto ardente ci impoveriamo. Più ci impoveriamo, più il debito aumenta e più aumentano gli interessi sul debito. Dopo sei mesi della cura Monti il debito pubblico è cresciuto e si avvicina ai 2.000 miliardi mentre l'occupazione è scesa e per questo, inevitabilmente, nel 2012 diminuirà bruscamente il gettito fiscale. Nel 2013 dovremo pagare oltre 100 miliardi di euro di interesse sul debito, circa un quarto dei 420 miliardi di tasse annuali. Ci stiamo avvitando come un aereo in picchiata per sostenere l'euro e pagare gli interessi accumulati dal Pdl e dal Pdmenoelle durante uno sciagurato ventennio.
A chi paghiamo gli interessi? Il debito pubblico è detenuto soltanto per il 14,3% da famiglie italiane. L'85,7% da banche, fondi e assicurazioni e altri investitori. Il 46,2% all'estero, in prevalenza banche francesi, tedesche, inglesi (*). Le banche sono i nuovi padroni, per nulla disponibili a rinunciare alla loro libbra di carne. A diminuire gli interessi, ad esempio, o a diluire nel tempo la restituzione del capitale. L'Italia non dispone di sovranità monetaria, non è possibile una svalutazione della lira e un riallineamento conseguente dei titoli alla nostra economia che vale molto meno rispetto al momento della loro emissione. Svalutare la lira equivaleva svalutare i titoli. Oggi non è più così. Abbiamo un cappio al collo che non possiamo toglierci e che stringerà sempre di più se non ristrutturiamo il valore dei titoli che valgono il 20/30% in meno del loro valore iniziale. Senza il prestito di mille miliardi della BCE alle banche al tasso dell'1% ,usati per comprare nuovi titoli al 5/6%, l'Italia sarebbe in pre default.
Rimandare il problema non serve. Diminuire gli interessi sul debito nel medio termine e la contemporanea emissione di nuovi titoli di Stato a basso/medio rendimento sono una "mission impossible". Il ricatto è sempre il solito, se non si prosegue su questa strada si esce dall'euro. Ma dall'euro siamo già usciti, l'euro non rispecchia più il valore della nostra economia, al massimo il 60%. Uscire dall'euro non deve essere un tabù. Gran Bretagna e Danimarca sono parte della UE e hanno mantenuto le loro monete. Si può fare, bisogna iniziare a discuterne. Non è mai troppo tardi per tornare indietro da una strada lastricata per l'inferno.
(*) fonte Bankitalia

I "padroni" della finanza vogliono una nuova crisi


CROLLO BORSA/ 1. Sapelli: i "padroni" della finanza vogliono una nuova crisi

martedì 24 aprile 2012
La crisi economica mondiale inizia a entrare in un nuovo ciclo: quello del tentativo, da parte di un settore composito dell’oligopolio finanziario mondiale, di distruggere sistematicamente le debolissime difese che gli stati nazionali e le loro superfetazioni - come, per esempio, l’Europa “unita” da una super banca “tedesca” e da un sistema di super-banche centrali a confini variabili negoziati volta a volta a seconda delle banche locali che si vogliono salvare - hanno iniziato a erigere per evitare l’espandersi del fuoco che si è appiccato nella prateria. La miccia fu la voracità con cui molti anni or sono le banche tedesche fecero negli Usa dei mutui suprime - verità, questa, enunciata tra il mio stupore di modesto ascoltatore televisivo per caso recentemente a Minoli dal Governatore Visco in una appassionante e bellissima intervista, sottaciuta da tutta la stampa nazionale e internazionale…
Ora è iniziata la crisi da “giocata al ribasso” e da guadagno di gruppo derivante dallo sbranamento dei titoli pubblici. Le banche nordamericane hanno iniziato a liberarsi dei titoli di stato della zona euro già nel terzo trimestre del 2011, vendendo titoli greci, italiani, portoghesi, spagnoli a manetta. Il posizionamento era chiaro. Alla svalutazione dei Pigs si rispondeva con la scommessa dell’ulteriore peggioramento economico dei medesimi, facendo crollare i titoli di quei paesi e inducendo i grandi traders, spesso delle stesse banche, a comprare su scala di massa a prezzi ribassati, preparandosi così a rivenderli appena sarebbero saliti di valore.
I compratori non potevano che essere quelli istituzionali, ossia i fondi pensione et similia, conducendo alla rovina milioni di pensionati in tutto il mondo. Grande, a confronto, è il guadagno che ne fanno le banche con i loro traders. E questo mentre si presentano al pubblico come le patriottiche eroine che difendono i titoli pubblici e si svenano per la patria, non avendo più in tal modo un soldino per le piccole imprese e le povere famiglie. Tutto va ai grandi azionisti delle banche che lavorano in questo doppio senso di marcia…
Una partita possibile da giocare perché la potenza di fuoco degli intermediari finanziari dell’oligopolio internazionale è superiore a qualsivoglia barriera rompi-fuoco costruita in questi mesi dai poverissimi stati nazionali e dalla versione europea della banca tedesca travestita appunto da banca europea e guidata da un europeo che in verità risponde alle volizioni dell’oligopolio finanziario e istituzionale nordamericano. Piuttosto che cercare le parti correlate sulla carta bisognerebbe cercare le società correlate degli independents e non independent directors delle banche per capire che cosa volta a volta vuole l’oligopolio finanziario mondiale. Oggi vuole il nuovo ciclo della crisi.

Per il resto,tutto bene (da byoblu)


 Un’altra strada c’è, ma solo in Italia sembra che sia tabù anche solo accennarvi. Mentre nel silenzio generale abbiamo approvato il Fiscal Compact, il trattato europeo che obbliga i paesi che lo ratificano al pareggio di bilancio, oltre alle Alpi c’è chi dice no. E’ l’Olanda, dove il premier Mark Rutte si è dimesso perchè Geert Wilders, suo alleato, ha fatto mancare il sostegno alle misure di austerity. Subito i mercati hanno minacciato di togliere la tripla A ad Amsterdam. Ma ci sono anche quegli irriducibili mattacchioni degli irlandesi. Pensate un po’: il 31 di maggio hanno addirittura indetto un referendum – l’ennesimo – per decidere se ratificare o meno il Fiscal Compact. Dalle loro parti usa così, anche se di solito, dal Trattato di Lisbona in poi, è più una questione formale, perché anche quando vincono i “no”, la UE li ripropone cambiando due virgole fino a quando non trionfano i “sì”. Ma c’è anche la Spagna. Come? Quei poveri greci degli spagnoli hanno il coraggio di alzare la testa? Sembra di sì, visto che non solo hanno indetto regolari elezioni mentre da noi incoronavamo in meno di 48 ore quello che Schifani ieri a Porta a Porta ha ricordato “essere stato chiamato” a risolvere una situazione (per carità, mica Mario si è presentato lui: ha accettato di buon grado, povera stella; e l’hanno chiamato, sì, ma – piccolo particolare - non gli italiani, bensì le élite, quelle della Trilaterale), ma ora Mariano Rajoy e il suo ministro delle finanze Guindos stanno addirittura pensando di non ratificare il Fiscal Compact perché, sull’onda delle svolte francesi (anche Sarkozy sta mollando la Merkel per tenere testa a Holland) e olandesi, si sono convinti – guarda un po’ – che un’altra strada c’è.
 E già, perché sta roba del pareggio di bilancio fa acqua da tutte le parti. Te la vendono con la storiella che ogni buona famiglia, alla fine del mese, deve pareggiare i conti tra le uscite e le entrate. Peccato che ogni buona famiglia, se è per questo, debba anche cercare di ridurre il debito fino ad eliminarlo del tutto, senza farne costantemente di nuovo. Allora, se la metafora della buona famiglia fosse valida, lo Stato dovrebbe anche smetterla di finanziare all’infinito il proprio debito e casomai eliminarlo. Dovrebbe cioè smettere di adottare l’economia del debito, che è quella filosofia per cui il debito non si ripaga mai, casomai si rifinanzia. Cosa è, tale disciplina, se non una tassa occulta? Un popolo lavora operosamente ma, oltre a pagare accise e balzelli, ai suoi risparmi viene costantemente applicato un esborso proporzionale alla sua ricchezza. Se il benessere sale, lo spread aumenta e l’entità della tassa aumenta in proporzione, grazie al meccanismo dei rendimenti. Siamo come Z la formica: veniamo costantemente depauperati da una classe di cavallette esose e mai sazie. Certo, diverso sarebbe se avessimo la possibilità di produrre quanto grano vogliamo, cioè di battere la nostra moneta. Ma ci siamo venduti pure la zecca, riempiendoci tuttavia di zecche.
 Ma, a sentire Mario Draghi, lo fanno per noi, sia chiaro: al FMI che chiedeva vincoli di bilancio meno stringenti per le economie in crisi, il presidente italiano (si fa per dire) della BCE ha risposto che casomai serve più austerity. Già, perché lo spread - secondo lui che ha studiato - ha ripreso a salire solo in quanto gli stati hanno smesso di fari i compiti. Cioè: siccome Italia e Spagna hanno visto il divario tra i rendimenti di Bonos e Btp sui Bund diminuire, si sono rilassati troppo e hanno rallentato sull’adozione delle misure. Allora i mercati li hanno puniti. Ma il Fiscal Compact va ratificato immediatamente da tutti, altrimenti lui non potrà più convincere la Merkel che la BCE debba aiutarci, immettendo nuova liquidità. Nuova liquidità per cosa, di grazia, mr. Draghi? Per fabbricare nuovi soldi da dare nuovamente alle banche che possano “ricapitalizzare” (come hanno fatto quelle italiane a spese nostre) acquistando altri titoli, ovvero indebitandoci nuovamente, magari a tassi anche maggiori, mentre in azienda i dirigenti si impiccano? Certo che sì, ormai il giochetto è più che evidente. La BCE fabbrica 1 miliardo, lo dà a Banca Intesa (semplificando) all’1% su base triennale. Banca Intesa ci compra 1 miliardo di titoli a tre anni al 5% (lavorando ancora un po’ di spread, ci si può arrivare, senza che l'inesistente opinione pubblica chieda la testa del liquidatore Monti), dopo tre anni restituisce un miliardo più 10 milioni alla BCE ma nel frattempo ha recuperato un miliardo e 50 milioni di euro dai titoli, prelevando dalle nostre tasche 40 milioni di euro piovuti dal cielo. Oddio, piovuti proprio dal cielo no: direi rapinati dai nostri conti con il meccanismo della tassa occulta. Ma, soprattutto, da quando ho finito le scuole non ho più avuto bisogno di nessuno che salisse in cattedra a dirmi se mi sto comportando bene o male: perché dovrei accettare che i mercati mi mettano in castigo, dietro la lavagna, se non faccio i compiti che loro stessi si inventano per tenermi occupato?
 Ma c’è di più: ve lo ricordate il MES? Sì, proprio il Meccanismo di Stabilità Europeo, quello che stiamo per ratificare (anche questo in rigoroso silenzio, che mica siamo irlandesi o francesi od olandesi, noi!) e che ci indebiterà immediatamente di 125 miliardi, di cui 15 da pagare immediatamente in tre anni? Ne ho parlato molto sul blog, a cominciare dal novembre scorso: seguite la ricerca. Bene: il MES era il famoso firewall di cui dobbiamo assolutamente dotarci per aiutare gli eventuali stati in difficoltà a risolvere la crisi, giusto? Quello che sarà governato da 17 super-tiranni (tra cui Mario Monti) che potranno aumentare il fondo (700 miliardi iniziali, già saliti a 800, cui partecipiamo al 17,9%) a loro insindacabile piacimento senza che nessuno Stato (sovrano?) possa opporsi, che godranno di impunità assoluta sulle loro scelte e i cui documenti saranno inviolabili. Bene, vediamo allora a cosa servirà, tutta questa impunità. Visto che in Italia ci occupiamo molto del costo delle auto blu e degli stipendi dei parlamentari ma non battiamo ciglio se ratifichiamo una cessione da 125 miliardi, che almeno questi servano a salvarci le italiche chiappe in caso di difficoltà! E invece no: vi avevo informato lo scorso 30 marzo che il vero scopo di questo buco nero finanziario, dove cade e scompare il Pil di un intero paese, è quello di ricapitalizzare le banche, altro che salvare gli stati. Bene, ora stanno già facendo pressione per utilizzarlo (prima ancora della sua ratifica) per ricapitalizzare le banche spagnole (Corriere di oggi, p.3). E poi ancora, a cascata, quelle italiane. Il MES è un fondo salva-banche che paghiamo noi, con il latte che non possiamo più permetterci di comprare a fine mese. Ecco perché i 17 tiranni devono essere impunibili: se no, qualora il popolo dovesse rendersene conto, li appenderebbe tutti a testa in giù.
 La Germania sta conducendo la terza guerra mondiale e la sta vincendo, con la complicità degli uomini della Trilaterale che hanno colonizzato le economie del sud Europa e, attraverso i mercati, le stanno distruggendo portando liquidità a Francoforte e a Berlino. La Deutsche Bank si è liberata di quantità industriali di titoli italiani, affossandoli e dando il via all’epopea dello spread, ottenendo così che gli investimenti defluissero tutti sui Bund a rendimenti pressoché nulli. L’EBA, l’autorità bancaria europea che ha sede a londra, ha condannato le banche italiane e spagnole alla ricapitalizzazione continua, distruggendo il loro valore tramite una semplice modifica alle normative.  La Merkel ha quindi imposto il pareggio di bilancio (eseguito dal soldatino Monti) imponendo con la forza l’austerity, che garantisce la recessione delle economie deboli e il mantenimento dei flussi di denaro verso la Germania, che diventa così sempre più forte e si prepara alle acquisizioni sul nostro territorio (è in corso di valutazione, per esempio, l’acquisizione di Poste Italiane).Mario Draghi è suo complice, invocando a sua volta l’austerity come finta condizione per poter strappare a Berlino il permesso di immettere nuova liquidità (da dare nuovamente alle banche).
 Per il resto, tutto bene.

Passaparola- Le guerre democratiche - Massimo Fini

lunedì 23 aprile 2012

Merkel: L'euro è più che mai in pericolo. E se fallisce l'euro fallisce l'Europa" - FinanzaInChiaro.it - Editoriali - Notizie - Borsa & Mercati

Merkel: L'euro è più che mai in pericolo. E se fallisce l'euro fallisce l'Europa" - FinanzaInChiaro.it - Editoriali - Notizie - Borsa & Mercati

Vogliamo un'Europa dei popoli e sovranità monetaria, questa europa e questa moneta non la vogliamo !

Stato sociale


Lo Stato sociale è una caratteristica dello Stato che si fonda sul principio di uguaglianza sostanziale, da cui deriva la finalità di ridurre ledisuguaglianze sociali. In senso ampio, per Stato sociale si indica anche il sistema normativo con il quale lo Stato traduce in atti concreti tale finalità; in questa accezione si parla di welfare state (stato assistenziale tradotto letteralmente dall'inglese).

Indice

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Caratteristiche [modifica]

Lo Stato sociale è una forma di Stato, che si propone di fornire e garantire diritti e servizi sociali, ad esempio:
Questi servizi gravano sui conti pubblici in quanto richiedono ingenti risorse finanziarie, le quali provengono in buona parte dal prelievo fiscaleche ha, nei Paesi democratici, un sistema di tassazione progressivo in cui l'imposta cresce più che proporzionalmente al crescere delreddito.

Origine dello stato sociale [modifica]

Lo Stato sociale nacque e si consolidò in Occidente durante il XIX ed il XX secolo, di pari passo con la storia della civiltà industriale. La sua evoluzione può essere suddivisa in tre fasi successive.
Una prima, elementare, forma di Stato sociale o più esattamente di Stato assistenziale. venne introdotta nel 1601 in Inghilterra con la promulgazione delle leggi sui poveri (Poor Law). Queste leggi prevedevano assistenza per i poveri nel caso in cui le famiglie non fossero in grado di provvedervi e, oltre ad avere in sé un palese contenuto filantropico, prendevano le mosse da considerazioni secondo cui riducendo il tasso di povertà, si riducevano i fenomeni negativi connessi come la criminalità.
La seconda fase, opera di monarchie costituzionali conservatrici o di pensatori liberali, si riconduce alla prima rivoluzione industriale ed allalegislazione inglese del 1834 (l’estensione al continente europeo avvenne solo nel periodo tra il 1885 ed il 1915). Anche in questo caso le forme assistenziali sono da ritenersi individuali e da intendersi rivolte unicamente agli appartenenti ad una classe sociale svantaggiata (minori, orfani, poveri ecc.) ed in questo contesto nacquero le prime assicurazioni sociali che garantivano i lavoratori nei confronti di incidenti sul lavoro, malattie e vecchiaia; in un primo momento queste erano su base volontaria, in seguito però divennero obbligatorie per tutti i lavoratori. Le motivazioni della svolta in questa fase furono la ricerca della pace sociale conciliando le rivendicazioni di maggior protezione da parte dei lavoratori proletari (di ceti medi possiamo parlare solo a partire dalla seconda rivoluzione industriale) e dalla richiesta di una manodopera a minor costo possibile da parte degli industriali. Sempre in Inghilterra, fu compiuto un ulteriore passo avanti con l'istituzione delle workhousecase di lavoro e accoglienza che si proponevano di combattere la disoccupazione e di tenere, così, basso il costo della manodopera. Tuttavia queste si trasformarono di fatto in luoghi di detenzione forzata; la permanenza in questi centri pubblici equivaleva alla perdita dei diritti civili e politici in cambio del ricevimento dell'assistenza governativa. Nel 1883 nacque, questa volta in Germania, l'assicurazione sociale, introdotta dal cancelliere Otto von Bismarck per favorire la riduzione della mortalità e degli infortuni nei luoghi di lavoro e per istituire una prima forma di previdenza sociale. Secondo alcuni studiosi fu proprio il "capitale" a spingere per i versamenti obbligatori dei propri operai, al fine di non doversi più accollare per intero il costo della sicurezza sociale dei lavoratori.
La terza fase, la fase dell'attuale welfare, ha inizio nel dopoguerra. Il 1942 fu l'anno in cui, nel Regno Unito, la sicurezza sociale compì un decisivo passo avanti grazie al cosiddetto Rapporto Beveridge, stilato dall'economista William Beveridge, che introdusse e definì i concetti disanità pubblica e pensione sociale per i cittadini. Tali proposte vennero attuate dal laburista Clement Attlee, divenuto Primo Ministro nel 1945. Fu la Svezia nel 1948 il primo paese ad introdurre la pensione popolare fondata sul diritto di nascita. Il welfare divenne così universale ed eguagliò i diritti civili e politici acquisiti, appunto, alla nascita. Nello stesso periodo l'economia conobbe una crescita esponenziale del PILmentre il neonato Stato sociale era alla base dell'incremento della spesa pubblica.
La situazione, a grandi linee, riuscì a mantenersi in sostanziale equilibrio per qualche decennio. Infatti nel periodo che va dagli anni cinquanta fino agli anni anni ottanta e anni novanta la spesa pubblica crebbe notevolmente, specialmente nei Paesi che adottarono una forma di welfare universale, ma la situazione rimase tutto sommato sotto controllo grazie alla contemporanea sostenuta crescita del Prodotto interno lordogeneralmente diffusa. Tuttavia negli anni ottanta e novanta i sistemi di welfare entrarono in crisi per ragioni economiche, politiche, sociali e culturali al punto che oggi si parla di una vera e propria crisi del Welfare State.[senza fonte]

Modelli di Stato assistenziale [modifica]

Il sociologo danese Gøsta Esping-Andersen, in The Three Worlds of Welfare Capitalism, ha introdotto una classificazione dei diversi sistemi di welfare state strutturata in tre tipologie riconoscibili in base alle loro diverse caratteristiche. Questa tripartizione è fondata sulle differenti origini dei diritti sociali che ogni Stato concede ai propri cittadini.

Regime liberale [modifica]

Il modello è detto di welfare "residuale". I diritti sociali derivano dalla dimostrazione dello stato di bisogno. Il sistema è fondato sulla precedenza ai poveri meritevoli (teoria della less eligibility) e sulla logica del "cavarsela da soli". Pertanto i servizi pubblici non vengono forniti indistintamente a tutti, ma solamente a chi è povero di risorse, previo accertamento dello status di bisogno; in virtù di questo, tale meccanismo viene spesso definito residuale, in quanto concernente una fascia di destinatari molto ristretta. Per gli altri individui, che costituiscono la maggior parte della società, tali servizi sono acquistabili sul mercato privato dei servizi. Quando l'incontro tra domanda e offerta non ha luogo, per l'eccessivo costo dei servizi e/o per l'insufficienza del reddito, si assiste al fallimento del mercato, cui pongono rimedio programmi destinati alle fasce di maggior rischio; negli Stati Uniti d'America, ad esempio, sono previsti organismi come il Medicaidper i poveri, il Medicare per gli anziani e l'AFDC per le madri sole.
Tale regime riflette una teoria politica secondo cui è utile ridurre al minimo l'impegno dello Stato, individualizzando i rischi sociali. Il risultato è un forte dualismo tra cittadini non bisognosi e cittadini assistiti.
Tale modello è tipico dei paesi anglosassoni: AustraliaNuova ZelandaCanadaGran Bretagna e Stati Uniti caratterizzato dalla predominanza del mercato.

Regime conservatore [modifica]

In questo modello (detto "particolaristico") i diritti derivano dalla professione esercitata: le prestazioni del welfare sono legate al possesso di determinati requisiti, in primo luogo l'esercitare un lavoro. In base al lavoro svolto si stipulano delle assicurazioni sociali obbligatorie che sono all’origine della copertura per i cittadini. I diritti sociali sono quindi collegati alla condizione del lavoratore. Questo è il modello tipico degli Stati dell’Europa continentale e meridionale, tra cui l’Italia (per determinati servizi). Una variante del modello particolaristico è il cosiddetto welfare aziendale che si è diffuso in alcuni Paesi occidentali ed in Giappone che si basa su contributi dei dipendenti e della stessa azienda che, nel caso in cui si possano prevedere utili nel lungo periodo (specie in caso di monopoli), possono rappresentare la parte principale del finanziamento dei servizi.

Regime socialdemocratico [modifica]

Il modello è detto "universalistico". I diritti derivano dalla cittadinanza: vi sono quindi dei servizi che vengono offerti a tutti i cittadini dello Stato senza nessuna differenza. Tale modello promuove l’uguaglianza di status passando così dal concetto di assicurazione sociale a quello di sicurezza sociale, fornendo un Welfare che si propone di garantire a tutta la popolazione degli standard di vita qualitativamente più elevati. Tale modello è tipico degli Stati dell’Europa del nord.

Nuovi modelli [modifica]

Di fronte alla crisi dello Stato sociale e dei ceti medi (visibili in questi anni) alcuni economisti sostengono la necessità di diminuire la spesa pubblica ed il prelievo fiscale, sostenendo allo stesso tempo nuove forme di socialità basate sulla gestione secondo economie di scala ed alto ricorso alle tecnologie informatiche dei servizi da erogare al cittadino. In questo modo i servizi risulterebbero più efficienti e meno costosi. Si sostiene allo stesso tempo l'idea di affidare (in tutto o in parte) a gestori privati, servizi come le pensioni (fondi pensione privati), la sanità e l'istruzione. Tuttavia i problemi di giustizia ed equità sociale, nonché il ridotto ruolo dello Stato nella redistribuzione della ricchezza, che deriverebbero da simili scelte, per molti non sono affatto trascurabili, specie alla luce dei risvolti dimostratisi nell'attuale crisi evidenziata nel 2008.

Bibliografia [modifica]

  • Giovanni Bianco, Sicurezza sociale nel diritto pubblico, in Digesto IV, disc.pubbl., Utet, Torino, 1998, XIV.
  • Giovanni Bianco, Costituzione economica e ordine pubblico economico, Utet, Torino,2008.
  • Gøsta Esping-Andersen. I fondamenti sociali delle economie postindustriali. Il Mulino, Bologna, 2000 ISBN 88-15-07837-1
  • Conti Fulvio - Gianni Silei. Breve Storia dello Stato Sociale. Carocci
  • Bruni L., Zamagni S.,(2004),Economia Civile, Bologna, Il Mulino.
  • Gaggi, Narduzzi, La fine del ceto medio e la nascita della società low cost, Einaudi, 2006
  • Prospettive per un nuovo Welfare, Reggiani T.,(2007).
  • a cura di Felice Roberto Pizzuti Rapporto sullo Stato Sociale 2010. La "grande crisi" del 2008 e il welfare state., Milano, Academia Universa Press.
  • L'operatore socio-sanitario nei servizi sociali di Alessandro Lussu e Beatrice Rovai.
  • Francesco Rimoli, Stato sociale, in Enciclopedia giuridica Treccani, Roma, 2004, XX.
  • Paolo Leon, Stato, Mercato e Collettività

Voci correlate [modifica]