La crisi economica investe anche la Chiesa ortodossa greca. Non tanto perché ne colpisce le rendite e gli assets, ma piuttosto per la rivolta popolare scoppiata, in tempi di austerity e sacrifici, proprio contro i vantaggi fiscali di cui gode la potente Chiesa ortodossa greca (la chiesa nazionale).
Il tam tam che sta investendo i vertici ecclesiastici, considerati dei “ricchi egoisti” è iniziato su Facebook: un pagina creata da alcuni giovani, che chiede “uguaglianza” e “il taglio dei privilegi”, ha raggiunto in poche ore oltre 100mila “amici”. Ne è nata ben presto una petizione per chiedere al governo una legge di iniziativa popolare che elimini tutti i benefici speciali, che rendono di fatto la Chiesa immune dall’impatto della recessione, oggi spettro per 11 milioni di cittadini.
Si parla di un’istituzione che detiene l’1,5% della azioni sella Banca Nazionale della Grecia, che è l’ente privato con maggiori possedimenti terrieri (seconda solo al demanio), che dà lavoro a migliaia di persone ma che, secondo gli osservatori, versa una quota di tasse irrisoria rispetto ai beni detenute.
Va detto che, prima della protesta pubblica, il “balletto Chiesa-stato” è durato alcuni mesi: in un primo tempo l’arcivescovo di Atene Ieronymos II, dopo un colloquio con il ministro delle Finanze ellenico, Evangelos Venizelos, aveva manifestato la disponibilità della Chiesa ortodossa a cedere parte del suo vasto patrimonio immobiliare per aiutare il paese a contrastare la crisi. Sembrava una mossa per condividere i sacrifici della popolazione. Ma, arrivati al punto di mettere in pratica le buone intenzioni, le proprietà della Chiesa ortodossa greca sono state escluse dalla lista dell’Ufficio per la valorizzazione della proprietà dello Stato, l’ente statale incaricato di attuare il programma delle privatizzazioni. Dunque, la Chiesa è uscita indenne dal piano.
Gli stipendi ai circa 9.000 preti attivi (oltre a quelli in pensione) continueranno ad essere pagati dallo Stato (con un esborso di 286 milioni di euro l’anno), mentre la nuova legge fiscale in preparazione dovrà avere il beneplacito ecclesiastico prima di giungere in Parlamento. Ieronymos e il ministro Venizelos hanno poi deciso, con un escamotage, di creare un ente speciale (in partnership stato-chiesa) per vendere parti esigue delle proprietà ecclesiastiche, destinando gli introiti a opere di beneficenza.
L’annuncio dell’esenzione, pur ammorbidita dal progetto futuribile di una limitata alienazione dei beni, per una fantomatica beneficenza (tutta da definire), ha scatenato la rivolta popolare. Che oggi investe le gerarchie e che ha trovato un sponda politica nell’ex ministro delle finanze Yannis Papantoniou.
Va detto che la Chiesa ortodossa in Grecia ha una antica storia di privilegi sul suo status, in un paese dove registra il 90% dei fedeli ed è costituzionalmente la “preferita”, unico gruppo religioso sostenuto finanziariamente dallo stato. E il Partito socialista del Premier George Papandreou, al governo ad Atene, non sembra volerne intaccare seriamente il potere, temendone la capacità di mobilitazione delle coscienze e dunque delle masse.
Anche perchè la Chiesa oggi respinge al mittente le accuse, rimarcando che nel 2010 il Santo Sinodo ha pagato all’erario la ragguardevole cifra di 1,3 milioni di euro. Il punto è che, attualmente, è impossibile controllare e stimare con precisione l’entità dei beni posseduti, in quanto ci si dovrebbe addentrare in un labirinto in cui ogni singola chiesa (che nel mondo ortodosso è autocefala) è responsabile per le tasse che paga. Le immense proprietà terriere, ricordano i leader religiosi, sono eredità del periodo della dominazione ottomana, quando i cittadini preferivano donarle alla Chiesa piuttosto che rischiare l’esproprio da parte di turchi. Ma oggi, mentre il paese soffre per disoccupazione galoppante, calo del potere di acquisto e nuove sacche di povertà, la giustificazione fa acqua. E un altro ex ministro delle Finanze, Sefanos Manos, reclama più trasparenza, invocando “un censimento indipendente delle proprietà ecclesiastiche”, chiedendo che, almeno per pagare i religiosi, si possano utilizzare le rendite relative a quei beni.
Proprio nell’autunno scorso, in messaggio distribuito in tutte le chiese, il sinodo della Chiesa ortodossa greca denunciava “la carenza di leadership e di senso etico” della classe dirigente, che “ha perso la propria indipendenza”. E bacchettava anche “un impoverimento morale della società, attirata solo dalla facile ricchezza e dal benessere”, esortando alla “solidarietà verso i bisognosi”.
Oggi, mentre la rabbia monta, quello che la chiesa potrebbe pagare, in questa fase difficile per la nazione, è un costo politico, di immagine, e di credibilità che potrebbe ferirla al cuore e generare un’emorragia di fedeli.
di Sonny Evangelista
Il tam tam che sta investendo i vertici ecclesiastici, considerati dei “ricchi egoisti” è iniziato su Facebook: un pagina creata da alcuni giovani, che chiede “uguaglianza” e “il taglio dei privilegi”, ha raggiunto in poche ore oltre 100mila “amici”. Ne è nata ben presto una petizione per chiedere al governo una legge di iniziativa popolare che elimini tutti i benefici speciali, che rendono di fatto la Chiesa immune dall’impatto della recessione, oggi spettro per 11 milioni di cittadini.
Si parla di un’istituzione che detiene l’1,5% della azioni sella Banca Nazionale della Grecia, che è l’ente privato con maggiori possedimenti terrieri (seconda solo al demanio), che dà lavoro a migliaia di persone ma che, secondo gli osservatori, versa una quota di tasse irrisoria rispetto ai beni detenute.
Va detto che, prima della protesta pubblica, il “balletto Chiesa-stato” è durato alcuni mesi: in un primo tempo l’arcivescovo di Atene Ieronymos II, dopo un colloquio con il ministro delle Finanze ellenico, Evangelos Venizelos, aveva manifestato la disponibilità della Chiesa ortodossa a cedere parte del suo vasto patrimonio immobiliare per aiutare il paese a contrastare la crisi. Sembrava una mossa per condividere i sacrifici della popolazione. Ma, arrivati al punto di mettere in pratica le buone intenzioni, le proprietà della Chiesa ortodossa greca sono state escluse dalla lista dell’Ufficio per la valorizzazione della proprietà dello Stato, l’ente statale incaricato di attuare il programma delle privatizzazioni. Dunque, la Chiesa è uscita indenne dal piano.
Gli stipendi ai circa 9.000 preti attivi (oltre a quelli in pensione) continueranno ad essere pagati dallo Stato (con un esborso di 286 milioni di euro l’anno), mentre la nuova legge fiscale in preparazione dovrà avere il beneplacito ecclesiastico prima di giungere in Parlamento. Ieronymos e il ministro Venizelos hanno poi deciso, con un escamotage, di creare un ente speciale (in partnership stato-chiesa) per vendere parti esigue delle proprietà ecclesiastiche, destinando gli introiti a opere di beneficenza.
L’annuncio dell’esenzione, pur ammorbidita dal progetto futuribile di una limitata alienazione dei beni, per una fantomatica beneficenza (tutta da definire), ha scatenato la rivolta popolare. Che oggi investe le gerarchie e che ha trovato un sponda politica nell’ex ministro delle finanze Yannis Papantoniou.
Va detto che la Chiesa ortodossa in Grecia ha una antica storia di privilegi sul suo status, in un paese dove registra il 90% dei fedeli ed è costituzionalmente la “preferita”, unico gruppo religioso sostenuto finanziariamente dallo stato. E il Partito socialista del Premier George Papandreou, al governo ad Atene, non sembra volerne intaccare seriamente il potere, temendone la capacità di mobilitazione delle coscienze e dunque delle masse.
Anche perchè la Chiesa oggi respinge al mittente le accuse, rimarcando che nel 2010 il Santo Sinodo ha pagato all’erario la ragguardevole cifra di 1,3 milioni di euro. Il punto è che, attualmente, è impossibile controllare e stimare con precisione l’entità dei beni posseduti, in quanto ci si dovrebbe addentrare in un labirinto in cui ogni singola chiesa (che nel mondo ortodosso è autocefala) è responsabile per le tasse che paga. Le immense proprietà terriere, ricordano i leader religiosi, sono eredità del periodo della dominazione ottomana, quando i cittadini preferivano donarle alla Chiesa piuttosto che rischiare l’esproprio da parte di turchi. Ma oggi, mentre il paese soffre per disoccupazione galoppante, calo del potere di acquisto e nuove sacche di povertà, la giustificazione fa acqua. E un altro ex ministro delle Finanze, Sefanos Manos, reclama più trasparenza, invocando “un censimento indipendente delle proprietà ecclesiastiche”, chiedendo che, almeno per pagare i religiosi, si possano utilizzare le rendite relative a quei beni.
Proprio nell’autunno scorso, in messaggio distribuito in tutte le chiese, il sinodo della Chiesa ortodossa greca denunciava “la carenza di leadership e di senso etico” della classe dirigente, che “ha perso la propria indipendenza”. E bacchettava anche “un impoverimento morale della società, attirata solo dalla facile ricchezza e dal benessere”, esortando alla “solidarietà verso i bisognosi”.
Oggi, mentre la rabbia monta, quello che la chiesa potrebbe pagare, in questa fase difficile per la nazione, è un costo politico, di immagine, e di credibilità che potrebbe ferirla al cuore e generare un’emorragia di fedeli.
di Sonny Evangelista
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