giovedì 29 settembre 2011
martedì 27 settembre 2011
lunedì 26 settembre 2011
domenica 25 settembre 2011
La strategia anglo-americana dietro le privatizzazioni in Italia: il saccheggio di un'economia nazionale
La strategia anglo-americana dietro le privatizzazioni in Italia: il saccheggio di un'economia nazionale
Documento diffuso dall'EIR e dal Movimento Solidarietà il 14 gennaio 1993
Il 2 giugno 1992, a pochi giorni dall'assassinio del giudice Giovanni Falcone, si verificava in tutta riservatezza un altro avvenimento che avrebbe avuto conseguenze molto profonde sul futuro del Paese. Il «Britannia», lo yacht della corona inglese, gettava l'ancora presso le nostre coste con a bordo alcuni nomi illustri del mondo finanziario e bancario inglese: dai rappresentanti della BZW, la ditta di brockeraggio della Barclay's, a quelli della Baring & Co. e della S.G. Warburg. A fare gli onori di casa era la stessa regina Elisabetta II d'Inghilterra. Erano venuti per ricevere alcuni esponenti di maggior conto del mondo imprenditoriale e bancario italiano: rappresentanti dell'ENI, dell'AGIP, Mario Draghi del ministero del Tesoro, Riccardo Gallo dell'IRI, Giovanni Bazoli dell'Ambroveneto, Antonio Pedone della Crediop, alti funzionari della Banca Commerciale e delle Generali, ed altri della Società Autostrade.
Si trattava di discutere i preparativi per liquidare, cedere a interessi privati multinazionali, alcuni dei patrimoni industriali e bancari più prestigiosi del nostro paese. Draghi avrebbe detto agli ospiti inglesi: “Stiamo per passare dalle parole ai fatti”. Da parte loro gli inglesi hanno assicurato che la City di Londra era pronta a svolgere un ruolo, ma le dimensioni del mercato borsistico italiano sono troppo minuscole per poter assorbire le grandi somme provenienti da queste privatizzazioni. Ergo: dovete venire a Londra, dove c'è il capitale necessario.
Fu poi affidato ai mass media, ed al nuovo governo Amato, il compito di trovare gli argomenti, parlare dell'urgente necessità di privatizzare per ridurre l'enorme deficit del bilancio. Al grande pubblico, sia il governo che i mass media hanno risparmiato la semplice verità che il “primo mobile” dietro tutto il dibattito sulle privatizzazioni è costituito dalle grandi case bancarie londinesi e newyorkesi. L'obiettivo è semplicemente quello di prendere il controllo di ogni aspetto della vita economica italiana sfruttando le numerose scuse di ingovernabilità, corruzione, partitocrazia, inefficienza, ecc.
Prima di esercitarci a calcolare quante lirette il ministero del Tesoro potrebbe ottenere dalla svendita dell'ENI, dell'IRI ecc., cerchiamo di mettere in luce i presupposti filosofici dei banchieri londinesi e dei loro associati newyorkesi della Goldman Sachs, Merrill Lynch e Salomon Brothers e dei loro sostenitori nel Fondo Monetario Internazionale, nell'OCSE e nel mondo dei mass media.
Queste grandi finanziarie di New York e Londra su cui si fonda il potere anglo-americano gestiscono il gioco della liberalizzazione dei mercati internazionali. Ne scrivono e riscrivono le regole per massimizzare di volta in volta i profitti. A Bruxelles contano su sir Leon Brittan, fratello del Samuel Brittan direttore del Financial Times. Fino al gennaio 1993 Leon Brittan è stato Commissario della CEE per la Politica di Concorrenza ed è l'autore delle regole bancarie ed assicurative che hanno favorito Londra, tanto criticate sia dalla Germania che dagli altri paesi membri della CEE. Sir Leon era un esponente del governo della Thatcher quando improvvisamente, nel gennaio del 1986, si dimise per andare a Bruxelles.
Nonostante le illusioni di grandeur, Parigi è un centro finanziario che non può tener testa alla prepotenza anglo-americana, e lo stesso discorso vale per i finanzieri di Francoforte, così come quelli del Sol Levante. Pur disponendo delle maggiori istituzioni bancarie e assicurative, il Giappone non è in grado di offrire una valida resistenza alle manipolazioni finanziarie anglo-americane.
La globalizzazione e il “Big Bang” londinese
La formula che gli anglo-americani tentano oggi di spacciare ai governi di tutto il mondo, convincerli cioè a svendere i patrimoni dello stato per ottenere qualche liquido con cui far fronte al dissesto del bilancio ed al tempo stesso “promuovere la competitività”, fu collaudata dalla finanza londinese alla fine del 1979, in particolare dalla N.M. Rothschild & Co., che coordinò la svendita generale per conto del governo della “Lady di Ferro”.
Così un ristretto gruppo di finanzieri ha dominato per quasi 12 anni l'economia inglese. Principalmente si tratta di esponenti della Società Mont Pelerin, come i consiglieri della Tatcher Karl Brunner, sir Alan Walters, lord Harris of High Cross ed altri ancora. La Società Mont Pelerin è stata presieduta internazionalmente fino a poco tempo fa dall'economista arciliberista Milton Friedman, ascoltatissimo dal Presidente Ronald Reagan.
Friedman è l'architetto della politica economica imposta al Cile dalla dittatura di Augusto Pinochet. Essa si riduce all'idea di tenere il governo fuori da ogni intervento e lasciare che gli interessi privati facciano il bello e cattivo tempo. Friedman fece scalpore quando propose che l'eroina e gli altri stupefacenti venissero considerati alla stregua di una “merce” normale, in modo da permettere al consumatore di “scegliere liberamente” se acquistarla o meno.
Sotto la rivoluzione “liberistica” imposta dalla Thatcher sono state messe all'asta le imprese migliori dell'Inghilterra, dalla British Petroleum alle compagnie del gas e dell'acqua, fino alla industria militare Vickers. Da quando la Thatcher è stata costretta ad andarsene vengono pian piano alla luce informazioni sempre più precise di come ad arricchirsi spudoratamente in quella “privatizzazione” furono principalmente gli amici della Lady di Ferro.
D'altro canto quel “collaudo” dimostra come non sia affatto vero che l'industria, una volta privatizzata, diventi più efficiente. Dopo 13 anni di thatcherismo, quella britannica è la più arretrata tra le grandi economie europee. Negli investimenti per la Ricerca e Sviluppo del settore macchine industriali ed automobile, l'Inghilterra è stata superata anche dall'Italia. L'essenza del “liberismo” thatcheriano è dare la priorità assoluta alla finanza, a scapito dello sviluppo industriale dell'economia nazionale.
Questa degenerazione britannica toccò il fondo nell'ottobre del 1986, quando il governo decretò la completa deregolamentazione finanziaria della City di Londra, che fu chiamata il “Big Bang”. Poco meno di un anno dopo, la borsa di Londra crollò insieme a tutte le altre, travolte dalla frenetica spirale di speculazioni e truffe da essa iniziata.
In Inghilterra il “problema” delle ditte di proprietà statale, come la British Leyland o la Jaguar, non era il fatto che esse fossero di proprietà dello stato, ma piuttosto che questo stato, amministrato dal governo della Thatcher, non volle impegnarsi in una oculata politica di pianificazione degli investimenti industriali, cosa caratteristica ad esempio del MITI in Giappone, perché quel governo esprimeva gli interessi dell'alta finanza e non quelli delle capacità produttive del paese.
Oggi però dovrebbe essere chiaro anche ai non addetti che la deregolamentazione finanziaria londinese ha inesorabilmente portato alla rovina economica nazionale. L'Inghilterra versa nella peggiore crisi economica dagli anni Trenta, con la disoccupazione che è tornata ai livelli del 1979, quando si insediò la Thatcher. Il deficit del bilancio lievita ad un tasso annuale del 7% del PNL. Però, contrariamente alla situazione del 1979, oggi il governo britannico non dispone più di una propria base industriale con cui mettere in moto tutta una serie di investimenti nel settore industriale.
Ma, a prescindere dal saccheggio compiuto da sir Jimmy Goldsmith, Jacob Rothschild, lord Hanson e compagnia dietro il paravento del “liberismo ad oltranza”, la privatizzazione decisa della Thatcher va collocata nel contesto della strategia anglo-americana per aprire altre regioni economiche a forme molto sofisticate di saccheggio neo-coloniale, perpetrato con la “mano invisibile” tanto cara alle teorie liberistiche. Questa “mano invisibile” anglo-americana regola i meccanismi di fusioni ed acquisizioni operate da altri governi nella misura in cui questi sono così stupidi e sprovveduti da richiedere e pagare profumatamente “consulenze finanziarie” proprio a quella cricca di finanzieri.
Alla fine degli anni Settanta, quando a Londra la Thatcher cominciò lo scontro col sindacato per ridurre i salari e cominciò a svendere le imprese statali ai suoi amici, a Wall Street gente come Donald Regan, presidente della Merrill Lynch, e Walter Wriston, capo della Citicorp, si impegnarono a lanciare una “rivoluzione finanziaria” sulla stessa falsariga che in America fu chiamata “deregolamentazione dei mercati finanziari”.
Quando Ronald Reagan diventò presidente nel 1981, e prestò ascolto a Milton Friedman, la deregulation fece innumerevoli proseliti a Washington. Nei 12 anni che seguirono, fino alla sconfitta di George Bush nel novembre del 1992, Washington voltò le spalle ad una ben dosata politica di supervisione e regolamentazione governativa di attività particolarmente importanti come quella delle compagnie aree e degli autotrasporti, per non parlare dell'economia in generale. Le leggi che erano state escogitate negli anni della Grande Depressione per proteggere la proprietà di piccoli risparmiatori e azionisti furono abrogate o ignorate negli anni Ottanta per fare spazio alla “legge del Far West” che prevede la sopravvivenza del più cattivo.
Negli anni ruggenti della deregulation la filosofia negli USA era “tutto è ammesso, dillo con i soldi”. Così al crimine organizzato fu permesso di reinvestire i proventi illeciti nei regolari flussi finanziari, per poterli così usare nelle scalate speculative a Wall Street condotte da gente come Mike Milken, Ivan Boesky ed altri. Grazie al proliferare delle “obbligazioni spazzatura”, o altre tecniche speculative, si potevano acquisire imprese sane i cui nuovi proprietari trascuravano la politica di sviluppo a lungo termine su cui cresceva l'impresa, cercando solo di realizzare profitti a breve termine. Fu così che la TWA Airlines finì in mano a Carl Icahn, uno speculatore della banca Drexel.
In questi anni Ottanta, i principali istituti finanziari di Londra e New York, come la S.G. Warburg, la Barclays, la Midland Bank, la Citicorp, la Chase Manhattan, la Goldman Sachs, la Merrill Lynch, la Salomon Bros., lanciarono la “globalizzazione dei mercati finanziari”. Il presupposto di partenza era che se tutti i paesi avessero abolito i controlli sui flussi di capitali ed altri meccanismi, la nuova finanza anglo-americana avrebbe potuto accedere a nuovi, grandi spazi economici, altamente profittevoli. I grandi nomi della finanza erano alla caccia di nuovi organismi sani su cui esercitare la propria distruttiva opera parassitaria, e così sedussero molti ambienti bancari, sia europei che giapponesi, a rinunciare alla naturale diffidenza per unirsi al gioco speculativo anglo-americano e “vincere”.
Uno dei sofismi utilizzati a questo proposito era quello che descriveva il sistema finanziario del paese preso di mira come “superato”, “obsoleto”, “non abbastanza dinamico”; insomma, da riformare per promuovere la nuova ondata di finanza creativa. Così l'intera Europa fu accusata di soffrire di “Eurosclerosi”. Tutti i trucchi sono buoni per costringere le economie nazionali a sollevare le barriere protettive e permettere alla finanza anglo-americana di dilagare su ciò che essa definiva mercati “arretrati” o “provinciali” e sfruttare la maggiore scaltrezza finanziaria per saccheggiarli.
La grande speculazione e la finanza angloamericana
Il vero e proprio inizio di questa dissennata corsa alla deregulation e alla “globalizzazione” dei mercati finanziari in stile thatcheriano, a cui assistiamo attualmente in Italia, risale alla fine degli anni '60, inizio anni '70. A partire da quel periodo, le grandi banche internazionali americane, come la Chase Manhattan e la Citicorp, iniziarono a cercare nuovi impieghi del capitale che fruttassero alti profitti, in quanto gli investimenti nell'economia interna americana non erano così profittevoli come quelli all'estero. Nel 1971, decine di miliardi di dollari avevano già abbandonato gli Stati Uniti ed erano approdati in Europa. L'astuto Sir Siegmund Warburg, presidente della omonima e celebre banca britannica (la stessa a cui il ministro del Tesoro Barucci si è recentemente rivolto per stimare il valore immobiliare dell'IMI), si recò allora a Washington per convincere il Tesoro e il Dipartimento di Stato USA a far rimanere all'estero quei capitali, in modo che Londra potesse usarli per ripristinare il ruolo di “banchiere mondiale” che la City aveva svolto fino al 1914. E' ironico che il primo prestito in “Eurobbligazioni” sottoscritto da Siegmund Warburg fosse quello di 15 milioni di dollari lanciato dalla Società Autostrade dell'IRI.
La vera trovata di Warburg fu però l'uso dei dollari espatriati in Europa, i cosiddetti “Eurodollari”, che si rivelarono l'innovazione finanziaria più destabilizzante degli anni settanta. Il Presidente Nixon, seguendo il consiglio di George Shultz e Paul Volcker, annunciò il 15 agosto 1971 che da quel momento in poi Washington e la Federal Reserve, la banca centrale USA, si sarebbero rifiutate di riscattare in oro i dollari posseduti dalle altre banche centrali. Washington stracciò, con atto unilaterale, gli accordi di Bretton Woods del 1944 che stabilivano l'ordine monetario postbellico. Di colpo, il mondo si ritrovò ostaggio di un regime di “tassi di cambio fluttuanti” che trasformò il sistema monetario basato sul dollaro in una gigantesca arena speculativa.
Nel maggio 1973, sei mesi prima che scoppiasse la “crisi petrolifera”, l'oligarchia politico-finanziaria angloamericana si riunì segretamente nella località svedese di Saltsjoebaden per discutere la fase successiva del “ricatto” esercitato per mezzo del dollaro sull'economia mondiale. Tra gli ospiti di quel ristretto gruppo di potenti, riuniti sotto l'egida del Club Bilderberg, c'era il Presidente della FIAT Gianni Agnelli. Si discusse che bisognava persuadere l'OPEC ad aumentare il prezzo del petrolio del 400%. Dato che dal 1945 il petrolio si acquistava solo con dollari, la mossa avrebbe automaticamente quadruplicato la domanda di dollari sul mercato internazionale.
Henry Kissinger, un altro ospite della riunione segreta del Bilderberg, battezzò l'idea col nome di “riciclaggio dei petrodollari”. I suoi interlocutori, come Lord Richardson della British Petroleum, Robert O. Anderson dell'americana Atlantic Ritchfield Corporation (ARCO) o lo svedese Marcus Wallenberg, non erano interessati a discutere come impedire i catastrofici effetti sull'economia mondiale derivanti da un quadruplicamento del prezzo del petrolio, ma, piuttosto, l'intera discussione in quella sperduta località della Svezia ruotò attorno all'idea di come assicurare che poche, scelte banche americane controllassero la nuova ricchezza dei “petrodollari” in mano araba. Si trattava quindi di come aumentare il potere nelle mani delle banche di Londra e New York, del cartello petrolifero e dei loro amici europei, alle spese del resto del mondo.
Negli anni '80, dopo due crisi petrolifere e l'equivalente shock della stretta creditizia pilotata da Paul Volcker alla guida della Federal Reserve (1979-1982), la deregulation finanziaria di Thatcher e Reagan creò, nel contesto di un valore “fluttuante” del dollaro e del riciclaggio di prestiti in petrodollari che rifinanziavano il deficit dei paesi del Terzo Mondo, la cornice per un nuovo riciclaggio, quello dei narco-dollari. La liberalizzazione delle tran-
sazioni finanziarie in Europa e negli Stati Uniti negli ultimi dieci anni è servita infatti ad aprire le porte al riciclaggio dei proventi illeciti della droga, che nel 1990 si stimava in un valore tra i 600 e i 1000 miliardi di dollari.
La Lugano connection
A questo punto occorre dedicare qualche riga alle finanziarie di Wall Street che svolgono un ruolo decisivo nella “privatizzazione” delle imprese pubbliche italiane. Sono tre le ditte impiegate all'uopo come “consulenti” del governo Amato: Goldman Sachs, Merrill Lynch e Salomon Brothers. Lo stesso ministro dell'Industria Giuseppe Guarino, contrario a una “svendita” del patrimonio industriale raccolto nelle ex Partecipazioni Statali, sembra riporre fiducia in queste tre finanziarie, i cui dirigenti incontrò il 17 settembre scorso nel corso di un viaggio a New York.
Sono molti attualmente a ritenere la Goldman Sachs la più potente finanziaria di Wall Street, posizione conquistata almeno a partire dal 1991, quando scoppiarono gli scandali di “insider trading” che la coinvolgevano assieme alla Salomon Brothers. Il presidente della Goldman Sachs, Robert Rubin, sarà il capo del Consiglio per la Sicurezza Nazionale del Presidente Clinton. Quel posto dovrà essere un “ufficio di guerra economica” in stile britannico, per fronteggiare quelli che l'ex capo della CIA William Webster chiamò “gli alleati politici e militari dell'America che sono i suoi rivali economici”. Rubin non è il primo dirigente della Goldman Sachs che ricopre una carica nel governo americano. Prima di lui l'attuale vicepresidente, Robert Hormats, fu consigliere di Henry Kissinger al Dipartimento di Stato e un altro “senior partner”, John Whitehead, fu sottosegretario di Stato con Ronald Reagan. La Goldman Sachs é uno dei più influenti manipolatori del prezzo del petrolio e del valore delle monete, che determina tramite la sussidiaria J. Aron & CO., che opera sul mercato delle merci e dei “futures”. La Goldman Sachs ha rafforzato la sua presenza in Italia aprendo nel 1992 un “ufficio operativo” a Milano. Più avanti vedremo il ruolo cruciale che essa ha svolto nella crisi della lira e nella partita delle privatizzazioni.
La Salomon Brothers domina, assieme alla Goldman Sachs, il commercio di greggio mondiale. La Salomon possiede anche la svizzera Phibro (Philipp Brothers), che opera nel settore delle materie prime. Nel 1989 la Phibro fu coinvolta in un caso di riciclaggio di milioni di dollari ricavati dalla vendita di cocaina negli Stati Uniti. I soldi venivano riciclati dalla banda chiamata “La Mina”, che lavorava per il cartello della coca colombiano, nella Phibro Precious Metal Certificates.
Dopo gli scandali di “insider trading” e speculazione su Buoni del Tesoro USA scoppiati nel 1991, a cui abbiamo accennato sopra, ci fu un completo rinnovo dei vertici della finanziaria. Il nuovo presidente, attuale azionista di maggioranza, è Warren Buffett, originario di Omaha, Nebraska. Buffett, oltre ad essere amico intimo di George Bush, è anche il principale azionista del Washington Post e della rete televisiva ABC. Egli possiede vasti interessi anche nell'American Express (del cui consiglio di amministrazione fa parte Henry Kissinger) e nella Wells Fargo Bank. Lo stesso Buffett si dice sia implicato in uno scandalo di pedofili del Nebraska che facevano capo, fino alla fine degli anni '80, al finanziere repubblicano Larry King, della banca Franklin Credit Union. Buffett era il patrocinatore e il sostenitore di King. La Warren Buffett Foundation, la fondazione intestata a suo nome, finanzia cause antidemografiche, come quelle lanciate da organizzazioni americane come Negative Population Growth, Planned Parenthood, l'Associazione per la Sterilizzazione Volontaria e il Population Council.
La Merrill Lynch è famosa per il ruolo che svolse in una sensazionale operazione di riciclaggio del denaro tra l'Italia, la costa orientale degli Stati Uniti e Lugano. Si tratta della “Pizza connection”, che portò al processo in cui la famiglia mafiosa newyorchese dei Bonanno fu accusata di aver riciclato circa 3,5 miliardi di dollari fino a quando fu arrestata, nel 1984. I Bonanno avevano usato, per i loro traffici, la sede centrale di New York e gli uffici di Lugano della Merrill Lynch. L'aspetto più sconcertante del processo sulla “Pizza connection” in Svizzera e a New York è che essi ignorarono completamente la complicità dei vertici della Merrill Lynch. All'epoca del processo il ministro del Tesoro americano, responsabile per le ispezioni sul riciclaggio del denaro, era l'ex presidente della Merrill Lynch Donald Regan. Il processo si concluse con alcune multe nei confronti di funzionari minori della sede luganese della finanziaria americana, e la storia finì lì. Come è noto, la Merrill Lynch é stata incaricata dall'IRI, il 9 ottobre scorso, di preparare la privatizzazione del Credito Italiano.
Abbiamo fin qui identificato alcuni fatti poco noti che riguardano le tre finanziarie di Wall Street chiamate a svolgere un ruolo decisivo nella valutazione e nella stessa privatizzazione delle imprese pubbliche italiane. Queste finanziarie accedono a dati di grande importanza e delicatezza che riguardano alcune delle più valide imprese europee e si posizionano in assoluto vantaggio come “consiglieri per la privatizzazione”. Naturalmente, tutto secondo una rigida etica professionale e senza conflitti di interesse!
Moody e la guerra della lira
Quasi in contemporanea con la nomina del governo Amato, l'agenzia di “rating” newyorchese Moody's annunciò, con la sorpresa di molti, che avrebbe retrocesso l'Italia in serie C dal punto di vista della credibilità finanziaria. Questo, senza che le cifre del debito italiano fossero cambiate drasticamente (la tendenza al deficit era nota almeno da due anni) e senza alcun rischio di insolvenza da parte dello stato. La giustificazione di Moody's fu che il nuovo governo non dava sufficienti garanzie di voler apportare seri tagli al bilancio dello stato. Negli ambienti finanziari internazionali, Moody's è famosa perchè usa come arma “politica” la sua valutazione di rischio, tale che beneficia interessi angloamericani a svantaggio di banche rivali o, come nel caso dell'Italia, di intere nazioni. Il presidente della Moody's, John Bohn, ha ricoperto un'alta carica nel ministero del Tesoro USA sotto George Bush.
La mossa di Moody's costrinse il governo Amato ad alzare i tassi d'interesse sui BOT per non perdere gli investitori. Essa segnalò anche l'inizio di una guerra finanziaria contro la lira. Secondo fonti ben informate, i più aggressivi speculatori contro la lira, nell'attacco del luglio scorso, furono la Goldman Sachs e la S.G. Warburg di Londra. Ribadiamo che la speculazione ebbe un movente principalmente politico, non finanziario, e che, purtroppo, ebbe successo. L'Italia fu costretta ad abbandonare lo SME e il governo varò un piano di tagli e annunciate privatizzazioni per ridurre il deficit.
Ciò che Amato non ha mai detto è che la svalutazione della lira nei confronti del dollaro ha dato agli avventurieri della Goldman Sachs e delle altre finanziarie di Wall Street un grande “vantaggio”. Calcolato in dollari, l'acquisto delle imprese da privatizzare è diventato, per gli acquirenti americani, circa il 30% meno costoso. Lentamente, specialmente dopo l'ultimo attacco speculativo dell'inizio dell'anno, la lira si va assestando sul valore “politico” di circa 1000 lire a marco, esattamente il valore indicato dalla Goldman Sachs nel luglio scorso come “valore reale” della moneta italiana.
Come mai questa “coincidenza”? Come mai la finanziaria newyorchese ha appena aperto un ufficio operativo in un paese che secondo i suoi criteri sprofonda nella crisi? Come mai un economista come Romano Prodi, “senior adviser” della Goldman Sachs, suggerisce di privatizzare alla grande, vendendo tutte e tre le banche d'interesse nazionale (Banca Commerciale, Credito italiano, Banca di Roma), più il San Paolo di Torino, il Monte dei Paschi di Siena e l'Ina (Convegno presso l'Assolombarda il 30 settembre 1992)?
Lo stesso Prodi, che nel passato è stato a capo dell'IRI, oggi sembra aver sposato completamente la causa neoliberista angloamericana, tanto da aver proposto, a metà novembre, che l'Europa applichi verso i paesi dell'est una politica simile a quella dell'accordo di libero scambio siglato tra Stati Uniti, Messico e Canada (NAFTA). Un tale trattato darebbe il via libera alle grandi imprese per trasferire le loro attività all'est, dove la forza lavoro costa meno (è quanto è avvenuto ai confini tra Stati Uniti e Messico). Ciò aggraverebbe la crisi all'ovest e condurrebbe, nel medio-lungo termine, ad un abbassamento della produttività anche all'est, dato che la manodopera sottopagata è anche meno qualificata.
Il governo italiano deve scartare una simile politica, così come deve abbandonare il circolo vizioso dei tassi d'interesse alti che, per difendere la moneta, alimentano lo stesso deficit che si dichiara di voler combattere. Tra il giugno e il settembre scorso, i tassi sono aumentati paurosamente, da circa l'11% al 20% prima che la lira abbandonasse lo SME. Tuttora la Banca d'Italia mantiene il tasso d'interesse al 13%. Tenuto conto che ogni punto di aumento degli interessi si traduce in 15.000 miliardi in più sul debito dello stato a breve termine, il governo italiano è stato messo alle corde dagli speculatori angloamericani (e dai loro complici italiani) aumentando la pressione per privatizzare a prezzi di svendita.
Andando avanti su questa strada, l'Italia commetterà un suicidio economico. La sola via d'uscita è l'adozione di una politica creditizia nazionale del tipo che ai tempi di Enrico Mattei si sarebbe considerata ovvia. Occorre ripristinare il controllo sui cambi, congelare una parte del debito con una moratoria di 10-15 anni (salvaguardando naturalmente gli interessi dei piccoli risparmiatori), parallelamente all'avvio di una aggressiva politica di investimenti, favorita da crediti agevolati, nelle infrastrutture moderne, in concerto con i partners europei. Per far ciò, occorre che lo stato si riappropri della piena sovranità monetaria, il che significa che per finanziare gli investimenti esso non debba bussare alla porta della Banca d'Italia, la quale ha finora, incostituzionalmente, battuto moneta a nome dello stato per poi rivendergliela a tassi “di mercato”, cioè da usura. I motivi che hanno portato al “divorzio” tra il Tesoro e la Banca d'Italia, e cioè l'improduttivo finanziamento del debito, esistono, ma combattere il malgoverno non significa eliminare il governo. Perciò occorre porre fine al “divorzio” tra Bankitalia e Tesoro.
Una efficace repressione dell'attività di riciclaggio del denaro da parte della mafia, compreso quello investito nei BOT, accompagnata da un astuto cambio della moneta (la famosa “lira pesante”), darebbe alle istituzioni dello stato una posizione di forza e la credibilità e la fiducia popolare. L'alternativa è il caos e la guerra civile.
Il ruolo della Lega nel piano delle privatizzazioni
Un capitolo a parte merita il ruolo svolto dalla Lega Nord nella strategia anglo-americana di saccheggio dell'economia italiana. La Lega Nord, infatti, con la sua politica liberista radicale, è lo strumento politico ideale per realizzare gli obiettivi angloamericani. La Lega propone la privatizzazione di ogni attività economica in mano allo stato, dall'energia ai trasporti, dalle industrie di difesa alla Rai. Se si realizzasse la politica della Lega, non occorrerebbe sancire la secessione del Nord dal Sud (e infatti Bossi ha abbandonato il progetto di “Repubblica del Nord”, definendola una “provocazione”), in quanto la Repubblica italiana si frantumerebbe da sé. Allo stato centrale, infatti, secondo i leghisti, resterebbero solo i poteri di battere moneta, di difesa e di politica estera. Ma, poichè il primo è saldamente nelle mani della Banca d'Italia e il secondo, come gli stessi leghisti affermano, sarà delegato a strutture sovrannazionali nell'ambito dei nuovi scenari di guerre Nord-Sud, lo stato nazionale italiano sará una vuota carcassa.
Ecco perché la Lega è stata appoggiata dai media che fanno capo alla City di Londra (Economist, Financial Times) e a Wall Street (Wall Street Journal, Time). E' difficile scoprire diretti legami tra questi centri finanziari internazionali e la Lega, anche se si può ipotizzare l'esistenza di contatti nell'ambito di canali massonici. Certamente si nota una straordinaria coincidenza tra l'ideologia leghista e i programmi sviluppati da certi centri studi. Un esempio: la trasformazione dell'Italia in “macroregioni” è una politica ufficialmente promossa dalla Fondazione Agnelli, che alla fine del 1990 avviò un progetto chiamato “Padania”, poi presentato in un convegno tenutosi a Torino l'11 e il 12 giugno 1992, con la partecipazione dell'ideologo della Lega, Gianfranco Miglio. Scopo del convegno fu quello di discutere “soluzioni specifiche, procedurali e/o istituzionali” per l'autonomia amministrativa della “macroregione” Padania, allo scopo di valorizzarne le risorse con “opportune competenze di governo”. Al di là del linguaggio formale, è chiaro che la Fondazione Agnelli promuove il progetto leghista. La Fondazione Agnelli, come è noto, fa capo alla famiglia Agnelli, legata a Enrico Cuccia, il “garante” degli equilibri economico-finanziari tra le grandi famiglie italiane e i centri di potere internazionali, ai quali è collegato tramite la banca Lazard.
Checché ne dica Bossi, egli si sta muovendo esattamente verso la distruzione dello stato nazionale, obiettivo ben chiaro nelle strategie dei suoi sponsor internazionali. Lo stesso organo della Lega, Repubblica del Nord, ha pubblicato il 21 ottobre 1992 uno studio promosso dalla “Associazione Americana di Geografia” (che dovrebbe essere la National Geographic Society, un'istituzione che fa capo a diversi servizi di intelligence USA), la quale prevede entro sei anni la divisione dell'Italia in cinque repubbliche, Nord, Centro, Sud e le isole. Un progetto coerente col disegno leghista, tanto che l'organo del partito di Bossi se ne compiace, e con quello attribuito alla Mafia di cui ha parlato, in una udienza presso la Commissione Parlamentare Antimafia, il pentito Leonardo Messina.
C'è di più: da Lombardia Autonomista del 29 luglio 1992 apprendiamo che la rivista americana Telos, diretta da Paul Piccone, giudica il modello leghista “generalizzabile a tutta Europa”. Piccone è noto per aver appoggiato le Brigate Rosse negli anni caldi del terrorismo italiano, sempre dalle colonne della rivista Telos, che a quel tempo era il punto di riferimento della sinistra “marxista” americana. Una costante, quindi, il sostegno alla destabilizzazione, condotto con un modus operandi che corrisponde alle classiche “covert operations” della CIA.
Documento diffuso dall'EIR e dal Movimento Solidarietà il 14 gennaio 1993
Il 2 giugno 1992, a pochi giorni dall'assassinio del giudice Giovanni Falcone, si verificava in tutta riservatezza un altro avvenimento che avrebbe avuto conseguenze molto profonde sul futuro del Paese. Il «Britannia», lo yacht della corona inglese, gettava l'ancora presso le nostre coste con a bordo alcuni nomi illustri del mondo finanziario e bancario inglese: dai rappresentanti della BZW, la ditta di brockeraggio della Barclay's, a quelli della Baring & Co. e della S.G. Warburg. A fare gli onori di casa era la stessa regina Elisabetta II d'Inghilterra. Erano venuti per ricevere alcuni esponenti di maggior conto del mondo imprenditoriale e bancario italiano: rappresentanti dell'ENI, dell'AGIP, Mario Draghi del ministero del Tesoro, Riccardo Gallo dell'IRI, Giovanni Bazoli dell'Ambroveneto, Antonio Pedone della Crediop, alti funzionari della Banca Commerciale e delle Generali, ed altri della Società Autostrade.
Si trattava di discutere i preparativi per liquidare, cedere a interessi privati multinazionali, alcuni dei patrimoni industriali e bancari più prestigiosi del nostro paese. Draghi avrebbe detto agli ospiti inglesi: “Stiamo per passare dalle parole ai fatti”. Da parte loro gli inglesi hanno assicurato che la City di Londra era pronta a svolgere un ruolo, ma le dimensioni del mercato borsistico italiano sono troppo minuscole per poter assorbire le grandi somme provenienti da queste privatizzazioni. Ergo: dovete venire a Londra, dove c'è il capitale necessario.
Fu poi affidato ai mass media, ed al nuovo governo Amato, il compito di trovare gli argomenti, parlare dell'urgente necessità di privatizzare per ridurre l'enorme deficit del bilancio. Al grande pubblico, sia il governo che i mass media hanno risparmiato la semplice verità che il “primo mobile” dietro tutto il dibattito sulle privatizzazioni è costituito dalle grandi case bancarie londinesi e newyorkesi. L'obiettivo è semplicemente quello di prendere il controllo di ogni aspetto della vita economica italiana sfruttando le numerose scuse di ingovernabilità, corruzione, partitocrazia, inefficienza, ecc.
Prima di esercitarci a calcolare quante lirette il ministero del Tesoro potrebbe ottenere dalla svendita dell'ENI, dell'IRI ecc., cerchiamo di mettere in luce i presupposti filosofici dei banchieri londinesi e dei loro associati newyorkesi della Goldman Sachs, Merrill Lynch e Salomon Brothers e dei loro sostenitori nel Fondo Monetario Internazionale, nell'OCSE e nel mondo dei mass media.
Queste grandi finanziarie di New York e Londra su cui si fonda il potere anglo-americano gestiscono il gioco della liberalizzazione dei mercati internazionali. Ne scrivono e riscrivono le regole per massimizzare di volta in volta i profitti. A Bruxelles contano su sir Leon Brittan, fratello del Samuel Brittan direttore del Financial Times. Fino al gennaio 1993 Leon Brittan è stato Commissario della CEE per la Politica di Concorrenza ed è l'autore delle regole bancarie ed assicurative che hanno favorito Londra, tanto criticate sia dalla Germania che dagli altri paesi membri della CEE. Sir Leon era un esponente del governo della Thatcher quando improvvisamente, nel gennaio del 1986, si dimise per andare a Bruxelles.
Nonostante le illusioni di grandeur, Parigi è un centro finanziario che non può tener testa alla prepotenza anglo-americana, e lo stesso discorso vale per i finanzieri di Francoforte, così come quelli del Sol Levante. Pur disponendo delle maggiori istituzioni bancarie e assicurative, il Giappone non è in grado di offrire una valida resistenza alle manipolazioni finanziarie anglo-americane.
La globalizzazione e il “Big Bang” londinese
La formula che gli anglo-americani tentano oggi di spacciare ai governi di tutto il mondo, convincerli cioè a svendere i patrimoni dello stato per ottenere qualche liquido con cui far fronte al dissesto del bilancio ed al tempo stesso “promuovere la competitività”, fu collaudata dalla finanza londinese alla fine del 1979, in particolare dalla N.M. Rothschild & Co., che coordinò la svendita generale per conto del governo della “Lady di Ferro”.
Così un ristretto gruppo di finanzieri ha dominato per quasi 12 anni l'economia inglese. Principalmente si tratta di esponenti della Società Mont Pelerin, come i consiglieri della Tatcher Karl Brunner, sir Alan Walters, lord Harris of High Cross ed altri ancora. La Società Mont Pelerin è stata presieduta internazionalmente fino a poco tempo fa dall'economista arciliberista Milton Friedman, ascoltatissimo dal Presidente Ronald Reagan.
Friedman è l'architetto della politica economica imposta al Cile dalla dittatura di Augusto Pinochet. Essa si riduce all'idea di tenere il governo fuori da ogni intervento e lasciare che gli interessi privati facciano il bello e cattivo tempo. Friedman fece scalpore quando propose che l'eroina e gli altri stupefacenti venissero considerati alla stregua di una “merce” normale, in modo da permettere al consumatore di “scegliere liberamente” se acquistarla o meno.
Sotto la rivoluzione “liberistica” imposta dalla Thatcher sono state messe all'asta le imprese migliori dell'Inghilterra, dalla British Petroleum alle compagnie del gas e dell'acqua, fino alla industria militare Vickers. Da quando la Thatcher è stata costretta ad andarsene vengono pian piano alla luce informazioni sempre più precise di come ad arricchirsi spudoratamente in quella “privatizzazione” furono principalmente gli amici della Lady di Ferro.
D'altro canto quel “collaudo” dimostra come non sia affatto vero che l'industria, una volta privatizzata, diventi più efficiente. Dopo 13 anni di thatcherismo, quella britannica è la più arretrata tra le grandi economie europee. Negli investimenti per la Ricerca e Sviluppo del settore macchine industriali ed automobile, l'Inghilterra è stata superata anche dall'Italia. L'essenza del “liberismo” thatcheriano è dare la priorità assoluta alla finanza, a scapito dello sviluppo industriale dell'economia nazionale.
Questa degenerazione britannica toccò il fondo nell'ottobre del 1986, quando il governo decretò la completa deregolamentazione finanziaria della City di Londra, che fu chiamata il “Big Bang”. Poco meno di un anno dopo, la borsa di Londra crollò insieme a tutte le altre, travolte dalla frenetica spirale di speculazioni e truffe da essa iniziata.
In Inghilterra il “problema” delle ditte di proprietà statale, come la British Leyland o la Jaguar, non era il fatto che esse fossero di proprietà dello stato, ma piuttosto che questo stato, amministrato dal governo della Thatcher, non volle impegnarsi in una oculata politica di pianificazione degli investimenti industriali, cosa caratteristica ad esempio del MITI in Giappone, perché quel governo esprimeva gli interessi dell'alta finanza e non quelli delle capacità produttive del paese.
Oggi però dovrebbe essere chiaro anche ai non addetti che la deregolamentazione finanziaria londinese ha inesorabilmente portato alla rovina economica nazionale. L'Inghilterra versa nella peggiore crisi economica dagli anni Trenta, con la disoccupazione che è tornata ai livelli del 1979, quando si insediò la Thatcher. Il deficit del bilancio lievita ad un tasso annuale del 7% del PNL. Però, contrariamente alla situazione del 1979, oggi il governo britannico non dispone più di una propria base industriale con cui mettere in moto tutta una serie di investimenti nel settore industriale.
Ma, a prescindere dal saccheggio compiuto da sir Jimmy Goldsmith, Jacob Rothschild, lord Hanson e compagnia dietro il paravento del “liberismo ad oltranza”, la privatizzazione decisa della Thatcher va collocata nel contesto della strategia anglo-americana per aprire altre regioni economiche a forme molto sofisticate di saccheggio neo-coloniale, perpetrato con la “mano invisibile” tanto cara alle teorie liberistiche. Questa “mano invisibile” anglo-americana regola i meccanismi di fusioni ed acquisizioni operate da altri governi nella misura in cui questi sono così stupidi e sprovveduti da richiedere e pagare profumatamente “consulenze finanziarie” proprio a quella cricca di finanzieri.
Alla fine degli anni Settanta, quando a Londra la Thatcher cominciò lo scontro col sindacato per ridurre i salari e cominciò a svendere le imprese statali ai suoi amici, a Wall Street gente come Donald Regan, presidente della Merrill Lynch, e Walter Wriston, capo della Citicorp, si impegnarono a lanciare una “rivoluzione finanziaria” sulla stessa falsariga che in America fu chiamata “deregolamentazione dei mercati finanziari”.
Quando Ronald Reagan diventò presidente nel 1981, e prestò ascolto a Milton Friedman, la deregulation fece innumerevoli proseliti a Washington. Nei 12 anni che seguirono, fino alla sconfitta di George Bush nel novembre del 1992, Washington voltò le spalle ad una ben dosata politica di supervisione e regolamentazione governativa di attività particolarmente importanti come quella delle compagnie aree e degli autotrasporti, per non parlare dell'economia in generale. Le leggi che erano state escogitate negli anni della Grande Depressione per proteggere la proprietà di piccoli risparmiatori e azionisti furono abrogate o ignorate negli anni Ottanta per fare spazio alla “legge del Far West” che prevede la sopravvivenza del più cattivo.
Negli anni ruggenti della deregulation la filosofia negli USA era “tutto è ammesso, dillo con i soldi”. Così al crimine organizzato fu permesso di reinvestire i proventi illeciti nei regolari flussi finanziari, per poterli così usare nelle scalate speculative a Wall Street condotte da gente come Mike Milken, Ivan Boesky ed altri. Grazie al proliferare delle “obbligazioni spazzatura”, o altre tecniche speculative, si potevano acquisire imprese sane i cui nuovi proprietari trascuravano la politica di sviluppo a lungo termine su cui cresceva l'impresa, cercando solo di realizzare profitti a breve termine. Fu così che la TWA Airlines finì in mano a Carl Icahn, uno speculatore della banca Drexel.
In questi anni Ottanta, i principali istituti finanziari di Londra e New York, come la S.G. Warburg, la Barclays, la Midland Bank, la Citicorp, la Chase Manhattan, la Goldman Sachs, la Merrill Lynch, la Salomon Bros., lanciarono la “globalizzazione dei mercati finanziari”. Il presupposto di partenza era che se tutti i paesi avessero abolito i controlli sui flussi di capitali ed altri meccanismi, la nuova finanza anglo-americana avrebbe potuto accedere a nuovi, grandi spazi economici, altamente profittevoli. I grandi nomi della finanza erano alla caccia di nuovi organismi sani su cui esercitare la propria distruttiva opera parassitaria, e così sedussero molti ambienti bancari, sia europei che giapponesi, a rinunciare alla naturale diffidenza per unirsi al gioco speculativo anglo-americano e “vincere”.
Uno dei sofismi utilizzati a questo proposito era quello che descriveva il sistema finanziario del paese preso di mira come “superato”, “obsoleto”, “non abbastanza dinamico”; insomma, da riformare per promuovere la nuova ondata di finanza creativa. Così l'intera Europa fu accusata di soffrire di “Eurosclerosi”. Tutti i trucchi sono buoni per costringere le economie nazionali a sollevare le barriere protettive e permettere alla finanza anglo-americana di dilagare su ciò che essa definiva mercati “arretrati” o “provinciali” e sfruttare la maggiore scaltrezza finanziaria per saccheggiarli.
La grande speculazione e la finanza angloamericana
Il vero e proprio inizio di questa dissennata corsa alla deregulation e alla “globalizzazione” dei mercati finanziari in stile thatcheriano, a cui assistiamo attualmente in Italia, risale alla fine degli anni '60, inizio anni '70. A partire da quel periodo, le grandi banche internazionali americane, come la Chase Manhattan e la Citicorp, iniziarono a cercare nuovi impieghi del capitale che fruttassero alti profitti, in quanto gli investimenti nell'economia interna americana non erano così profittevoli come quelli all'estero. Nel 1971, decine di miliardi di dollari avevano già abbandonato gli Stati Uniti ed erano approdati in Europa. L'astuto Sir Siegmund Warburg, presidente della omonima e celebre banca britannica (la stessa a cui il ministro del Tesoro Barucci si è recentemente rivolto per stimare il valore immobiliare dell'IMI), si recò allora a Washington per convincere il Tesoro e il Dipartimento di Stato USA a far rimanere all'estero quei capitali, in modo che Londra potesse usarli per ripristinare il ruolo di “banchiere mondiale” che la City aveva svolto fino al 1914. E' ironico che il primo prestito in “Eurobbligazioni” sottoscritto da Siegmund Warburg fosse quello di 15 milioni di dollari lanciato dalla Società Autostrade dell'IRI.
La vera trovata di Warburg fu però l'uso dei dollari espatriati in Europa, i cosiddetti “Eurodollari”, che si rivelarono l'innovazione finanziaria più destabilizzante degli anni settanta. Il Presidente Nixon, seguendo il consiglio di George Shultz e Paul Volcker, annunciò il 15 agosto 1971 che da quel momento in poi Washington e la Federal Reserve, la banca centrale USA, si sarebbero rifiutate di riscattare in oro i dollari posseduti dalle altre banche centrali. Washington stracciò, con atto unilaterale, gli accordi di Bretton Woods del 1944 che stabilivano l'ordine monetario postbellico. Di colpo, il mondo si ritrovò ostaggio di un regime di “tassi di cambio fluttuanti” che trasformò il sistema monetario basato sul dollaro in una gigantesca arena speculativa.
Nel maggio 1973, sei mesi prima che scoppiasse la “crisi petrolifera”, l'oligarchia politico-finanziaria angloamericana si riunì segretamente nella località svedese di Saltsjoebaden per discutere la fase successiva del “ricatto” esercitato per mezzo del dollaro sull'economia mondiale. Tra gli ospiti di quel ristretto gruppo di potenti, riuniti sotto l'egida del Club Bilderberg, c'era il Presidente della FIAT Gianni Agnelli. Si discusse che bisognava persuadere l'OPEC ad aumentare il prezzo del petrolio del 400%. Dato che dal 1945 il petrolio si acquistava solo con dollari, la mossa avrebbe automaticamente quadruplicato la domanda di dollari sul mercato internazionale.
Henry Kissinger, un altro ospite della riunione segreta del Bilderberg, battezzò l'idea col nome di “riciclaggio dei petrodollari”. I suoi interlocutori, come Lord Richardson della British Petroleum, Robert O. Anderson dell'americana Atlantic Ritchfield Corporation (ARCO) o lo svedese Marcus Wallenberg, non erano interessati a discutere come impedire i catastrofici effetti sull'economia mondiale derivanti da un quadruplicamento del prezzo del petrolio, ma, piuttosto, l'intera discussione in quella sperduta località della Svezia ruotò attorno all'idea di come assicurare che poche, scelte banche americane controllassero la nuova ricchezza dei “petrodollari” in mano araba. Si trattava quindi di come aumentare il potere nelle mani delle banche di Londra e New York, del cartello petrolifero e dei loro amici europei, alle spese del resto del mondo.
Negli anni '80, dopo due crisi petrolifere e l'equivalente shock della stretta creditizia pilotata da Paul Volcker alla guida della Federal Reserve (1979-1982), la deregulation finanziaria di Thatcher e Reagan creò, nel contesto di un valore “fluttuante” del dollaro e del riciclaggio di prestiti in petrodollari che rifinanziavano il deficit dei paesi del Terzo Mondo, la cornice per un nuovo riciclaggio, quello dei narco-dollari. La liberalizzazione delle tran-
sazioni finanziarie in Europa e negli Stati Uniti negli ultimi dieci anni è servita infatti ad aprire le porte al riciclaggio dei proventi illeciti della droga, che nel 1990 si stimava in un valore tra i 600 e i 1000 miliardi di dollari.
La Lugano connection
A questo punto occorre dedicare qualche riga alle finanziarie di Wall Street che svolgono un ruolo decisivo nella “privatizzazione” delle imprese pubbliche italiane. Sono tre le ditte impiegate all'uopo come “consulenti” del governo Amato: Goldman Sachs, Merrill Lynch e Salomon Brothers. Lo stesso ministro dell'Industria Giuseppe Guarino, contrario a una “svendita” del patrimonio industriale raccolto nelle ex Partecipazioni Statali, sembra riporre fiducia in queste tre finanziarie, i cui dirigenti incontrò il 17 settembre scorso nel corso di un viaggio a New York.
Sono molti attualmente a ritenere la Goldman Sachs la più potente finanziaria di Wall Street, posizione conquistata almeno a partire dal 1991, quando scoppiarono gli scandali di “insider trading” che la coinvolgevano assieme alla Salomon Brothers. Il presidente della Goldman Sachs, Robert Rubin, sarà il capo del Consiglio per la Sicurezza Nazionale del Presidente Clinton. Quel posto dovrà essere un “ufficio di guerra economica” in stile britannico, per fronteggiare quelli che l'ex capo della CIA William Webster chiamò “gli alleati politici e militari dell'America che sono i suoi rivali economici”. Rubin non è il primo dirigente della Goldman Sachs che ricopre una carica nel governo americano. Prima di lui l'attuale vicepresidente, Robert Hormats, fu consigliere di Henry Kissinger al Dipartimento di Stato e un altro “senior partner”, John Whitehead, fu sottosegretario di Stato con Ronald Reagan. La Goldman Sachs é uno dei più influenti manipolatori del prezzo del petrolio e del valore delle monete, che determina tramite la sussidiaria J. Aron & CO., che opera sul mercato delle merci e dei “futures”. La Goldman Sachs ha rafforzato la sua presenza in Italia aprendo nel 1992 un “ufficio operativo” a Milano. Più avanti vedremo il ruolo cruciale che essa ha svolto nella crisi della lira e nella partita delle privatizzazioni.
La Salomon Brothers domina, assieme alla Goldman Sachs, il commercio di greggio mondiale. La Salomon possiede anche la svizzera Phibro (Philipp Brothers), che opera nel settore delle materie prime. Nel 1989 la Phibro fu coinvolta in un caso di riciclaggio di milioni di dollari ricavati dalla vendita di cocaina negli Stati Uniti. I soldi venivano riciclati dalla banda chiamata “La Mina”, che lavorava per il cartello della coca colombiano, nella Phibro Precious Metal Certificates.
Dopo gli scandali di “insider trading” e speculazione su Buoni del Tesoro USA scoppiati nel 1991, a cui abbiamo accennato sopra, ci fu un completo rinnovo dei vertici della finanziaria. Il nuovo presidente, attuale azionista di maggioranza, è Warren Buffett, originario di Omaha, Nebraska. Buffett, oltre ad essere amico intimo di George Bush, è anche il principale azionista del Washington Post e della rete televisiva ABC. Egli possiede vasti interessi anche nell'American Express (del cui consiglio di amministrazione fa parte Henry Kissinger) e nella Wells Fargo Bank. Lo stesso Buffett si dice sia implicato in uno scandalo di pedofili del Nebraska che facevano capo, fino alla fine degli anni '80, al finanziere repubblicano Larry King, della banca Franklin Credit Union. Buffett era il patrocinatore e il sostenitore di King. La Warren Buffett Foundation, la fondazione intestata a suo nome, finanzia cause antidemografiche, come quelle lanciate da organizzazioni americane come Negative Population Growth, Planned Parenthood, l'Associazione per la Sterilizzazione Volontaria e il Population Council.
La Merrill Lynch è famosa per il ruolo che svolse in una sensazionale operazione di riciclaggio del denaro tra l'Italia, la costa orientale degli Stati Uniti e Lugano. Si tratta della “Pizza connection”, che portò al processo in cui la famiglia mafiosa newyorchese dei Bonanno fu accusata di aver riciclato circa 3,5 miliardi di dollari fino a quando fu arrestata, nel 1984. I Bonanno avevano usato, per i loro traffici, la sede centrale di New York e gli uffici di Lugano della Merrill Lynch. L'aspetto più sconcertante del processo sulla “Pizza connection” in Svizzera e a New York è che essi ignorarono completamente la complicità dei vertici della Merrill Lynch. All'epoca del processo il ministro del Tesoro americano, responsabile per le ispezioni sul riciclaggio del denaro, era l'ex presidente della Merrill Lynch Donald Regan. Il processo si concluse con alcune multe nei confronti di funzionari minori della sede luganese della finanziaria americana, e la storia finì lì. Come è noto, la Merrill Lynch é stata incaricata dall'IRI, il 9 ottobre scorso, di preparare la privatizzazione del Credito Italiano.
Abbiamo fin qui identificato alcuni fatti poco noti che riguardano le tre finanziarie di Wall Street chiamate a svolgere un ruolo decisivo nella valutazione e nella stessa privatizzazione delle imprese pubbliche italiane. Queste finanziarie accedono a dati di grande importanza e delicatezza che riguardano alcune delle più valide imprese europee e si posizionano in assoluto vantaggio come “consiglieri per la privatizzazione”. Naturalmente, tutto secondo una rigida etica professionale e senza conflitti di interesse!
Moody e la guerra della lira
Quasi in contemporanea con la nomina del governo Amato, l'agenzia di “rating” newyorchese Moody's annunciò, con la sorpresa di molti, che avrebbe retrocesso l'Italia in serie C dal punto di vista della credibilità finanziaria. Questo, senza che le cifre del debito italiano fossero cambiate drasticamente (la tendenza al deficit era nota almeno da due anni) e senza alcun rischio di insolvenza da parte dello stato. La giustificazione di Moody's fu che il nuovo governo non dava sufficienti garanzie di voler apportare seri tagli al bilancio dello stato. Negli ambienti finanziari internazionali, Moody's è famosa perchè usa come arma “politica” la sua valutazione di rischio, tale che beneficia interessi angloamericani a svantaggio di banche rivali o, come nel caso dell'Italia, di intere nazioni. Il presidente della Moody's, John Bohn, ha ricoperto un'alta carica nel ministero del Tesoro USA sotto George Bush.
La mossa di Moody's costrinse il governo Amato ad alzare i tassi d'interesse sui BOT per non perdere gli investitori. Essa segnalò anche l'inizio di una guerra finanziaria contro la lira. Secondo fonti ben informate, i più aggressivi speculatori contro la lira, nell'attacco del luglio scorso, furono la Goldman Sachs e la S.G. Warburg di Londra. Ribadiamo che la speculazione ebbe un movente principalmente politico, non finanziario, e che, purtroppo, ebbe successo. L'Italia fu costretta ad abbandonare lo SME e il governo varò un piano di tagli e annunciate privatizzazioni per ridurre il deficit.
Ciò che Amato non ha mai detto è che la svalutazione della lira nei confronti del dollaro ha dato agli avventurieri della Goldman Sachs e delle altre finanziarie di Wall Street un grande “vantaggio”. Calcolato in dollari, l'acquisto delle imprese da privatizzare è diventato, per gli acquirenti americani, circa il 30% meno costoso. Lentamente, specialmente dopo l'ultimo attacco speculativo dell'inizio dell'anno, la lira si va assestando sul valore “politico” di circa 1000 lire a marco, esattamente il valore indicato dalla Goldman Sachs nel luglio scorso come “valore reale” della moneta italiana.
Come mai questa “coincidenza”? Come mai la finanziaria newyorchese ha appena aperto un ufficio operativo in un paese che secondo i suoi criteri sprofonda nella crisi? Come mai un economista come Romano Prodi, “senior adviser” della Goldman Sachs, suggerisce di privatizzare alla grande, vendendo tutte e tre le banche d'interesse nazionale (Banca Commerciale, Credito italiano, Banca di Roma), più il San Paolo di Torino, il Monte dei Paschi di Siena e l'Ina (Convegno presso l'Assolombarda il 30 settembre 1992)?
Lo stesso Prodi, che nel passato è stato a capo dell'IRI, oggi sembra aver sposato completamente la causa neoliberista angloamericana, tanto da aver proposto, a metà novembre, che l'Europa applichi verso i paesi dell'est una politica simile a quella dell'accordo di libero scambio siglato tra Stati Uniti, Messico e Canada (NAFTA). Un tale trattato darebbe il via libera alle grandi imprese per trasferire le loro attività all'est, dove la forza lavoro costa meno (è quanto è avvenuto ai confini tra Stati Uniti e Messico). Ciò aggraverebbe la crisi all'ovest e condurrebbe, nel medio-lungo termine, ad un abbassamento della produttività anche all'est, dato che la manodopera sottopagata è anche meno qualificata.
Il governo italiano deve scartare una simile politica, così come deve abbandonare il circolo vizioso dei tassi d'interesse alti che, per difendere la moneta, alimentano lo stesso deficit che si dichiara di voler combattere. Tra il giugno e il settembre scorso, i tassi sono aumentati paurosamente, da circa l'11% al 20% prima che la lira abbandonasse lo SME. Tuttora la Banca d'Italia mantiene il tasso d'interesse al 13%. Tenuto conto che ogni punto di aumento degli interessi si traduce in 15.000 miliardi in più sul debito dello stato a breve termine, il governo italiano è stato messo alle corde dagli speculatori angloamericani (e dai loro complici italiani) aumentando la pressione per privatizzare a prezzi di svendita.
Andando avanti su questa strada, l'Italia commetterà un suicidio economico. La sola via d'uscita è l'adozione di una politica creditizia nazionale del tipo che ai tempi di Enrico Mattei si sarebbe considerata ovvia. Occorre ripristinare il controllo sui cambi, congelare una parte del debito con una moratoria di 10-15 anni (salvaguardando naturalmente gli interessi dei piccoli risparmiatori), parallelamente all'avvio di una aggressiva politica di investimenti, favorita da crediti agevolati, nelle infrastrutture moderne, in concerto con i partners europei. Per far ciò, occorre che lo stato si riappropri della piena sovranità monetaria, il che significa che per finanziare gli investimenti esso non debba bussare alla porta della Banca d'Italia, la quale ha finora, incostituzionalmente, battuto moneta a nome dello stato per poi rivendergliela a tassi “di mercato”, cioè da usura. I motivi che hanno portato al “divorzio” tra il Tesoro e la Banca d'Italia, e cioè l'improduttivo finanziamento del debito, esistono, ma combattere il malgoverno non significa eliminare il governo. Perciò occorre porre fine al “divorzio” tra Bankitalia e Tesoro.
Una efficace repressione dell'attività di riciclaggio del denaro da parte della mafia, compreso quello investito nei BOT, accompagnata da un astuto cambio della moneta (la famosa “lira pesante”), darebbe alle istituzioni dello stato una posizione di forza e la credibilità e la fiducia popolare. L'alternativa è il caos e la guerra civile.
Il ruolo della Lega nel piano delle privatizzazioni
Un capitolo a parte merita il ruolo svolto dalla Lega Nord nella strategia anglo-americana di saccheggio dell'economia italiana. La Lega Nord, infatti, con la sua politica liberista radicale, è lo strumento politico ideale per realizzare gli obiettivi angloamericani. La Lega propone la privatizzazione di ogni attività economica in mano allo stato, dall'energia ai trasporti, dalle industrie di difesa alla Rai. Se si realizzasse la politica della Lega, non occorrerebbe sancire la secessione del Nord dal Sud (e infatti Bossi ha abbandonato il progetto di “Repubblica del Nord”, definendola una “provocazione”), in quanto la Repubblica italiana si frantumerebbe da sé. Allo stato centrale, infatti, secondo i leghisti, resterebbero solo i poteri di battere moneta, di difesa e di politica estera. Ma, poichè il primo è saldamente nelle mani della Banca d'Italia e il secondo, come gli stessi leghisti affermano, sarà delegato a strutture sovrannazionali nell'ambito dei nuovi scenari di guerre Nord-Sud, lo stato nazionale italiano sará una vuota carcassa.
Ecco perché la Lega è stata appoggiata dai media che fanno capo alla City di Londra (Economist, Financial Times) e a Wall Street (Wall Street Journal, Time). E' difficile scoprire diretti legami tra questi centri finanziari internazionali e la Lega, anche se si può ipotizzare l'esistenza di contatti nell'ambito di canali massonici. Certamente si nota una straordinaria coincidenza tra l'ideologia leghista e i programmi sviluppati da certi centri studi. Un esempio: la trasformazione dell'Italia in “macroregioni” è una politica ufficialmente promossa dalla Fondazione Agnelli, che alla fine del 1990 avviò un progetto chiamato “Padania”, poi presentato in un convegno tenutosi a Torino l'11 e il 12 giugno 1992, con la partecipazione dell'ideologo della Lega, Gianfranco Miglio. Scopo del convegno fu quello di discutere “soluzioni specifiche, procedurali e/o istituzionali” per l'autonomia amministrativa della “macroregione” Padania, allo scopo di valorizzarne le risorse con “opportune competenze di governo”. Al di là del linguaggio formale, è chiaro che la Fondazione Agnelli promuove il progetto leghista. La Fondazione Agnelli, come è noto, fa capo alla famiglia Agnelli, legata a Enrico Cuccia, il “garante” degli equilibri economico-finanziari tra le grandi famiglie italiane e i centri di potere internazionali, ai quali è collegato tramite la banca Lazard.
Checché ne dica Bossi, egli si sta muovendo esattamente verso la distruzione dello stato nazionale, obiettivo ben chiaro nelle strategie dei suoi sponsor internazionali. Lo stesso organo della Lega, Repubblica del Nord, ha pubblicato il 21 ottobre 1992 uno studio promosso dalla “Associazione Americana di Geografia” (che dovrebbe essere la National Geographic Society, un'istituzione che fa capo a diversi servizi di intelligence USA), la quale prevede entro sei anni la divisione dell'Italia in cinque repubbliche, Nord, Centro, Sud e le isole. Un progetto coerente col disegno leghista, tanto che l'organo del partito di Bossi se ne compiace, e con quello attribuito alla Mafia di cui ha parlato, in una udienza presso la Commissione Parlamentare Antimafia, il pentito Leonardo Messina.
C'è di più: da Lombardia Autonomista del 29 luglio 1992 apprendiamo che la rivista americana Telos, diretta da Paul Piccone, giudica il modello leghista “generalizzabile a tutta Europa”. Piccone è noto per aver appoggiato le Brigate Rosse negli anni caldi del terrorismo italiano, sempre dalle colonne della rivista Telos, che a quel tempo era il punto di riferimento della sinistra “marxista” americana. Una costante, quindi, il sostegno alla destabilizzazione, condotto con un modus operandi che corrisponde alle classiche “covert operations” della CIA.
Riaffermiamo la sovranità sulla moneta e sul credito
ICHIARAZIONE DI PAOLO RAIMONDI, PRESIDENTE DEL MOVIMENTO INTERNAZIONALE PER I DIRITTI CIVILI – SOLIDARIETA’
Riaffermiamo la sovranità sulla moneta e sul credito
Tratto da Movimento internazionale per i diritti civili - Solidarietà
www.movisol.org/moneta.htm
Roma, 12 agosto – Le polemiche sulla figura del governatore della Banca d'Italia Antonio Fazio porgono urgentemente il problema non tanto del suo mandato a termine, quanto del fatto che la banca centrale è un istituto che dovrebbe applicare esclusivamente una politica decisa dallo stato sovrano, mentre invece è controllato e abusato dai privati. Il problema della nazionalizzazione, o statalizzazione che dir si voglia, della banca centrale è a questo punto non più procrastinabile, assieme a quello di approntare serie strategie di rientro dall'Euro che non siano le sciocche provocazioni di chi propone un ritorno alla Lira senza collocare questa proposta nel contesto di un piano di credito produttivo per gli investimenti.
Se l’Italia, così come ogni altra nazione, non possiede e non difende la sovranità della moneta e del credito, allora non può dirsi veramente indipendente e sovrana ed è dunque incapace di lottare per la crescita e lo sviluppo al servizio del bene comune dei suoi cittadini. Oggi la Banca d’Italia è un sedicente ente di diritto pubblico costituito nella forma di una normale società per azioni la cui stragrande maggioranza è nelle mani di interessi privati, banche private e compagnie di assicurazioni private. Più del 65% delle sue azioni sono detenute da solo tre banche: Gruppo Intesa, San Paolo IMI e Capitalia. Poi vengono altre, tra cui le Assicurazioni Generali con più del 6%. Questo è prima di tutto in aperta violazione della Costituzione Italiana.
La Costituzione
L’art. 1 della Costituzione dice che “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, per cui la sovranità monetaria è parte integrante e inscindibile di quella dello stato nazionale e non può essere delegata ad interessi bancari privati, tanto meno può diventare proprietà di interessi privati.
L’Art. 3 aggiunge che: "E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.” Senza disporre delle leve della moneta, del credito e dell’economia, qualunque governo, a prescindere dal suo orientamento politico, non sarà mai in grado di realizzare questo compito di sviluppo e giustizia economica e sociale.
L’Art. 47 sottolinea che “ La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito”. Anche in questo caso la cosa non è possibile giacché la Banca d’Italia, controllata da interessi privati, non può che rispondere, soprattutto nelle decisioni strategiche, agli indirizzi e agli interessi dei proprietari.
Il complotto del Britannia
La totale e definitiva privatizzazione della Banca d’Italia, che è persino una violazione dello statuto della stessa banca centrale, è stata il frutto del processo di speculazione contro la lira e di forzata privatizzazione del settore a partecipazione statale italiano iniziato nel 1992. In quell’anno avvenne una vera e propria rivoluzione giacobina in tutti i settore della vita pubblica italiana. In economia, il famoso “complotto del Britannia”, la yacht della regina Elisabetta II d’Inghilterra, dove l’elite finanziaria della City di Londra si incontrò con la controparte italiana guidata dall’allora direttore generale del Tesoro, Mario Draghi, oggi alla testa di una della più aggressive finanziarie internazionali, diede il via alla svendita. Poco dopo, a settembre, gli speculatori internazionali guidati dal finanziere americano George Soros, fecero crollare la lira e la svendita continuò a prezzi stracciati. Queste manovre furono allora denunciate energicamente dal Movimento Solidarietà.
Ma anche prima, dietro il paravento dell’ideologia liberista secondo cui le banche centrali dovrebbero essere indipendenti dallo stato per poter svolgere “meglio” il ruolo di controllore della moneta, si celava la volontà della finanza di sottrarre allo stato la sovranità sulla moneta.
La Banca d’Italia ha sempre funzionato come il “gendarme dell’inflazione”, mai come propulsore di sviluppo e investimenti. E’ per questa ragione che negli anni Ottanta si arrivò al divorzio tra la banca centrale e il Tesoro.
Già allora il Movimento Solidarietà aveva animato una battaglia parlamentare per bloccare questa politica.
A Maastricht è stata svenduta l'Europa
A partire dal 1992 è iniziata la sottomissione dell’Europa al Trattato di Maastricht, concepito per sottoporre le diverse nazioni ad una totale dittatura monetarista al servizio degli interessi dei banchieri. La burocrazia sovranazionale di Bruxelles ha seguito una politica volta a distruggere le ragioni e gli ideali dei padri fondatori di un’Europa unita e solidale, fatta di stati nazionali sovrani, tra i quali ricordiamo Mattei, De Gasperi, De Gaulle, Adenauer e Schumann.
In tal modo questa burocrazia sottraeva la sovranità sulla moneta per imporre delle politiche di austerità e di stupidi e incompetenti automatismi sui bilanci bloccando il motore economico dell’Europa e con esso gli investimenti in nuove tecnologie e in nuove e moderne infrastrutture.
Il Movimento Solidarietà si fece promotore già nel 1996 di una campagna contro questi programmi presentando anche un esposto, “Il Trattato di Maastricht viola la Costituzione Italiana ”, alla Corte Costituzionale e in altre sedi.
Oggi Maastricht si sta sgretolando perché le fondamenta su cui è stato costruito sono marce. Quando si dice che un palazzo crolla perché l’architettura era sbagliata non vuol dire che non si vogliono più costruire nuove case. Se si vuole realizzare un progetto che veramente corrisponda ai bisogni e agli interessi della gente, bisogna avere anche il coraggio di abbandonare tempestivamente le strutture che ci stanno crollando addosso. Dopo il no francese e olandese al referendum sulla costituzione europea -- un no che in realtà è rivolto ai dettami di Maastricht -- ora la Germania è scossa da una profondissima crisi economica e politica provocata dai diktat di Bruxelles e della Banca Centrale Europea.
L'euro: realtà e pretesti
Helga Zepp-LaRouche, presidente del Movimento Solidarietà tedesco, si presenta al voto del 18 settembre con un programma coraggioso e d’avanguardia che merita il sostegno di ogni forza politica sana in Europa: uscita unilaterale dal Trattato di Maastricht e dall’Unione Monetaria Europea, ritorno al marco come moneta nazionale per poter lanciare investimenti statali e quindi la piena occupazione, eliminando così il dissesto economico evidente nelle cifre della disoccupazione, il cui totale è ormai arrivato intorno ai 9 milioni, e continuare ad usare l’euro solo come moneta di conto nelle transazioni tra i diversi paesi. Su questa questione occorre essere chiari: non si litiga su "euro si" "euro no", ma occorre convenire sulla necessità di disporre di una moneta con cui uno stato sovrano può varare piani di sviluppo.
Al più tardi, il prossimo aprile avremo le elezioni politiche in Italia per eleggere il nuovo governo. L’euro e la questione Banca d’Italia stanno diventando argomenti di scontro sulla testa della gente, ma non per una politica seria. Berlusconi ha già lanciato il suo slogan populista “No all’euro di Prodi” per sfruttare la rabbia dei cittadini vessati da un’inflazione che il suo governo ha sempre camuffato e negato. La coalizione di centrosinistra di Prodi e Rutelli si lascia ammaliare dallo speculatore internazionale George Soros, un vero terrorista finanziario che vanta interessi enormi anche nella “liberalizzazione” della droga. Al contempo si vuole decisamente ignorare il fatto che ci troviamo nella fase finale del collasso del sistema liberistico e finanziario e che la globalizzazione versa in uno stato di bancarotta totale, mentre in America infuria lo scontro decisivo tra chi sta cercando di fermare i neoconservatori di Cheney-Bush e coloro che spingono per pericolose fughe in avanti sul fronte militare.
Come ripristinare la sovranità economica del paese
Il Movimento Solidarità è decisamente impegnato a combattere in prima fila per riaffermare la sovranità dello stato sulla moneta e sul credito nel Parlamento italiano e in tutte le altre istituzioni. Insieme a tutti quei politici, di differenti schieramenti, sensibili allo sviluppo e alla giustizia economica e sociale, noi presenteremo una mozione per riportare la Banca d’Italia sotto il controllo dello stato e per trasformarla da fautrice di tagli e di austerità in una Banca Nazionale, erogatrice di crediti per lo sviluppo produttivo, secondo le direttive di Alexander Hamilton, uno dei padri fondatori della Rivoluzione Americana e dell’America repubblicana, affrancata dal colonialismo dell’impero britannico.
Lo stato e il governo italiani potranno contare sulla nuova Banca d’Italia come fondo di emissione di nuovi crediti per centinaia di miliardi di attuali euro all’anno, a lungo termine e a bassi tassi di interessi, a sostegno di investimenti produttivi nelle infrastrutture e nella ricerca miranti ad accrescere la produttività. I cittadini e le istituzioni dovranno anche essere preparati a ristabilire la sovranità sulla moneta nazionale perchè capovolgimenti nella situazione economica e politica internazionale e in Europa potrebbero richiederlo anche in situazioni che potranno apparire drammatiche. Sarebbe politicamente irresponsabile evitare di porre problemi di questo tipo. Affrontare il problema della disoccupazione e dell’arretratezza tecnologica e infrastrutturale di base è la sfida immediata per partecipare contemporaneamente agli investimenti e allo sviluppo dell’intera regione eurasiatica, il cosiddetto Ponte di Sviluppo Eurasiatico. Occorrerà approntare in Italia, in Europa e in Eurasia un “New Deal”, nella tradizione della politica con cui il presidente Franklin D. Roosevelt portò gli Stati Uniti fuori dalla depressione degli anni Trenta, che in linea di principio fu la stessa politica con cui l’Italia, dopo il 1945, diede vita alla sua ricostruzione e alla sua crescita.
Un programma di questo tipo sarà integrato nella battaglia internazionale per una Nuova Bretton Woods, come proposta dall’economista e politico americano Lyndon LaRouche. Un nuovo e più giusto sistema monetario e finanziario internazionale che metta fuori legge la speculazione e le bolle finanziarie e crei le condizioni di stabilità tra le monete per rilanciare l’economia e la cooperazione internazionale. Il 6 aprile la maggioranza della Camera dei Deputati ha già approvato una mozione, alla cui stesura ha contribuito direttamente il Movimento Solidarietà, che impegna il governo a prendere tutte le iniziative necessarie a livello internazionale per arrivare alla convocazione di una conferenza di capi di stato e di governo per definire a creare una Nuova Bretton Woods e un Nuovo Ordine Economico Mondiale Giusto
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Riaffermiamo la sovranità sulla moneta e sul credito
Tratto da Movimento internazionale per i diritti civili - Solidarietà
www.movisol.org/moneta.htm
Roma, 12 agosto – Le polemiche sulla figura del governatore della Banca d'Italia Antonio Fazio porgono urgentemente il problema non tanto del suo mandato a termine, quanto del fatto che la banca centrale è un istituto che dovrebbe applicare esclusivamente una politica decisa dallo stato sovrano, mentre invece è controllato e abusato dai privati. Il problema della nazionalizzazione, o statalizzazione che dir si voglia, della banca centrale è a questo punto non più procrastinabile, assieme a quello di approntare serie strategie di rientro dall'Euro che non siano le sciocche provocazioni di chi propone un ritorno alla Lira senza collocare questa proposta nel contesto di un piano di credito produttivo per gli investimenti.
Se l’Italia, così come ogni altra nazione, non possiede e non difende la sovranità della moneta e del credito, allora non può dirsi veramente indipendente e sovrana ed è dunque incapace di lottare per la crescita e lo sviluppo al servizio del bene comune dei suoi cittadini. Oggi la Banca d’Italia è un sedicente ente di diritto pubblico costituito nella forma di una normale società per azioni la cui stragrande maggioranza è nelle mani di interessi privati, banche private e compagnie di assicurazioni private. Più del 65% delle sue azioni sono detenute da solo tre banche: Gruppo Intesa, San Paolo IMI e Capitalia. Poi vengono altre, tra cui le Assicurazioni Generali con più del 6%. Questo è prima di tutto in aperta violazione della Costituzione Italiana.
La Costituzione
L’art. 1 della Costituzione dice che “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, per cui la sovranità monetaria è parte integrante e inscindibile di quella dello stato nazionale e non può essere delegata ad interessi bancari privati, tanto meno può diventare proprietà di interessi privati.
L’Art. 3 aggiunge che: "E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.” Senza disporre delle leve della moneta, del credito e dell’economia, qualunque governo, a prescindere dal suo orientamento politico, non sarà mai in grado di realizzare questo compito di sviluppo e giustizia economica e sociale.
L’Art. 47 sottolinea che “ La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito”. Anche in questo caso la cosa non è possibile giacché la Banca d’Italia, controllata da interessi privati, non può che rispondere, soprattutto nelle decisioni strategiche, agli indirizzi e agli interessi dei proprietari.
Il complotto del Britannia
La totale e definitiva privatizzazione della Banca d’Italia, che è persino una violazione dello statuto della stessa banca centrale, è stata il frutto del processo di speculazione contro la lira e di forzata privatizzazione del settore a partecipazione statale italiano iniziato nel 1992. In quell’anno avvenne una vera e propria rivoluzione giacobina in tutti i settore della vita pubblica italiana. In economia, il famoso “complotto del Britannia”, la yacht della regina Elisabetta II d’Inghilterra, dove l’elite finanziaria della City di Londra si incontrò con la controparte italiana guidata dall’allora direttore generale del Tesoro, Mario Draghi, oggi alla testa di una della più aggressive finanziarie internazionali, diede il via alla svendita. Poco dopo, a settembre, gli speculatori internazionali guidati dal finanziere americano George Soros, fecero crollare la lira e la svendita continuò a prezzi stracciati. Queste manovre furono allora denunciate energicamente dal Movimento Solidarietà.
Ma anche prima, dietro il paravento dell’ideologia liberista secondo cui le banche centrali dovrebbero essere indipendenti dallo stato per poter svolgere “meglio” il ruolo di controllore della moneta, si celava la volontà della finanza di sottrarre allo stato la sovranità sulla moneta.
La Banca d’Italia ha sempre funzionato come il “gendarme dell’inflazione”, mai come propulsore di sviluppo e investimenti. E’ per questa ragione che negli anni Ottanta si arrivò al divorzio tra la banca centrale e il Tesoro.
Già allora il Movimento Solidarietà aveva animato una battaglia parlamentare per bloccare questa politica.
A Maastricht è stata svenduta l'Europa
A partire dal 1992 è iniziata la sottomissione dell’Europa al Trattato di Maastricht, concepito per sottoporre le diverse nazioni ad una totale dittatura monetarista al servizio degli interessi dei banchieri. La burocrazia sovranazionale di Bruxelles ha seguito una politica volta a distruggere le ragioni e gli ideali dei padri fondatori di un’Europa unita e solidale, fatta di stati nazionali sovrani, tra i quali ricordiamo Mattei, De Gasperi, De Gaulle, Adenauer e Schumann.
In tal modo questa burocrazia sottraeva la sovranità sulla moneta per imporre delle politiche di austerità e di stupidi e incompetenti automatismi sui bilanci bloccando il motore economico dell’Europa e con esso gli investimenti in nuove tecnologie e in nuove e moderne infrastrutture.
Il Movimento Solidarietà si fece promotore già nel 1996 di una campagna contro questi programmi presentando anche un esposto, “Il Trattato di Maastricht viola la Costituzione Italiana ”, alla Corte Costituzionale e in altre sedi.
Oggi Maastricht si sta sgretolando perché le fondamenta su cui è stato costruito sono marce. Quando si dice che un palazzo crolla perché l’architettura era sbagliata non vuol dire che non si vogliono più costruire nuove case. Se si vuole realizzare un progetto che veramente corrisponda ai bisogni e agli interessi della gente, bisogna avere anche il coraggio di abbandonare tempestivamente le strutture che ci stanno crollando addosso. Dopo il no francese e olandese al referendum sulla costituzione europea -- un no che in realtà è rivolto ai dettami di Maastricht -- ora la Germania è scossa da una profondissima crisi economica e politica provocata dai diktat di Bruxelles e della Banca Centrale Europea.
L'euro: realtà e pretesti
Helga Zepp-LaRouche, presidente del Movimento Solidarietà tedesco, si presenta al voto del 18 settembre con un programma coraggioso e d’avanguardia che merita il sostegno di ogni forza politica sana in Europa: uscita unilaterale dal Trattato di Maastricht e dall’Unione Monetaria Europea, ritorno al marco come moneta nazionale per poter lanciare investimenti statali e quindi la piena occupazione, eliminando così il dissesto economico evidente nelle cifre della disoccupazione, il cui totale è ormai arrivato intorno ai 9 milioni, e continuare ad usare l’euro solo come moneta di conto nelle transazioni tra i diversi paesi. Su questa questione occorre essere chiari: non si litiga su "euro si" "euro no", ma occorre convenire sulla necessità di disporre di una moneta con cui uno stato sovrano può varare piani di sviluppo.
Al più tardi, il prossimo aprile avremo le elezioni politiche in Italia per eleggere il nuovo governo. L’euro e la questione Banca d’Italia stanno diventando argomenti di scontro sulla testa della gente, ma non per una politica seria. Berlusconi ha già lanciato il suo slogan populista “No all’euro di Prodi” per sfruttare la rabbia dei cittadini vessati da un’inflazione che il suo governo ha sempre camuffato e negato. La coalizione di centrosinistra di Prodi e Rutelli si lascia ammaliare dallo speculatore internazionale George Soros, un vero terrorista finanziario che vanta interessi enormi anche nella “liberalizzazione” della droga. Al contempo si vuole decisamente ignorare il fatto che ci troviamo nella fase finale del collasso del sistema liberistico e finanziario e che la globalizzazione versa in uno stato di bancarotta totale, mentre in America infuria lo scontro decisivo tra chi sta cercando di fermare i neoconservatori di Cheney-Bush e coloro che spingono per pericolose fughe in avanti sul fronte militare.
Come ripristinare la sovranità economica del paese
Il Movimento Solidarità è decisamente impegnato a combattere in prima fila per riaffermare la sovranità dello stato sulla moneta e sul credito nel Parlamento italiano e in tutte le altre istituzioni. Insieme a tutti quei politici, di differenti schieramenti, sensibili allo sviluppo e alla giustizia economica e sociale, noi presenteremo una mozione per riportare la Banca d’Italia sotto il controllo dello stato e per trasformarla da fautrice di tagli e di austerità in una Banca Nazionale, erogatrice di crediti per lo sviluppo produttivo, secondo le direttive di Alexander Hamilton, uno dei padri fondatori della Rivoluzione Americana e dell’America repubblicana, affrancata dal colonialismo dell’impero britannico.
Lo stato e il governo italiani potranno contare sulla nuova Banca d’Italia come fondo di emissione di nuovi crediti per centinaia di miliardi di attuali euro all’anno, a lungo termine e a bassi tassi di interessi, a sostegno di investimenti produttivi nelle infrastrutture e nella ricerca miranti ad accrescere la produttività. I cittadini e le istituzioni dovranno anche essere preparati a ristabilire la sovranità sulla moneta nazionale perchè capovolgimenti nella situazione economica e politica internazionale e in Europa potrebbero richiederlo anche in situazioni che potranno apparire drammatiche. Sarebbe politicamente irresponsabile evitare di porre problemi di questo tipo. Affrontare il problema della disoccupazione e dell’arretratezza tecnologica e infrastrutturale di base è la sfida immediata per partecipare contemporaneamente agli investimenti e allo sviluppo dell’intera regione eurasiatica, il cosiddetto Ponte di Sviluppo Eurasiatico. Occorrerà approntare in Italia, in Europa e in Eurasia un “New Deal”, nella tradizione della politica con cui il presidente Franklin D. Roosevelt portò gli Stati Uniti fuori dalla depressione degli anni Trenta, che in linea di principio fu la stessa politica con cui l’Italia, dopo il 1945, diede vita alla sua ricostruzione e alla sua crescita.
Un programma di questo tipo sarà integrato nella battaglia internazionale per una Nuova Bretton Woods, come proposta dall’economista e politico americano Lyndon LaRouche. Un nuovo e più giusto sistema monetario e finanziario internazionale che metta fuori legge la speculazione e le bolle finanziarie e crei le condizioni di stabilità tra le monete per rilanciare l’economia e la cooperazione internazionale. Il 6 aprile la maggioranza della Camera dei Deputati ha già approvato una mozione, alla cui stesura ha contribuito direttamente il Movimento Solidarietà, che impegna il governo a prendere tutte le iniziative necessarie a livello internazionale per arrivare alla convocazione di una conferenza di capi di stato e di governo per definire a creare una Nuova Bretton Woods e un Nuovo Ordine Economico Mondiale Giusto
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Privatizzazioni - IRI
« L'impresa pubblica, se non sia informata a criteri economici, tende al tipo dello spizio di carità »
(Luigi Einaudi)
L’IRI - acronimo di Istituto per la Ricostruzione Industriale - è stato un ente pubblico italiano, istituito nel 1933 per iniziativa dell’allora capo del Governo Benito Mussolini al fine di evitare il fallimento delle principali banche italiane (Commerciale, Credito Italiano e Banco di Roma) e con esse il crollo dell’economia, già provata dalla crisi economica mondiale iniziata nel 1929.
Nel dopoguerra allargò progressivamente i suoi settori di intervento e fu l'ente che modernizzò e rilanciò l'economia italiana durante soprattutto gli anni '50 e '60; nel 1980 l'IRI era un gruppo di circa 1.000 società con più di 500.000 dipendenti. Per molti anni l'IRI fu la più grande azienda industriale al di fuori degli Stati Uniti d'America; nel 1992 chiudeva l'anno con 75.912 miliardi di lire di fatturato ma con 5.182 miliardi di perdite.[1] Ancora nel 1993 l'IRI si trovava al settimo posto nella classifica delle maggiori società del mondo per fatturato, con 67.5 miliardi di dollari di vendite.[2] Trasformato in società per azioni nel 1992, cessò di esistere dieci anni dopo.
Indice [nascondi]
1 Storia
1.1 Le origini
1.2 IRI ente permanente
1.3 Il dopoguerra
1.4 "La formula IRI"
1.5 La teoria degli "oneri impropri"
1.6 Gli investimenti ed i salvataggi
1.7 I debiti e la crisi
1.8 L'epoca Prodi
1.9 L'accordo Andreatta-Van Miert
1.10 Le privatizzazioni
1.11 L'analisi della Corte dei Conti sulla stagione delle privatizzazioni
1.12 La liquidazione
2 La governance dell’IRI
3 Le partecipazioni IRI
4 Le ”Nuove IRI”
5 Bilancio 1997
6 Bilancio 1998
7 Bilancio 1999
8 Presidenti
9 Note
10 Bibliografia
11 Voci correlate
12 Collegamenti esterni
Storia [modifica]
Le origini [modifica]
l'Iri nacque come ente temporaneo con lo scopo prettamente di salvataggio delle banche e delle aziende a loro connesse. Il nuovo ente era formato da una "Sezione finanziamenti" e una "Sezione smobilizzi". Nel 1930 la crisi di liquidità del Credito Italiano portò alla fusione con la Banca nazionale di credito. Il Credito Italiano assunse le attività e le passività a breve scadenza della Banca nazionale del credito (BNC), cedendole gran parte degli investimenti a lunga scadenza. In un secondo momento la BNC cedette le sue partecipazioni in società industriali alla Società Finanziaria Italiana (Sfi), mentre le partecipazioni immobiliari e le partecipazioni in aziende di pubblica utilità furono trasferite alla Società Elettrofinanziaria. Sfi e Società Elettrofinanziaria furono messe in liquidazione nel 1934 dopo essere passate sotto il controllo dell'IRI.
Nel 1931 l'intervento pubblico riguardò la Banca Commerciale Italiana che, di fronte alla crisi del 1929, aveva aumentato la propria esposizione verso il sistema industriale. Il crollo delle quotazioni azionarie richiese l'intervento statale, che si concretizzò nella cessione dalla Comit alla Società Finanziaria Industriale Italiana della totalità delle azioni possedute dalla banca.
Nel pieno della crisi la Banca d'Italia si trovò esposta verso l'Istituto di liquidazioni, un ente pubblico creato nel 1926 per sostenere finanziariamente le imprese in crisi, e verso le banche, per oltre 7 miliardi, ovvero oltre il 50% del circolante.
Lo Stato assunse dunque le partecipazioni delle banche in crisi, finanziandole affinché non fallissero. Le partecipazioni furono poi trasferite all'IRI, la cui principale preoccupazione divenne rimborsare alla Banca d'Italia il capitale ricevuto. Una volta trasferite le quote all'Istituto, questo avviò una propria campagna di mobilitazione del credito attraverso lo strumento delle obbligazioni industriali garantite dallo Stato. L'operazione fu l'applicazione in larga scala di quanto era già stato abbozzato con l'INA, ovvero l'organizzazione del piccolo risparmio che le banche, vincolate in legami a doppio filo con il sistema industriale, non riuscivano ad impiegare in reali processi di sviluppo.
In questo modo l'IRI, e quindi lo Stato, smobilizzò le banche miste, diventando contemporanenamente proprietario di oltre il 20% dell'intero capitale azionario nazionale e di fatto il maggiore imprenditore italiano, con aziende come Ansaldo, Ilva, Cantieri Riuniti dell'Adriatico, SIP, SME, Terni, Edison. Si trattava in effetti di aziende che già da molti anni erano vicine al settore pubblico, sostenute da politiche tariffarie favorevoli e da commesse belliche. Inoltre l'IRI possedeva le tre maggiori banche italiane.
Al 1934, il valore nominale del patrimonio industriale era di 16,7 miliardi di lire, pari al 14,3% del Pil. Tra i principali trasferimenti all'ente figuravano[3]:
la quasi totalità dell'industria degli armanenti
i servizi di telecomunicazione di gran parte dell'Italia
un'altissima quota della produzione di energia elettrica
una notevole quota dell'industria siderurgica civile
tra l'80% ed il 90% del settore di costruzioni navali e dell'industria della navigazione
Primo presidente, oltre che tra gli artefici della creazione dell'ente, fu Alberto Beneduce, economista di tradizione Socialista e fiduciario del Presidente del Consiglio dei Ministri.
IRI ente permanente [modifica]
Inizialmente era previsto che l'IRI fosse un ente provvisorio il cui scopo era limitato alla dismissione delle attività così acquisite. Ciò in effetti avvenne con la Edison, che fu ceduta ai privati, ma nel 1937 il governo trasformò l'IRI in un ente pubblico permanente; in questo probabilmente influirono lo scopo di mettere in atto la politica autarchica lanciata dal governo e di tenere sotto controllo del governo le aziende navali ed aeronautiche, mentre era in corso la guerra d'Etiopia.
Per finanziare le sue aziende l'IRI emise negli anni Trenta dei prestiti obbligazionari garantiti dallo Stato, risolvendo in questo modo il problema della scarsità di capitali privati. L'IRI si diede una struttura che raggruppava le sue partecipazioni per aree merceologiche: l'Istituto sottoscriveva il capitale di società finanziarie (le "caposettore") che a loro volta possedevano il capitale delle società operative; così nel 1936 nacque la Finmare, nel 1937 la Finsider e la STET, poi nel dopoguerra Finmeccanica, Fincantieri e Finelettrica.
Il dopoguerra [modifica]
Nel dopoguerra la sopravvivenza dell'Istituto non era data per certa, essendo nato più come una soluzione provvisoria che con un orizzonte di lungo termine; di fatto però risultava difficile per lo stato cedere ai privati aziende che richiedevano grandi investimenti e davano ritorni sul lunghissimo periodo. Così l'IRI mantenne la struttura che aveva sotto il fascismo.
Solo dopo il 1950 la funzione dell'IRI fu meglio definita: una nuova spinta propulsiva per l'IRI venne da Oscar Sinigaglia, che con il suo piano per aumentare la capacità produttiva della siderurgia italiana strinse un'alleanza con gli industriali privati; si venne così a creare un nuovo ruolo per l'IRI, cioè quello di sviluppare la grande industria di base e le infrastrutture necessarie al paese, non in "supplenza" dei privati ma in una tacita suddivisione dei compiti. Ne furono esempi lo sviluppo dell'industria siderurgica, quello della rete telefonica e la costruzione dell'Autostrada del Sole, iniziata nel 1956.
"La formula IRI" [modifica]
Negli anni '60, mentre l'economia italiana cresceva ad alti ritmi, l'IRI era tra i protagonisti del "miracolo" italiano. Altri paesi europei, in particolare i governi laburisti inglesi, guardavano alla "formula IRI" come ad un esempio positivo di intervento dello stato dell'economia, migliore della semplice "nazionalizzazione" perché permetteva una cooperazione tra capitale pubblico e capitale privato.
In molte aziende del gruppo il capitale era misto, in parte pubblico, in parte privato. Molte aziende del gruppo IRI rimasero quotate in borsa e le obbligazioni emesse dall'Istituto per finanziare le proprie imprese erano sottoscritte in massa dai risparmiatori.
La teoria degli "oneri impropri" [modifica]
Ai vertici dell'IRI si insediarono esponenti della DC come Giuseppe Petrilli, presidente dell'Istituto per quasi vent'anni (dal 1960 al 1979). Petrilli nei suoi scritti elaborò una teoria che sottolineava gli effetti positivi della "formula IRI"[4]. Attraverso l'IRI le imprese erano utilizzabili per finalità sociali e lo stato doveva farsi carico dei costi e delle diseconomie generati dagli investimenti; significava che l'IRI non doveva necessariamente seguire criteri imprenditoriali nella sua attività, ma investire secondo quelli che erano gli interessi della collettività anche quando ciò avrebbe generato "oneri impropri", cioè anche in investimenti antieconomici[5].
Questa prassi, generalmente ritenuta connaturata all'esistenza stessa dell'Iri per il suo essere azienda pubblica, non era in realtà data per scontata al momento della sua creazione. La pratica amministrativa del suo fondatore, Alberto Beneduce, si fondava al contrario sull'assoluto rigore di bilancio e sulla limitazione delle assunzioni all'essenziale per garantire un funzionamento snello ed efficiente dell'organizzazione[6]. Allo stesso modo, durante i primi anni di vita si scelse a livello gestionale di non procedere con operazioni di salvataggio, reali o camuffate[7].
Critico verso la prassi assistenzialista, in linea quindi con la falsariga del modello Beneduciano fu il secondo Presidente della Repubblica Italiana, il pur liberale Luigi Einaudi, che ebbe a dire: «L'impresa pubblica, se non sia informata a criteri economici, tende al tipo dell'ospizio di carità».
Si veda a raffronto, due paragrafi più in basso, l'incremento del numero di dipendenti Iri, aumento che solo in parte può essere spiegato con l'espansione dell'attività produttiva in capo all'ente.
Poiché gli obiettivi dello stato erano sviluppare l'economia del Mezzogiorno e mantenere la piena occupazione, l'IRI doveva concentrare i propri investimenti nel Sud ed incrementare l'occupazione nelle proprie aziende. La posizione di Petrilli rifletteva quelle già diffuse in alcune correnti della DC, che cercavano una "terza via" tra il liberismo ed il comunismo; il sistema misto delle imprese a partecipazione statale dell'IRI sembrava realizzare questo ibrido tra due sistemi agli antipodi.
Gli investimenti ed i salvataggi [modifica]
L'IRI effettivamente poneva in essere grandissimi investimenti nel Sud Italia, come la costruzione dell'Italsider di Taranto e quella dell'AlfaSud di Pomigliano d'Arco e di Pratola Serra in Irpinia; altri furono programmati senza essere mai essere realizzati, come il centro siderurgico di Gioia Tauro . Per evitare gravi crisi occupazionali, l'IRI venne spesso chiamato in soccorso di aziende private in difficoltà: ne sono esempi i "salvataggi" della Motta e dei Cantieri Navali Rinaldo Piaggio e l'acquisizione di aziende alimentari dalla Montedison; questo portò ad un incremento progressivo di attività e dipendenti dell'Istituto.
Gruppo IRI – andamento numero dipendenti[8]
Anno Dipendenti
1938 201.577
1950 218.529
1960 256.967
1970 357.082
1980 556.659
1985 483.714
1995 263.000
I debiti e la crisi [modifica]
All'IRI vennero richiesti ingentissimi investimenti anche in periodi di crisi, quando i privati riducevano i loro investimenti. Lo Stato erogava i cosiddetti "fondi di dotazione" all'IRI, che poi li allocava alle sue caposettore sotto forma di capitale; tali fondi però non erano mai sufficienti per finanziare gli enormi investimenti e spesso venivano erogati con ritardo. L'Istituto e le sue aziende dovevano quindi finanziarsi con l'indebitamento bancario, che negli anni Settanta crebbe a livelli vertiginosi: gli investimenti del gruppo IRI erano coperti da mezzi propri solo per il 14%; il caso più estremo era la Finsider dove nel 1981 questo rapporto scendeva al 5%[9]. Gli oneri finanziari portarono in rosso i conti dell'IRI e delle sue controllate: nel 1976 si verificò che tutte le aziende del settore pubblico chiusero in perdita[10]. In particolare, la siderurgia e la cantierisitica riportarono perdite fino agli anni '80, così come erano pessimi i risultati economici dell'Alfa Romeo. La gestione anti-economica delle aziende IRI portò gli azionisti privati ad uscire progressivamente dal loro capitale. All'inizio degli anni '80 i governi iniziarono un ripensamento sulla funzione e sulla gestione delle aziende pubbliche.
L'epoca Prodi [modifica]
Nel 1982 il governo affidò la presidenza dell'IRI a Romano Prodi. La nomina di un economista (seppur sempre politicamente di area democristiana, come il predecessore Pietro Sette) alla guida dell'IRI costituiva in effetti un segno di discontinuità rispetto al passato. La ristrutturazione dell'IRI durante la presidenza Prodi portò a:
la cessione di 29 aziende del gruppo, tra le quali la più grande fu l'Alfa Romeo, privatizzata nel 1986;
la diminuzione dei dipendenti, grazie alle cessioni ed a numerosi prepensionamenti, soprattutto nella siderurgia e nei cantieri navali;
la liquidazione di Finsider, Italsider ed Italstat;
lo scambio di alcune aziende tra STET e Finmeccanica;
la tentata vendita della SME al gruppo CIR di Carlo De Benedetti, che venne fortemente ostacolata dal governo di Bettino Craxi. Fu organizzata una cordata di imprese, comprendente anche Silvio Berlusconi che avanzarono un'offerta alternativa per bloccare la vendita. L'offerta non venne poi onorata per carenze finanziarie, ma intanto la vendita della SME sfumò. Prodi fu accusato di aver stabilito un prezzo troppo basso (vedi vicenda SME).
Il risultato fu che nel 1987, per la prima volta da più di un decennio, l'IRI riportò il bilancio in utile, e di questo Prodi fece sempre un vanto, anche se a proposito di ciò Enrico Cuccia affermò:
« (Prodi) nel 1988 ha solo imputato a riserve le perdite sulla siderurgia, perdendo come negli anni precedenti. »
( S.Bocconi, I ricordi di Cuccia. E quella sfiducia sugli italiani, Corriere della Sera, 12 novembre 2007)
È comunque indubbio che in quegli anni l'IRI aveva per lo meno cessato di crescere e di allargare il proprio campo di attività, come invece aveva fatto nel decennio precedente, e per la prima volta i governi cominciarono a parlare di "privatizzazioni".
L'accordo Andreatta-Van Miert [modifica]
Per le sorti dell'IRI fu decisiva l'accelerazione del processo di unificazione europea, che prevedeva l'unione doganale nel 1992 ed il successivo passaggio alla moneta unica sotto i vincoli del Trattato di Maastricht. Per garantire il principio della libera concorrenza, la Commissione Europea negli anni Ottanta aveva incominciato a contestare alcune pratiche messe in atto dai governi italiani, come la garanzia dello stato sui debiti delle aziende siderurgiche e la pratica di affidare i lavori pubblici all'interno del gruppo IRI senza indire gara d'appalto europea. Le ricapitalizzazioni delle aziende pubbliche e la garanzia dello Stato sui loro debiti furono da allora considerati aiuti di stato, in contrasto con i principi su cui si basava la Comunità Europea; l'Italia si trovò quindi nella necessità di riformare secondo criteri di gestione più vicini alle aziende private il suo settore pubblico incentrato su IRI, ENI ed EFIM. Nel luglio 1992 l'IRI e gli altri enti pubblici furono convertiti in Società per azioni. Nel luglio dell'anno successivo il commissario europeo alla Concorrenza Karel Van Miert contestò all'Italia la concessione di fondi pubblici all'EFIM, che non era più in grado di ripagare i propri debiti.
Per evitare una grave crisi d'insolvenza, Van Miert concluse con l'allora ministro degli Esteri Beniamino Andreatta un accordo che consentiva allo Stato italiano di pagare i debiti dell'EFIM, ma a condizione dell'impegno incondizionato a stabilizzare i debiti di IRI, ENI ed ENEL e poi a ridurlo progressivamente ad un livello comparabile con quello delle aziende private entro il 1996. Per ridurre in modo così sostanzioso i debiti degli ex-enti pubblici l'Italia non poteva che privatizzare gran parte delle aziende partecipate dall'IRI.
Le privatizzazioni [modifica]
L'accordo Andreatta-Van Miert impresse una forte accelerazione alle privatizzazioni, iniziate già nel 1992 con la vendita del Credito Italiano. Nonostante alcuni pareri contrari, il ministero del Tesoro scelse di non privatizzare l'IRI SpA, ma di smembrarlo e di vendere le sue aziende operative; tale linea politica fu inaugurata sotto il primo governo di Giuliano Amato e non fu mai messa realmente in discussione dai governi successivi. Raggiunti nel 1997 i livelli di indebitamento fissati dall'accordo Andreatta-Van Miert, le dismissioni dell'IRI proseguirono comunque e l'Istituto aveva perso qualsiasi funzione se non quella di vendere le sue attività e di avviarsi verso la liquidazione.
Tra il 1992 ed il 2000 l'IRI vendette partecipazioni e rami d'azienda che determinarono un incasso per il ministero del Tesoro, suo unico azionista, di 56.051 miliardi di lire, cui vanno aggiunti i debiti trasferiti.[11] Hanno suscitato critiche le cessioni ai privati, tra le altre, di aziende in posizione pressoché monopolistica come Telecom Italia ed Autostrade S.p.A., che hanno garantito agli acquirenti posizioni di rendita.
L'analisi della Corte dei Conti sulla stagione delle privatizzazioni [modifica]
Con un documento pubblicato il 10 febbraio 2010[12], ormai ultimata la stagione delle privatizzazioni che prese il via quasi 20 anni prima, la Corte dei Conti ha reso pubblico uno studio nel quale elabora la propria analisi sull'efficacia dei provvedimenti adottati. Il giudizio, che rimane neutrale, segnala sì un recupero di redditività da parte delle aziende passate sotto il controllo privato; un recupero che, tuttavia, non è dovuto alla ricerca di maggiore efficienza quanto piuttosto all'incremento delle tariffe di energia, autostrade, banche, etc ben al di sopra dei livelli di altri paesi Europei. A questo aumento, inoltre, non avrebbe fatto seguito alcun progetto di investimento volto a migliorare i servizi offerti.[13] Più secco è invece il giudizio sulle procedure di privatizzazione, che:
« evidenzia una serie di importanti criticità, che vanno dall'elevato livello dei costi sostenuti e dal loro incerto monitoraggio, alla scarsa trasparenza connaturata ad alcune delle procedure utilizzate in una serie di operazioni, dalla scarsa chiarezza del quadro della ripartizione delle responsabilità fra amministrazione, contractors ed organismi di consulenza al non sempre immediato impiego dei proventi nella riduzione del debito[14] »
La liquidazione [modifica]
Le poche aziende (Finmeccanica, Fincantieri, Fintecna, Alitalia e RAI) rimaste in mano all'IRI furono trasferite sotto il diretto controllo del Tesoro. Nonostante alcune proposte di mantenerlo in vita, trasformandolo in una non meglio precisata "agenzia per lo sviluppo", il 27 giugno 2000 l'IRI fu messo in liquidazione e nel 2002 fu incorporato in Fintecna, scomparendo definitivamente. Prima di essere incorporato dalla sua controllata ha però pagato un assegno al Ministero del Tesoro di oltre 5000 miliardi di lire, naturalmente dopo aver saldato ogni suo debito.
La governance dell’IRI [modifica]
Per la maggior parte della sua storia l’IRI è stato un ente pubblico economico, che rispondeva formalmente al Ministero delle Partecipazioni Statali, che fino agli anni ’80 fu ricoperto da esponenti della DC.
A capo dell’IRI vi erano un consiglio di amministrazione ed il comitato di presidenza, formato dal presidente e da membri nominati dai partiti di governo. Se il presidente dell’IRI fu sempre espressione della DC, la vicepresidenza fu spesso ricoperta da esponenti del PRI come Bruno Visentini (per più di vent’anni) prima e Pietro Armani poi, a controbilanciare il peso dei cattolici con quello dei grandi imprenditori privati e laici, di cui i repubblicani erano espressione. Le nomine ai vertici delle banche, delle finanziarie e delle maggiori aziende erano decise dal comitato di presidenza ma, soprattutto durante il mandato di Petrilli, i poteri erano concentrati nelle mani del presidente e di poche persone a lui vicine.
Dopo la trasformazione dell’IRI in società per azioni nel 1992, il consiglio d’amministrazione dell’Istituto fu ridotto a tre soli membri e l’influenza della DC e degli altri partiti, in un periodo in cui molti loro esponenti furono coinvolti nelle indagini di Tangentopoli, fu di molto ridotta. Negli anni delle privatizzazioni, la gestione dell’IRI fu accentrata nelle mani del Ministero del Tesoro.
Le partecipazioni IRI [modifica]
Le partecipazioni dell'IRI erano strutturate in una serie di holding di settore che a loro volta controllavano le società operative. Le principali aziende controllate dall'IRI sono state:
Banche di Interesse Nazionale
Banca Commerciale Italiana (secondo maggior azionista: Generali, Paribas), privatizzata con OPA nel 1994
Credito Italiano (secondo maggior azionista: Alleanza Assicurazioni 5%), privatizzata con OPA nel 1993
Banco di Roma (secondo maggior azionista: Toro Assicurazioni 10%, Banca Commerciale Italiana 5%), confluito nella Banca di Roma nel 1992
Siderurgia
Finsider: 99,82%. Ricostituita nel 1988 come Ilva, privatizzata "a pezzi" (operazione conclusa nel 1995)
Meccanica
Finmeccanica: 86,6%. La proprietà fu trasferita al Ministero dell'Economia e delle Finanze
Cantieristica
Fincantieri: 99,9%. La proprietà fu trasferita al Ministero dell'Economia e delle Finanze
Costruzioni
Italstat: 99.99%. Fusa nel 1991 in Iritecna, poi sostituita nel 1994 da Fintecna, la cui proprietà fu trasferita al Ministero dell'Economia e delle Finanze.
Telecomunicazioni
STET: 56,56%. Fusa nel 1997 con Telecom Italia, la cui proprietà fu trasferita al Ministero dell'Economia e delle Finanze e privatizzata nel 1997.
Trasporto via mare
Finmare: 99,88%. La proprietà del suo principale asset, Tirrenia fu inglobata in Fintecna e trasferita al Ministero dell'Economia e delle Finanze
Trasporto via cielo
Alitalia 89,3%. La proprietà fu trasferita al Ministero dell'Economia e delle Finanze
Trasporto via strada
Autostrade. La proprietà fu trasferita al Ministero dell'Economia e delle Finanze, poi privatizzata nel 1999
Alimentare
SME (secondo maggior azionista: Mediobanca 4%), privatizzata "a pezzi" negli anni '90.
Teleradiodiffusione
RAI 99,55%. La proprietà fu trasferita al Ministero dell'Economia e delle Finanze.
Altro
Cofiri: 100%
Sofin: 100%
Società per la Promozione e Sviluppo Industriale - SPI: 97,5%
Aerhotel: Ceduta a Starwood Hotels & Resorts Worldwide Inc.
Le ”Nuove IRI” [modifica]
In linguaggio giornalistico l’IRI è rimasto come paradigma della mano pubblica che raccoglie partecipazioni in aziende senza troppi criteri imprenditoriali. Così enti statali come la Cassa Depositi e Prestiti e Sviluppo Italia sono stati soprannominati “nuove IRI”, con una certa connotazione negativa, a sottolinearne le finalità politiche e clientelari che tenderebbero, secondo i critici, a prevalere su quelle economiche.[15]
Bilancio 1997 [modifica]
Nel 1997 IRI S.p.A. ha ottenuto 40095 miliardi di lire di ricavi, un utile di 4885 miliardi, debiti per 33831 miliardi, un indebitamento finanziario netto di 19579 miliardi, un patrimonio netto di 15480 miliardi, 4371 miliardi di partecipazioni in aziende controllate e collegate, 125415 dipendenti.
Fonte: Bilancio Consolidato IRI S.p.A. al 31.12.1997
Bilancio 1998 [modifica]
Nel 1998 IRI S.p.A. ha ottenuto 36150 miliardi di lire di ricavi, un utile di 3445 miliardi, debiti per 77448 miliardi, indebitamento finanziario netto di 12232 miliardi, 4236 miliardi di partecipazioni in aziende controllate e collegate, 18038 miliardi di patrimonio netto, 112651 dipendenti.
Fonte: Bilancio Consolidato IRI S.p.A. al 31.12.1998
Bilancio 1999 [modifica]
Nel 1999 IRI S.p.A. ha ottenuto 36348 miliardi di ricavi, un utile di 6640 miliardi, debiti per 63842 miliardi, un indebitamento finanziario netto di 6476 miliardi, 4201 miliardi di partecipazioni in controllate e collegate, patrimonio netto di 22312 miliardi, 108970 dipendenti.
Fonte: Bilancio Consolidato IRI S.p.A. al 31.12.1999
Presidenti [modifica]
Alberto Beneduce (1933-1939)
Francesco Giordani (1939-1943)
Alberto Asquini (1943-1944)
Vincenzo Tecchio (Commissario Alta Italia,1944-1945)
Leopoldo Piccardi (Commissario Alta Italia,1944-1946)
Giuseppe Paratore (1946-1947)
Imbriani Longo (1947)
Enrico Marchesano (1948-1950)
Isidoro Bonini (1950-1955)
Aldo Fascetti (1956-1960)
Giuseppe Petrilli (1960-1979)
Pietro Sette (1979-1982)
Romano Prodi (1982-1989)
Franco Nobili (1989-1993)
Romano Prodi (1993-1994)
Michele Tedeschi (1994-1997)
Gian Maria Gros-Pietro (1997-1999)
Piero Gnudi (1999-2002)
Note [modifica]
^ Archivio storico www.corriere.it
^ Istituto per la Ricostruzione Industriale, dal sito in inglese.
^ Mimmo Franzinelli, Marco Magnani, Beneduce, il finanziere di Mussolini, Mondadori 2009, pagg. 229-230
^ Petrilli pubblicò un libro intitolato Lo stato imprenditore, Cappelli, Bologna 1967; citato da M. Pini, I giorni dell'IRI, Arnoldo Mondadori, 2004, pag. 26 e bibliografia a pag. 298
^ M. Pini, I giorni dell'IRI, pag. 26
^ M. Franzinelli, M. Magnani, Beneduce, il finanziere di Mussolini, Mondadori 2009, pag. 239
^ ibidem, pagg. 230-31
^ da P. Bianchi, La rincorsa frenata-L’industria italiana dall’unità nazionale all’unificazione europea, Il Mulino, 2002
^ M.Pini, I giorni dell'IRI, Mondadori, 2004, pag. 67
^ V.Castronovo, Storia dell'Industria italiana, Mondadori, 2003
^ Mediobanca Ricerche e Studi,Le privatizzazioni in Italia dal 1992, 2000
^ La Corte dei Conti svela il lato oscuro delle privatizzazioni, 27 gen 2010, Il Giornale
^ Con privatizzazioni tariffe alte, 26 feb 2010, TgCom
^ Corte dei Conti: le ex aziende pubbliche ora fanno i soldi grazie a tariffe più care, 26 feb 2010, Corriere della Sera
^ Si veda ad esempio il titolo del seguente articolo sulla Cassa Depositi e Prestiti: F.M. Mucciarelli, Verso una nuova IRI ?, dal sito [1]
Bibliografia [modifica]
Vera Lutz, Italy: A Study in Economic Development, Oxford, Oxford University Press, 1962.
Pasquale Saraceno, Il sistema delle imprese a partecipazione statale nell'esperienza italiana, Milano, Giuffrè, 1975.
Bruno Amoroso - O.J. Olsen, Lo stato imprenditore, Bari, Laterza, 1978.
Mario Ferrari Aggradi, Origini e sviluppo dell'industria pubblica in Italia, in "Civitas", sett.-ott. 1982.
Nico Perrone, Il dissesto programmato. Le partecipazioni statali nel sistema di consenso democristiano, Bari, Dedalo, 1992 ISBN 8-82206-115-2
Massimo Pini, I giorni dell'IRI - Storie e misfatti da Beneduce a Prodi, Arnoldo Mondadori Editore, 2004. ISBN 88-04-52950-4
Mimmo Franzinelli, Marco Magnani. Beneduce: il finanziere di Mussolini, Milano, Mondadori, 2009. ISBN 9788804585930.
Voci correlate [modifica]
Statalizzazione
Alberto Beneduce
Politica economica fascista
Partecipazioni statali
Azienda pubblica
Impresa pubblica
Privatizzazioni
Intersind
Processo SME
Romano Prodi
Storia della siderurgia
Collegamenti esterni [modifica]
Fondazione IRI
Le sentenze sulla SME
Portale Economia
Portale Fascismo
Portale Italia
Categorie: Istituzioni dell'Italia fascista | Aziende del gruppo IRI | Società di investimento italiane cessate | Enti e istituti soppressi | Economia politica | Economia dell'Italia fascista | Storia economica | Aziende del passato italiane
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Ultima modifica per la pagina: 15:04, 15 ago 2011.
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(Luigi Einaudi)
L’IRI - acronimo di Istituto per la Ricostruzione Industriale - è stato un ente pubblico italiano, istituito nel 1933 per iniziativa dell’allora capo del Governo Benito Mussolini al fine di evitare il fallimento delle principali banche italiane (Commerciale, Credito Italiano e Banco di Roma) e con esse il crollo dell’economia, già provata dalla crisi economica mondiale iniziata nel 1929.
Nel dopoguerra allargò progressivamente i suoi settori di intervento e fu l'ente che modernizzò e rilanciò l'economia italiana durante soprattutto gli anni '50 e '60; nel 1980 l'IRI era un gruppo di circa 1.000 società con più di 500.000 dipendenti. Per molti anni l'IRI fu la più grande azienda industriale al di fuori degli Stati Uniti d'America; nel 1992 chiudeva l'anno con 75.912 miliardi di lire di fatturato ma con 5.182 miliardi di perdite.[1] Ancora nel 1993 l'IRI si trovava al settimo posto nella classifica delle maggiori società del mondo per fatturato, con 67.5 miliardi di dollari di vendite.[2] Trasformato in società per azioni nel 1992, cessò di esistere dieci anni dopo.
Indice [nascondi]
1 Storia
1.1 Le origini
1.2 IRI ente permanente
1.3 Il dopoguerra
1.4 "La formula IRI"
1.5 La teoria degli "oneri impropri"
1.6 Gli investimenti ed i salvataggi
1.7 I debiti e la crisi
1.8 L'epoca Prodi
1.9 L'accordo Andreatta-Van Miert
1.10 Le privatizzazioni
1.11 L'analisi della Corte dei Conti sulla stagione delle privatizzazioni
1.12 La liquidazione
2 La governance dell’IRI
3 Le partecipazioni IRI
4 Le ”Nuove IRI”
5 Bilancio 1997
6 Bilancio 1998
7 Bilancio 1999
8 Presidenti
9 Note
10 Bibliografia
11 Voci correlate
12 Collegamenti esterni
Storia [modifica]
Le origini [modifica]
l'Iri nacque come ente temporaneo con lo scopo prettamente di salvataggio delle banche e delle aziende a loro connesse. Il nuovo ente era formato da una "Sezione finanziamenti" e una "Sezione smobilizzi". Nel 1930 la crisi di liquidità del Credito Italiano portò alla fusione con la Banca nazionale di credito. Il Credito Italiano assunse le attività e le passività a breve scadenza della Banca nazionale del credito (BNC), cedendole gran parte degli investimenti a lunga scadenza. In un secondo momento la BNC cedette le sue partecipazioni in società industriali alla Società Finanziaria Italiana (Sfi), mentre le partecipazioni immobiliari e le partecipazioni in aziende di pubblica utilità furono trasferite alla Società Elettrofinanziaria. Sfi e Società Elettrofinanziaria furono messe in liquidazione nel 1934 dopo essere passate sotto il controllo dell'IRI.
Nel 1931 l'intervento pubblico riguardò la Banca Commerciale Italiana che, di fronte alla crisi del 1929, aveva aumentato la propria esposizione verso il sistema industriale. Il crollo delle quotazioni azionarie richiese l'intervento statale, che si concretizzò nella cessione dalla Comit alla Società Finanziaria Industriale Italiana della totalità delle azioni possedute dalla banca.
Nel pieno della crisi la Banca d'Italia si trovò esposta verso l'Istituto di liquidazioni, un ente pubblico creato nel 1926 per sostenere finanziariamente le imprese in crisi, e verso le banche, per oltre 7 miliardi, ovvero oltre il 50% del circolante.
Lo Stato assunse dunque le partecipazioni delle banche in crisi, finanziandole affinché non fallissero. Le partecipazioni furono poi trasferite all'IRI, la cui principale preoccupazione divenne rimborsare alla Banca d'Italia il capitale ricevuto. Una volta trasferite le quote all'Istituto, questo avviò una propria campagna di mobilitazione del credito attraverso lo strumento delle obbligazioni industriali garantite dallo Stato. L'operazione fu l'applicazione in larga scala di quanto era già stato abbozzato con l'INA, ovvero l'organizzazione del piccolo risparmio che le banche, vincolate in legami a doppio filo con il sistema industriale, non riuscivano ad impiegare in reali processi di sviluppo.
In questo modo l'IRI, e quindi lo Stato, smobilizzò le banche miste, diventando contemporanenamente proprietario di oltre il 20% dell'intero capitale azionario nazionale e di fatto il maggiore imprenditore italiano, con aziende come Ansaldo, Ilva, Cantieri Riuniti dell'Adriatico, SIP, SME, Terni, Edison. Si trattava in effetti di aziende che già da molti anni erano vicine al settore pubblico, sostenute da politiche tariffarie favorevoli e da commesse belliche. Inoltre l'IRI possedeva le tre maggiori banche italiane.
Al 1934, il valore nominale del patrimonio industriale era di 16,7 miliardi di lire, pari al 14,3% del Pil. Tra i principali trasferimenti all'ente figuravano[3]:
la quasi totalità dell'industria degli armanenti
i servizi di telecomunicazione di gran parte dell'Italia
un'altissima quota della produzione di energia elettrica
una notevole quota dell'industria siderurgica civile
tra l'80% ed il 90% del settore di costruzioni navali e dell'industria della navigazione
Primo presidente, oltre che tra gli artefici della creazione dell'ente, fu Alberto Beneduce, economista di tradizione Socialista e fiduciario del Presidente del Consiglio dei Ministri.
IRI ente permanente [modifica]
Inizialmente era previsto che l'IRI fosse un ente provvisorio il cui scopo era limitato alla dismissione delle attività così acquisite. Ciò in effetti avvenne con la Edison, che fu ceduta ai privati, ma nel 1937 il governo trasformò l'IRI in un ente pubblico permanente; in questo probabilmente influirono lo scopo di mettere in atto la politica autarchica lanciata dal governo e di tenere sotto controllo del governo le aziende navali ed aeronautiche, mentre era in corso la guerra d'Etiopia.
Per finanziare le sue aziende l'IRI emise negli anni Trenta dei prestiti obbligazionari garantiti dallo Stato, risolvendo in questo modo il problema della scarsità di capitali privati. L'IRI si diede una struttura che raggruppava le sue partecipazioni per aree merceologiche: l'Istituto sottoscriveva il capitale di società finanziarie (le "caposettore") che a loro volta possedevano il capitale delle società operative; così nel 1936 nacque la Finmare, nel 1937 la Finsider e la STET, poi nel dopoguerra Finmeccanica, Fincantieri e Finelettrica.
Il dopoguerra [modifica]
Nel dopoguerra la sopravvivenza dell'Istituto non era data per certa, essendo nato più come una soluzione provvisoria che con un orizzonte di lungo termine; di fatto però risultava difficile per lo stato cedere ai privati aziende che richiedevano grandi investimenti e davano ritorni sul lunghissimo periodo. Così l'IRI mantenne la struttura che aveva sotto il fascismo.
Solo dopo il 1950 la funzione dell'IRI fu meglio definita: una nuova spinta propulsiva per l'IRI venne da Oscar Sinigaglia, che con il suo piano per aumentare la capacità produttiva della siderurgia italiana strinse un'alleanza con gli industriali privati; si venne così a creare un nuovo ruolo per l'IRI, cioè quello di sviluppare la grande industria di base e le infrastrutture necessarie al paese, non in "supplenza" dei privati ma in una tacita suddivisione dei compiti. Ne furono esempi lo sviluppo dell'industria siderurgica, quello della rete telefonica e la costruzione dell'Autostrada del Sole, iniziata nel 1956.
"La formula IRI" [modifica]
Negli anni '60, mentre l'economia italiana cresceva ad alti ritmi, l'IRI era tra i protagonisti del "miracolo" italiano. Altri paesi europei, in particolare i governi laburisti inglesi, guardavano alla "formula IRI" come ad un esempio positivo di intervento dello stato dell'economia, migliore della semplice "nazionalizzazione" perché permetteva una cooperazione tra capitale pubblico e capitale privato.
In molte aziende del gruppo il capitale era misto, in parte pubblico, in parte privato. Molte aziende del gruppo IRI rimasero quotate in borsa e le obbligazioni emesse dall'Istituto per finanziare le proprie imprese erano sottoscritte in massa dai risparmiatori.
La teoria degli "oneri impropri" [modifica]
Ai vertici dell'IRI si insediarono esponenti della DC come Giuseppe Petrilli, presidente dell'Istituto per quasi vent'anni (dal 1960 al 1979). Petrilli nei suoi scritti elaborò una teoria che sottolineava gli effetti positivi della "formula IRI"[4]. Attraverso l'IRI le imprese erano utilizzabili per finalità sociali e lo stato doveva farsi carico dei costi e delle diseconomie generati dagli investimenti; significava che l'IRI non doveva necessariamente seguire criteri imprenditoriali nella sua attività, ma investire secondo quelli che erano gli interessi della collettività anche quando ciò avrebbe generato "oneri impropri", cioè anche in investimenti antieconomici[5].
Questa prassi, generalmente ritenuta connaturata all'esistenza stessa dell'Iri per il suo essere azienda pubblica, non era in realtà data per scontata al momento della sua creazione. La pratica amministrativa del suo fondatore, Alberto Beneduce, si fondava al contrario sull'assoluto rigore di bilancio e sulla limitazione delle assunzioni all'essenziale per garantire un funzionamento snello ed efficiente dell'organizzazione[6]. Allo stesso modo, durante i primi anni di vita si scelse a livello gestionale di non procedere con operazioni di salvataggio, reali o camuffate[7].
Critico verso la prassi assistenzialista, in linea quindi con la falsariga del modello Beneduciano fu il secondo Presidente della Repubblica Italiana, il pur liberale Luigi Einaudi, che ebbe a dire: «L'impresa pubblica, se non sia informata a criteri economici, tende al tipo dell'ospizio di carità».
Si veda a raffronto, due paragrafi più in basso, l'incremento del numero di dipendenti Iri, aumento che solo in parte può essere spiegato con l'espansione dell'attività produttiva in capo all'ente.
Poiché gli obiettivi dello stato erano sviluppare l'economia del Mezzogiorno e mantenere la piena occupazione, l'IRI doveva concentrare i propri investimenti nel Sud ed incrementare l'occupazione nelle proprie aziende. La posizione di Petrilli rifletteva quelle già diffuse in alcune correnti della DC, che cercavano una "terza via" tra il liberismo ed il comunismo; il sistema misto delle imprese a partecipazione statale dell'IRI sembrava realizzare questo ibrido tra due sistemi agli antipodi.
Gli investimenti ed i salvataggi [modifica]
L'IRI effettivamente poneva in essere grandissimi investimenti nel Sud Italia, come la costruzione dell'Italsider di Taranto e quella dell'AlfaSud di Pomigliano d'Arco e di Pratola Serra in Irpinia; altri furono programmati senza essere mai essere realizzati, come il centro siderurgico di Gioia Tauro . Per evitare gravi crisi occupazionali, l'IRI venne spesso chiamato in soccorso di aziende private in difficoltà: ne sono esempi i "salvataggi" della Motta e dei Cantieri Navali Rinaldo Piaggio e l'acquisizione di aziende alimentari dalla Montedison; questo portò ad un incremento progressivo di attività e dipendenti dell'Istituto.
Gruppo IRI – andamento numero dipendenti[8]
Anno Dipendenti
1938 201.577
1950 218.529
1960 256.967
1970 357.082
1980 556.659
1985 483.714
1995 263.000
I debiti e la crisi [modifica]
All'IRI vennero richiesti ingentissimi investimenti anche in periodi di crisi, quando i privati riducevano i loro investimenti. Lo Stato erogava i cosiddetti "fondi di dotazione" all'IRI, che poi li allocava alle sue caposettore sotto forma di capitale; tali fondi però non erano mai sufficienti per finanziare gli enormi investimenti e spesso venivano erogati con ritardo. L'Istituto e le sue aziende dovevano quindi finanziarsi con l'indebitamento bancario, che negli anni Settanta crebbe a livelli vertiginosi: gli investimenti del gruppo IRI erano coperti da mezzi propri solo per il 14%; il caso più estremo era la Finsider dove nel 1981 questo rapporto scendeva al 5%[9]. Gli oneri finanziari portarono in rosso i conti dell'IRI e delle sue controllate: nel 1976 si verificò che tutte le aziende del settore pubblico chiusero in perdita[10]. In particolare, la siderurgia e la cantierisitica riportarono perdite fino agli anni '80, così come erano pessimi i risultati economici dell'Alfa Romeo. La gestione anti-economica delle aziende IRI portò gli azionisti privati ad uscire progressivamente dal loro capitale. All'inizio degli anni '80 i governi iniziarono un ripensamento sulla funzione e sulla gestione delle aziende pubbliche.
L'epoca Prodi [modifica]
Nel 1982 il governo affidò la presidenza dell'IRI a Romano Prodi. La nomina di un economista (seppur sempre politicamente di area democristiana, come il predecessore Pietro Sette) alla guida dell'IRI costituiva in effetti un segno di discontinuità rispetto al passato. La ristrutturazione dell'IRI durante la presidenza Prodi portò a:
la cessione di 29 aziende del gruppo, tra le quali la più grande fu l'Alfa Romeo, privatizzata nel 1986;
la diminuzione dei dipendenti, grazie alle cessioni ed a numerosi prepensionamenti, soprattutto nella siderurgia e nei cantieri navali;
la liquidazione di Finsider, Italsider ed Italstat;
lo scambio di alcune aziende tra STET e Finmeccanica;
la tentata vendita della SME al gruppo CIR di Carlo De Benedetti, che venne fortemente ostacolata dal governo di Bettino Craxi. Fu organizzata una cordata di imprese, comprendente anche Silvio Berlusconi che avanzarono un'offerta alternativa per bloccare la vendita. L'offerta non venne poi onorata per carenze finanziarie, ma intanto la vendita della SME sfumò. Prodi fu accusato di aver stabilito un prezzo troppo basso (vedi vicenda SME).
Il risultato fu che nel 1987, per la prima volta da più di un decennio, l'IRI riportò il bilancio in utile, e di questo Prodi fece sempre un vanto, anche se a proposito di ciò Enrico Cuccia affermò:
« (Prodi) nel 1988 ha solo imputato a riserve le perdite sulla siderurgia, perdendo come negli anni precedenti. »
( S.Bocconi, I ricordi di Cuccia. E quella sfiducia sugli italiani, Corriere della Sera, 12 novembre 2007)
È comunque indubbio che in quegli anni l'IRI aveva per lo meno cessato di crescere e di allargare il proprio campo di attività, come invece aveva fatto nel decennio precedente, e per la prima volta i governi cominciarono a parlare di "privatizzazioni".
L'accordo Andreatta-Van Miert [modifica]
Per le sorti dell'IRI fu decisiva l'accelerazione del processo di unificazione europea, che prevedeva l'unione doganale nel 1992 ed il successivo passaggio alla moneta unica sotto i vincoli del Trattato di Maastricht. Per garantire il principio della libera concorrenza, la Commissione Europea negli anni Ottanta aveva incominciato a contestare alcune pratiche messe in atto dai governi italiani, come la garanzia dello stato sui debiti delle aziende siderurgiche e la pratica di affidare i lavori pubblici all'interno del gruppo IRI senza indire gara d'appalto europea. Le ricapitalizzazioni delle aziende pubbliche e la garanzia dello Stato sui loro debiti furono da allora considerati aiuti di stato, in contrasto con i principi su cui si basava la Comunità Europea; l'Italia si trovò quindi nella necessità di riformare secondo criteri di gestione più vicini alle aziende private il suo settore pubblico incentrato su IRI, ENI ed EFIM. Nel luglio 1992 l'IRI e gli altri enti pubblici furono convertiti in Società per azioni. Nel luglio dell'anno successivo il commissario europeo alla Concorrenza Karel Van Miert contestò all'Italia la concessione di fondi pubblici all'EFIM, che non era più in grado di ripagare i propri debiti.
Per evitare una grave crisi d'insolvenza, Van Miert concluse con l'allora ministro degli Esteri Beniamino Andreatta un accordo che consentiva allo Stato italiano di pagare i debiti dell'EFIM, ma a condizione dell'impegno incondizionato a stabilizzare i debiti di IRI, ENI ed ENEL e poi a ridurlo progressivamente ad un livello comparabile con quello delle aziende private entro il 1996. Per ridurre in modo così sostanzioso i debiti degli ex-enti pubblici l'Italia non poteva che privatizzare gran parte delle aziende partecipate dall'IRI.
Le privatizzazioni [modifica]
L'accordo Andreatta-Van Miert impresse una forte accelerazione alle privatizzazioni, iniziate già nel 1992 con la vendita del Credito Italiano. Nonostante alcuni pareri contrari, il ministero del Tesoro scelse di non privatizzare l'IRI SpA, ma di smembrarlo e di vendere le sue aziende operative; tale linea politica fu inaugurata sotto il primo governo di Giuliano Amato e non fu mai messa realmente in discussione dai governi successivi. Raggiunti nel 1997 i livelli di indebitamento fissati dall'accordo Andreatta-Van Miert, le dismissioni dell'IRI proseguirono comunque e l'Istituto aveva perso qualsiasi funzione se non quella di vendere le sue attività e di avviarsi verso la liquidazione.
Tra il 1992 ed il 2000 l'IRI vendette partecipazioni e rami d'azienda che determinarono un incasso per il ministero del Tesoro, suo unico azionista, di 56.051 miliardi di lire, cui vanno aggiunti i debiti trasferiti.[11] Hanno suscitato critiche le cessioni ai privati, tra le altre, di aziende in posizione pressoché monopolistica come Telecom Italia ed Autostrade S.p.A., che hanno garantito agli acquirenti posizioni di rendita.
L'analisi della Corte dei Conti sulla stagione delle privatizzazioni [modifica]
Con un documento pubblicato il 10 febbraio 2010[12], ormai ultimata la stagione delle privatizzazioni che prese il via quasi 20 anni prima, la Corte dei Conti ha reso pubblico uno studio nel quale elabora la propria analisi sull'efficacia dei provvedimenti adottati. Il giudizio, che rimane neutrale, segnala sì un recupero di redditività da parte delle aziende passate sotto il controllo privato; un recupero che, tuttavia, non è dovuto alla ricerca di maggiore efficienza quanto piuttosto all'incremento delle tariffe di energia, autostrade, banche, etc ben al di sopra dei livelli di altri paesi Europei. A questo aumento, inoltre, non avrebbe fatto seguito alcun progetto di investimento volto a migliorare i servizi offerti.[13] Più secco è invece il giudizio sulle procedure di privatizzazione, che:
« evidenzia una serie di importanti criticità, che vanno dall'elevato livello dei costi sostenuti e dal loro incerto monitoraggio, alla scarsa trasparenza connaturata ad alcune delle procedure utilizzate in una serie di operazioni, dalla scarsa chiarezza del quadro della ripartizione delle responsabilità fra amministrazione, contractors ed organismi di consulenza al non sempre immediato impiego dei proventi nella riduzione del debito[14] »
La liquidazione [modifica]
Le poche aziende (Finmeccanica, Fincantieri, Fintecna, Alitalia e RAI) rimaste in mano all'IRI furono trasferite sotto il diretto controllo del Tesoro. Nonostante alcune proposte di mantenerlo in vita, trasformandolo in una non meglio precisata "agenzia per lo sviluppo", il 27 giugno 2000 l'IRI fu messo in liquidazione e nel 2002 fu incorporato in Fintecna, scomparendo definitivamente. Prima di essere incorporato dalla sua controllata ha però pagato un assegno al Ministero del Tesoro di oltre 5000 miliardi di lire, naturalmente dopo aver saldato ogni suo debito.
La governance dell’IRI [modifica]
Per la maggior parte della sua storia l’IRI è stato un ente pubblico economico, che rispondeva formalmente al Ministero delle Partecipazioni Statali, che fino agli anni ’80 fu ricoperto da esponenti della DC.
A capo dell’IRI vi erano un consiglio di amministrazione ed il comitato di presidenza, formato dal presidente e da membri nominati dai partiti di governo. Se il presidente dell’IRI fu sempre espressione della DC, la vicepresidenza fu spesso ricoperta da esponenti del PRI come Bruno Visentini (per più di vent’anni) prima e Pietro Armani poi, a controbilanciare il peso dei cattolici con quello dei grandi imprenditori privati e laici, di cui i repubblicani erano espressione. Le nomine ai vertici delle banche, delle finanziarie e delle maggiori aziende erano decise dal comitato di presidenza ma, soprattutto durante il mandato di Petrilli, i poteri erano concentrati nelle mani del presidente e di poche persone a lui vicine.
Dopo la trasformazione dell’IRI in società per azioni nel 1992, il consiglio d’amministrazione dell’Istituto fu ridotto a tre soli membri e l’influenza della DC e degli altri partiti, in un periodo in cui molti loro esponenti furono coinvolti nelle indagini di Tangentopoli, fu di molto ridotta. Negli anni delle privatizzazioni, la gestione dell’IRI fu accentrata nelle mani del Ministero del Tesoro.
Le partecipazioni IRI [modifica]
Le partecipazioni dell'IRI erano strutturate in una serie di holding di settore che a loro volta controllavano le società operative. Le principali aziende controllate dall'IRI sono state:
Banche di Interesse Nazionale
Banca Commerciale Italiana (secondo maggior azionista: Generali, Paribas), privatizzata con OPA nel 1994
Credito Italiano (secondo maggior azionista: Alleanza Assicurazioni 5%), privatizzata con OPA nel 1993
Banco di Roma (secondo maggior azionista: Toro Assicurazioni 10%, Banca Commerciale Italiana 5%), confluito nella Banca di Roma nel 1992
Siderurgia
Finsider: 99,82%. Ricostituita nel 1988 come Ilva, privatizzata "a pezzi" (operazione conclusa nel 1995)
Meccanica
Finmeccanica: 86,6%. La proprietà fu trasferita al Ministero dell'Economia e delle Finanze
Cantieristica
Fincantieri: 99,9%. La proprietà fu trasferita al Ministero dell'Economia e delle Finanze
Costruzioni
Italstat: 99.99%. Fusa nel 1991 in Iritecna, poi sostituita nel 1994 da Fintecna, la cui proprietà fu trasferita al Ministero dell'Economia e delle Finanze.
Telecomunicazioni
STET: 56,56%. Fusa nel 1997 con Telecom Italia, la cui proprietà fu trasferita al Ministero dell'Economia e delle Finanze e privatizzata nel 1997.
Trasporto via mare
Finmare: 99,88%. La proprietà del suo principale asset, Tirrenia fu inglobata in Fintecna e trasferita al Ministero dell'Economia e delle Finanze
Trasporto via cielo
Alitalia 89,3%. La proprietà fu trasferita al Ministero dell'Economia e delle Finanze
Trasporto via strada
Autostrade. La proprietà fu trasferita al Ministero dell'Economia e delle Finanze, poi privatizzata nel 1999
Alimentare
SME (secondo maggior azionista: Mediobanca 4%), privatizzata "a pezzi" negli anni '90.
Teleradiodiffusione
RAI 99,55%. La proprietà fu trasferita al Ministero dell'Economia e delle Finanze.
Altro
Cofiri: 100%
Sofin: 100%
Società per la Promozione e Sviluppo Industriale - SPI: 97,5%
Aerhotel: Ceduta a Starwood Hotels & Resorts Worldwide Inc.
Le ”Nuove IRI” [modifica]
In linguaggio giornalistico l’IRI è rimasto come paradigma della mano pubblica che raccoglie partecipazioni in aziende senza troppi criteri imprenditoriali. Così enti statali come la Cassa Depositi e Prestiti e Sviluppo Italia sono stati soprannominati “nuove IRI”, con una certa connotazione negativa, a sottolinearne le finalità politiche e clientelari che tenderebbero, secondo i critici, a prevalere su quelle economiche.[15]
Bilancio 1997 [modifica]
Nel 1997 IRI S.p.A. ha ottenuto 40095 miliardi di lire di ricavi, un utile di 4885 miliardi, debiti per 33831 miliardi, un indebitamento finanziario netto di 19579 miliardi, un patrimonio netto di 15480 miliardi, 4371 miliardi di partecipazioni in aziende controllate e collegate, 125415 dipendenti.
Fonte: Bilancio Consolidato IRI S.p.A. al 31.12.1997
Bilancio 1998 [modifica]
Nel 1998 IRI S.p.A. ha ottenuto 36150 miliardi di lire di ricavi, un utile di 3445 miliardi, debiti per 77448 miliardi, indebitamento finanziario netto di 12232 miliardi, 4236 miliardi di partecipazioni in aziende controllate e collegate, 18038 miliardi di patrimonio netto, 112651 dipendenti.
Fonte: Bilancio Consolidato IRI S.p.A. al 31.12.1998
Bilancio 1999 [modifica]
Nel 1999 IRI S.p.A. ha ottenuto 36348 miliardi di ricavi, un utile di 6640 miliardi, debiti per 63842 miliardi, un indebitamento finanziario netto di 6476 miliardi, 4201 miliardi di partecipazioni in controllate e collegate, patrimonio netto di 22312 miliardi, 108970 dipendenti.
Fonte: Bilancio Consolidato IRI S.p.A. al 31.12.1999
Presidenti [modifica]
Alberto Beneduce (1933-1939)
Francesco Giordani (1939-1943)
Alberto Asquini (1943-1944)
Vincenzo Tecchio (Commissario Alta Italia,1944-1945)
Leopoldo Piccardi (Commissario Alta Italia,1944-1946)
Giuseppe Paratore (1946-1947)
Imbriani Longo (1947)
Enrico Marchesano (1948-1950)
Isidoro Bonini (1950-1955)
Aldo Fascetti (1956-1960)
Giuseppe Petrilli (1960-1979)
Pietro Sette (1979-1982)
Romano Prodi (1982-1989)
Franco Nobili (1989-1993)
Romano Prodi (1993-1994)
Michele Tedeschi (1994-1997)
Gian Maria Gros-Pietro (1997-1999)
Piero Gnudi (1999-2002)
Note [modifica]
^ Archivio storico www.corriere.it
^ Istituto per la Ricostruzione Industriale, dal sito in inglese.
^ Mimmo Franzinelli, Marco Magnani, Beneduce, il finanziere di Mussolini, Mondadori 2009, pagg. 229-230
^ Petrilli pubblicò un libro intitolato Lo stato imprenditore, Cappelli, Bologna 1967; citato da M. Pini, I giorni dell'IRI, Arnoldo Mondadori, 2004, pag. 26 e bibliografia a pag. 298
^ M. Pini, I giorni dell'IRI, pag. 26
^ M. Franzinelli, M. Magnani, Beneduce, il finanziere di Mussolini, Mondadori 2009, pag. 239
^ ibidem, pagg. 230-31
^ da P. Bianchi, La rincorsa frenata-L’industria italiana dall’unità nazionale all’unificazione europea, Il Mulino, 2002
^ M.Pini, I giorni dell'IRI, Mondadori, 2004, pag. 67
^ V.Castronovo, Storia dell'Industria italiana, Mondadori, 2003
^ Mediobanca Ricerche e Studi,Le privatizzazioni in Italia dal 1992, 2000
^ La Corte dei Conti svela il lato oscuro delle privatizzazioni, 27 gen 2010, Il Giornale
^ Con privatizzazioni tariffe alte, 26 feb 2010, TgCom
^ Corte dei Conti: le ex aziende pubbliche ora fanno i soldi grazie a tariffe più care, 26 feb 2010, Corriere della Sera
^ Si veda ad esempio il titolo del seguente articolo sulla Cassa Depositi e Prestiti: F.M. Mucciarelli, Verso una nuova IRI ?, dal sito [1]
Bibliografia [modifica]
Vera Lutz, Italy: A Study in Economic Development, Oxford, Oxford University Press, 1962.
Pasquale Saraceno, Il sistema delle imprese a partecipazione statale nell'esperienza italiana, Milano, Giuffrè, 1975.
Bruno Amoroso - O.J. Olsen, Lo stato imprenditore, Bari, Laterza, 1978.
Mario Ferrari Aggradi, Origini e sviluppo dell'industria pubblica in Italia, in "Civitas", sett.-ott. 1982.
Nico Perrone, Il dissesto programmato. Le partecipazioni statali nel sistema di consenso democristiano, Bari, Dedalo, 1992 ISBN 8-82206-115-2
Massimo Pini, I giorni dell'IRI - Storie e misfatti da Beneduce a Prodi, Arnoldo Mondadori Editore, 2004. ISBN 88-04-52950-4
Mimmo Franzinelli, Marco Magnani. Beneduce: il finanziere di Mussolini, Milano, Mondadori, 2009. ISBN 9788804585930.
Voci correlate [modifica]
Statalizzazione
Alberto Beneduce
Politica economica fascista
Partecipazioni statali
Azienda pubblica
Impresa pubblica
Privatizzazioni
Intersind
Processo SME
Romano Prodi
Storia della siderurgia
Collegamenti esterni [modifica]
Fondazione IRI
Le sentenze sulla SME
Portale Economia
Portale Fascismo
Portale Italia
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Ultima modifica per la pagina: 15:04, 15 ago 2011.
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La truffa del signoraggio monetario
Coloro che comandano veramente il mondo sono i banchieri ed i petrolieri, non i politici..
Con questa premessa voglio introdurvi al grande raggiro del signoraggio delle banche, una delle più grandi truffe del nostro tempo. Chi fabbrica le banconote ? in teoria dovrebbe essere lo stato ma in pratica sono le banche. Inizialmente le banconote italiane, le nostre vecchie lire, riportavano la scritta REPUBBLICA ITALIANA.
Successivamente, sono state introdotte banconote con la scritta BANCA D' ITALIA.
A quel punto infatti, non era più la nostra REPUBBLICA ITALIANA a stampare le nostre lire ma la BANCA D' ITALIA che è una azienda privata, una società per azioni. Se prendiamo una moderna banconota ad esempio da 5 € noteremo in alto le varie sigle BCE ECB EZB EKT EKP riconducibili alla BANCA CENTRALE EUROPEA, una banca che non è di proprietà dell' unione europea ma di privati imprenditori. Sarebbe stato giusto trovare il logo UE (Unione Europea) e non BCE. Questo è un concetto importantissimo, dei privati imprenditori gestiscono la sovranità monetaria che dovrebbe invece essere prerogativa degli stati e dei governi. Quando la Banca Centrale Europea stampa ad esempio una banconota da 100 € essa spende al massimo tra manodopera e materie prime, 30 centesimi di euro e la rivende alla nazione che la richiede al costo di 103 € e se consideriamo che ha speso solo 30 centesimi per fabbricarla, il guadagno è di 102,70 € per aver fatto un singolo pezzo di carta. In teoria la sovranità monetaria dovrebbe appartenere esclusivamente allo stato che la esercita in nome del popolo per un giusto assetto economico, ma essa è stata estirpata a favore di privati banchieri che adesso controllano tutta l' economia.
IN PAROLE POVERE, i soldi che lo stato prende dalla BCE sono prestati e vanno restituiti con gli interessi, ecco a cosa servono le tasse, ad arricchire quei pelandroni dei banchieri. Come avrete ormai capito, il famigerato debito pubblico è una truffa, una scorrettezza dovuta al fatto che i nostri politici hanno venduto la nostra sovranità monetaria alle banche.
BANCONOTA STAMPATA DALLA REPUBBLICA ITALIANA
BANCONOTA STAMPATA DALLA BANCA D' ITALIA
BANCONOTA STAMPATA DALLA BANCA CENTRALE EUROPEA
Le radici del Male FONTE
Al peggio non c’è mai fine, mai. In questo piccolo dossier, che Vi andrò ora a presentare, esamineremo quello che è uno scandalo nello scandalo, una truffa nella grande truffa del signoraggio bancario, in questo caso nostrano. Questo documento sarà composto di più parti e aggiornato nel tempo. Spero. Voi tutti ormai sapete che la Banca d’Italia S.p.A. è la vera proprietaria della cartamoneta, della c.d. banconota in circolazione. Sapete pure che la Banca d’Italia (BdI), assieme alle altre Banche Centrali Nazionali (BCN) si è letteralmente imboscata in una struttura illegittima e sovranazionale incostituzionale chiamata Banca Centrale Europea (BCE). A quest’ultima sono stati abdicati, da parte dei politici-camerieri di tutte le Nazioni sovrane europee, i poteri di emissione monetaria. In soldoni: in Europa IGB ha creato un Fantasma Giuridico Illegittimo e questo Fantasma Giuridico Illegale comanda 500 milioni di persone stampando le banconote che questa moltitudine adopera. Sapete pure che in passato era il Signore feudale a coniare moneta metallica, in oro o altro materiale nobile, e sapete che, nella fase di coniazione, il Signore teneva per sé una parte di oro per il servizio che egli [con la forza] offriva. Quindi comandava, apertamente, che una moneta contenente 9 grammi di oro venisse legalmente (e quindi commercialmente) considerata come fosse fatta da 10 grammi e questo comando, questo ordine ineluttabile avveniva semplicemente stampando sulla una faccia della moneta il numero 10 e sull'altra la faccia del sovrano. Quindi, se un allevatore voleva dieci grammi d’oro per una sua mucca, il Re la pagava con una moneta che aveva un valore di facciata (valore nominale) di dieci grammi d’oro ma in realtà contenente solo nove del prezioso materiale. Il Re risparmiava e l’allevatore subiva la forza del Re. Da quel momento però anche l’allevatore poteva adoperare la moneta per il suo valore nominale ma il signoraggio ormai era avvenuto. Il "prenditore di prima istanza" è quello che paga da subito il signoraggio. Gli altri, non temano, lo pagheranno successivamente poiché subiranno il maggior potere del Re, datogli dalla somma dei singoli “scambi signoraggiati”. In soldoni: accumulando potere economico grazie al potere di crearsi oro dal nulla (con soli 90 grammi d’oro può creare 10 monete da 10 grammi!) il Signore/Re medioevale conserva e perpetua il suo Dominio. Sapete pure, a ‘sto punto, che le monete in circolazioni venivano date in custodia all’orefice del paese, il quale rilasciava delle note di banco (banconote) a ricevuta. L’orefice, che già prestava senza controlli e lucrava gli interessi su monete d’oro non di sua proprietà, cominciò a prestare anche le banconote che la gente usava al posto delle preziose e scomode monete metalliche. Prestava e creava carta colorata, senza corrispondenza alcuna (se non pro-forma e in rapporto sempre più a suo favore) con l’oro effettivamente depositato (e per giunta nemmeno di sua proprietà!) e quindi era il nuovo Signore delle genti ignoranti. In soldoni: il banchiere/orafo con la truffa della riserva frazionaria, cioè tenere in cassa solo “quanto” si è “ragionevolmente” certi che il cliente possa richiedere in un certo periodo di tempo e prestare il resto del deposito, moltiplica dal nulla la moneta depositata e fa signoraggio di 50 volte la cifra iniziale (oggi 100 euro in banca permettono alla banca di prestarne 5.000). Quindi abbiamo, da secoli, da una parte il Signore (lo “Stato”), che lucra sulla creazione di monete metalliche e ne ha il monopolio per quanto riguarda la coniazione, e abbiamo dall’altra parte l’orafo (il “banchiere”), che lucra su moneta d'oro (legale) non sua e ne crea dal nulla, altra, di carta, senza controllo. Con il tempo lo Stato si è posto al servizio delle Banche e ha fatto leggi ad esse favorevoli, per proteggerle e consolidarne il Potere. Alcuni Stati sovrani adottano la banconota come moneta, pur essendo questa illegittima e anticostituzionale (vedi “Illegittimità del dollaro di carta”). Le banche commerciali, le c.d. Banche Ordinarie (BO) emettono moneta fiduciaria non legale (vedi “La moneta illusoria”) e una settantina delle maggiori BO italiane si sono riunite per conquistare, con successo, la Banca d’Italia, l’unica preposta da un appalto statale a stampare banconote; quindi banconote che risultano di fatto essere merce privata, e non statale, come crede il popolo ignaro e perennemente distratto da calcio e culi nudi. Con l’uso dell’informatica la moneta fiduciaria delle Banche Ordinarie è divenuta virtuale e la banconota rappresenta oggi uno scomodo ricordo, da eliminare (vedi dossier: "Guerra alla banconota"). Eliminando il cadavere, con l’aiuto di leggi appositamente emesse dai politici camerieri, i banchieri sperano di non essere più responsabilizzati dell’omicidio avvenuto in questi secoli. Le uniche padroni del mondo rimarranno le banche commerciali, notoriamente in mano ai privati e quindi futuri et unici Signori del Feudo. FONTE
Con questa premessa voglio introdurvi al grande raggiro del signoraggio delle banche, una delle più grandi truffe del nostro tempo. Chi fabbrica le banconote ? in teoria dovrebbe essere lo stato ma in pratica sono le banche. Inizialmente le banconote italiane, le nostre vecchie lire, riportavano la scritta REPUBBLICA ITALIANA.
Successivamente, sono state introdotte banconote con la scritta BANCA D' ITALIA.
A quel punto infatti, non era più la nostra REPUBBLICA ITALIANA a stampare le nostre lire ma la BANCA D' ITALIA che è una azienda privata, una società per azioni. Se prendiamo una moderna banconota ad esempio da 5 € noteremo in alto le varie sigle BCE ECB EZB EKT EKP riconducibili alla BANCA CENTRALE EUROPEA, una banca che non è di proprietà dell' unione europea ma di privati imprenditori. Sarebbe stato giusto trovare il logo UE (Unione Europea) e non BCE. Questo è un concetto importantissimo, dei privati imprenditori gestiscono la sovranità monetaria che dovrebbe invece essere prerogativa degli stati e dei governi. Quando la Banca Centrale Europea stampa ad esempio una banconota da 100 € essa spende al massimo tra manodopera e materie prime, 30 centesimi di euro e la rivende alla nazione che la richiede al costo di 103 € e se consideriamo che ha speso solo 30 centesimi per fabbricarla, il guadagno è di 102,70 € per aver fatto un singolo pezzo di carta. In teoria la sovranità monetaria dovrebbe appartenere esclusivamente allo stato che la esercita in nome del popolo per un giusto assetto economico, ma essa è stata estirpata a favore di privati banchieri che adesso controllano tutta l' economia.
IN PAROLE POVERE, i soldi che lo stato prende dalla BCE sono prestati e vanno restituiti con gli interessi, ecco a cosa servono le tasse, ad arricchire quei pelandroni dei banchieri. Come avrete ormai capito, il famigerato debito pubblico è una truffa, una scorrettezza dovuta al fatto che i nostri politici hanno venduto la nostra sovranità monetaria alle banche.
BANCONOTA STAMPATA DALLA REPUBBLICA ITALIANA
BANCONOTA STAMPATA DALLA BANCA D' ITALIA
BANCONOTA STAMPATA DALLA BANCA CENTRALE EUROPEA
Le radici del Male FONTE
Al peggio non c’è mai fine, mai. In questo piccolo dossier, che Vi andrò ora a presentare, esamineremo quello che è uno scandalo nello scandalo, una truffa nella grande truffa del signoraggio bancario, in questo caso nostrano. Questo documento sarà composto di più parti e aggiornato nel tempo. Spero. Voi tutti ormai sapete che la Banca d’Italia S.p.A. è la vera proprietaria della cartamoneta, della c.d. banconota in circolazione. Sapete pure che la Banca d’Italia (BdI), assieme alle altre Banche Centrali Nazionali (BCN) si è letteralmente imboscata in una struttura illegittima e sovranazionale incostituzionale chiamata Banca Centrale Europea (BCE). A quest’ultima sono stati abdicati, da parte dei politici-camerieri di tutte le Nazioni sovrane europee, i poteri di emissione monetaria. In soldoni: in Europa IGB ha creato un Fantasma Giuridico Illegittimo e questo Fantasma Giuridico Illegale comanda 500 milioni di persone stampando le banconote che questa moltitudine adopera. Sapete pure che in passato era il Signore feudale a coniare moneta metallica, in oro o altro materiale nobile, e sapete che, nella fase di coniazione, il Signore teneva per sé una parte di oro per il servizio che egli [con la forza] offriva. Quindi comandava, apertamente, che una moneta contenente 9 grammi di oro venisse legalmente (e quindi commercialmente) considerata come fosse fatta da 10 grammi e questo comando, questo ordine ineluttabile avveniva semplicemente stampando sulla una faccia della moneta il numero 10 e sull'altra la faccia del sovrano. Quindi, se un allevatore voleva dieci grammi d’oro per una sua mucca, il Re la pagava con una moneta che aveva un valore di facciata (valore nominale) di dieci grammi d’oro ma in realtà contenente solo nove del prezioso materiale. Il Re risparmiava e l’allevatore subiva la forza del Re. Da quel momento però anche l’allevatore poteva adoperare la moneta per il suo valore nominale ma il signoraggio ormai era avvenuto. Il "prenditore di prima istanza" è quello che paga da subito il signoraggio. Gli altri, non temano, lo pagheranno successivamente poiché subiranno il maggior potere del Re, datogli dalla somma dei singoli “scambi signoraggiati”. In soldoni: accumulando potere economico grazie al potere di crearsi oro dal nulla (con soli 90 grammi d’oro può creare 10 monete da 10 grammi!) il Signore/Re medioevale conserva e perpetua il suo Dominio. Sapete pure, a ‘sto punto, che le monete in circolazioni venivano date in custodia all’orefice del paese, il quale rilasciava delle note di banco (banconote) a ricevuta. L’orefice, che già prestava senza controlli e lucrava gli interessi su monete d’oro non di sua proprietà, cominciò a prestare anche le banconote che la gente usava al posto delle preziose e scomode monete metalliche. Prestava e creava carta colorata, senza corrispondenza alcuna (se non pro-forma e in rapporto sempre più a suo favore) con l’oro effettivamente depositato (e per giunta nemmeno di sua proprietà!) e quindi era il nuovo Signore delle genti ignoranti. In soldoni: il banchiere/orafo con la truffa della riserva frazionaria, cioè tenere in cassa solo “quanto” si è “ragionevolmente” certi che il cliente possa richiedere in un certo periodo di tempo e prestare il resto del deposito, moltiplica dal nulla la moneta depositata e fa signoraggio di 50 volte la cifra iniziale (oggi 100 euro in banca permettono alla banca di prestarne 5.000). Quindi abbiamo, da secoli, da una parte il Signore (lo “Stato”), che lucra sulla creazione di monete metalliche e ne ha il monopolio per quanto riguarda la coniazione, e abbiamo dall’altra parte l’orafo (il “banchiere”), che lucra su moneta d'oro (legale) non sua e ne crea dal nulla, altra, di carta, senza controllo. Con il tempo lo Stato si è posto al servizio delle Banche e ha fatto leggi ad esse favorevoli, per proteggerle e consolidarne il Potere. Alcuni Stati sovrani adottano la banconota come moneta, pur essendo questa illegittima e anticostituzionale (vedi “Illegittimità del dollaro di carta”). Le banche commerciali, le c.d. Banche Ordinarie (BO) emettono moneta fiduciaria non legale (vedi “La moneta illusoria”) e una settantina delle maggiori BO italiane si sono riunite per conquistare, con successo, la Banca d’Italia, l’unica preposta da un appalto statale a stampare banconote; quindi banconote che risultano di fatto essere merce privata, e non statale, come crede il popolo ignaro e perennemente distratto da calcio e culi nudi. Con l’uso dell’informatica la moneta fiduciaria delle Banche Ordinarie è divenuta virtuale e la banconota rappresenta oggi uno scomodo ricordo, da eliminare (vedi dossier: "Guerra alla banconota"). Eliminando il cadavere, con l’aiuto di leggi appositamente emesse dai politici camerieri, i banchieri sperano di non essere più responsabilizzati dell’omicidio avvenuto in questi secoli. Le uniche padroni del mondo rimarranno le banche commerciali, notoriamente in mano ai privati e quindi futuri et unici Signori del Feudo. FONTE
giovedì 22 settembre 2011
martedì 20 settembre 2011
domenica 18 settembre 2011
giovedì 15 settembre 2011
mercoledì 14 settembre 2011
Uscire dall’euro prima di essere svenati
I rimedi ai problemi finanziari proposti dalle parti sociali e dai partiti sono meri palliativi, inutili, perché servono solo a tirare avanti di qualche settimana. La manovra governativa, anche la seconda, è iniqua e recessiva, sbilanciata sul lato delle entrate, e ha mobilitato resistenze insuperabili nel paese. Ora il governo, dopo che la banca centrale europea l’ha approvata, se la rimangia e ne fa un’altra, non migliore, ma semplicemente congegnata in modo da evitare che si coalizzi un’efficace resistenza, sia civile, che interna alla partitocrazia, la quale vuole conservare i suoi canali di spesa. La manovra alternativa del PD frutterebbe solo 1/10 dei 40 miliardi da recuperare (Tito Boeri su La Repubblica del 27 Agosto) e dimostra che l’opposizione non vale nulla, non ha capacità, non ha idee, non ha uomini. Questi partiti “liberal-riformisti” sono oramai solo una zavorra senza capacità di soluzioni e senza valore di rappresentanza. Quindi senza legittimazione. Questo significa che ci saranno altre manovre e privatizzazioni dei beni pubblici. Sono 90 anni,esattamente dal 1921 che ci prendono in giro con il riformismo, il moderatismo, le cose per i lavoratori sono andate sempre peggio basta guardarsi attorno grazie al riformismo in compenso i capitalisti sono diventati sempre più straricchi e sfrontati.
Sono decenni che in Italia si fanno sacrifici e manovre di risanamento e di adeguamento ai parametri europei,imposti dalla BCE e dal F.M.I. Intervenendo sulla nostra politica nazionale e internazionale e siamo messi sempre peggio. Nessuno vuole ammetterlo, ma è palese che non funzionano. Il debito pubblico ha sempre continuato a crescere. Il motore del disastroso processo di indebitamento su scala mondiale è il monopolio privato e irresponsabile della creazione e distruzione di moneta e credito, in mano a un pugno di banchieri, che controlla le banche centrali, BCE compresa, e ricatta i governi con minacce di declassamento e di non acquisto dei loro titoli del debito pubblico. Essenzialmente, li ricatta a trasferire al settore finanziario crescenti quote di reddito e risparmio dei cittadini e delle imprese.
Recenti dati mostrano che i paesi che hanno dichiarato di non potere o volere pagare il debito pubblico, dopo il default si sono ripresi bene.
Recenti dati mostrano che i paesi che hanno dichiarato di non potere o volere pagare il debito pubblico, dopo il default si sono ripresi bene.
Piuttosto che continuare con manovre depressive e socialmente laceranti, che non risolvono niente da decenni, sarebbe preferibile, per l’Italia, il seguente programma:
1-Uscire dall’Euro ritornando alla Lira; - la cui emissione monetaria deve essere dello Stato.
2-Ripudiare il debito pubblico;
3-Nazionalizzare la Banca d’Italia e sottoporla a una commissione parlamentare;
4-Ripristinare i vincoli di portafoglio e di acquisto dei titoli di stato, come prima del divorzio della Banca d’Italia dal Tesoro;
5-Porre un vincolo costituzionale di pareggio di bilancio;
6-Nazionalizzare le banche commerciali che, avendo nel portafoglio molti titoli del debito pubblico, entreranno in crisi .
In tal modo, si eviterebbe tagli depressivi e socialmente laceranti, si risparmierebbe il 22% della spesa pubblica, si azzererebbe il debito pubblico, si potrebbe svalutare e così rilanciare le esportazioni, gli investimenti, l’occupazione; non si avrebbe più bisogno di emettere titoli del debito pubblico, salvo il caso di emergenze; anche in tal caso, li comprerebbe la Banca d’Italia.
Ma continuare con gli inasprimenti fiscali, con la tassazione di redditi presunti, con i tagli allo stato sociale, ai diritti dei lavoratori – continuare con l’indebolimento del paese e l’incremento dell’insicurezza e della paura – tutto questo è utile a portare il paese e la gente in condizioni ottimali per il capitale internazionale che aspira a rilevare dall’esterno l’economia e le risorse, compresi i lavoratori, di un paese in ginocchio, pronto a lavorare per bassi salari, senza garanzie e tutele, livellato al basso. Un paese dove la gente e le imprese devono svendere i propri beni per debiti, anche fiscali. A questo pare che mirino le politiche e i ricatti della c.d. Europa – BCE, UE –, del FMI, delle società di rating. Ma non è l’Europa, l'Europa non esiste questa è la maschera della comunità finanziaria sovranazionale. In altre parole dei plutocrati che ci succhiano il sangue.
Il processo integrativo europeo dell’Europa allargata a 27 membri è finito. La Commissione conta sempre meno. Le decisioni si prendono tra cancellerie di paesi forti, esclusi gli altri. Soprattutto quelle per decidere le mosse della BCE, in modo che salvaguardi innanzitutto la Germania. Questa, assieme ai suoi satelliti e alla sua imitatrice, la Francia, l’ha oramai detto e ripetuto: non accetterà mai di emettere gli eurobond, cioè di mettere in comune il debito pubblico proprio con quello italiano e degli altri paesi eurodeboli. I paesi euroforti non accetteranno mai l’integrazione politica con l’Italia non solo per il suo debito pubblico,
ma anche perché la classe politica e dirigente italiana è troppo marcia e incompetente tanto quella che sta al governo che quella all'opposizione: all’estero hanno visto tutti abbastanza, oramai, dalla mafia, alle storie dei rifiuti di Napoli, al bunga bunga, alla giustizia a livelli di Africa Nera.
Si sono resi conto che i politici non riescono a eliminare i propri vizi strutturali, e che sta declinando da 20 anni incessantemente. Sanno che inevitabilmente uscirà dall’Euro. Sanno che integrarsi politicamente con un paese come l’Italia sarebbe come impiantarsi una grave malattia. Nessun paese o azienda efficiente ha interesse a integrarsi con un paese o un’azienda inefficiente. Ha per contro interesse a sfruttarlo/a assumendone il controllo dall’esterno.
La Germania (seguita da altri paesi forti) è un paese molto più efficiente, corretto e serio dell’Italia. La sua politica è quindi quella di tenere l’Italia sotto la BCE e gli organismi comunitari, che la Germania può dirigere, al fine di neutralizzarla come paese concorrente sui mercati internazionali, e di costringerla, prima che finisca per lasciare l’Euro, a pagare i propri debiti in Euro verso le banche tedesche anche al costo di dissanguarsi.
E questa linea politica si sta confermando e irrigidendo nel progredire della crisi. Giulio Tremonti, il 27 Agosto, parlando ai Ciellini di Rimini, ha non senza ragioni ammonito la Germania ad accettare l’eurobond e a non ostinarsi nella sua politica solipsistica, perché potrebbe finire a suo danno. Ma ostinarsi nelle politiche solipsistiche è ciò che la Germania sta facendo da quando è nata, dal 1871. Non ha mai cambiato linea, nonostante due guerre rovinosamente perse. Il sistema-paese Germania capisce i fatti, non ragioni, moniti e minacce.
E questa linea politica si sta confermando e irrigidendo nel progredire della crisi. Giulio Tremonti, il 27 Agosto, parlando ai Ciellini di Rimini, ha non senza ragioni ammonito la Germania ad accettare l’eurobond e a non ostinarsi nella sua politica solipsistica, perché potrebbe finire a suo danno. Ma ostinarsi nelle politiche solipsistiche è ciò che la Germania sta facendo da quando è nata, dal 1871. Non ha mai cambiato linea, nonostante due guerre rovinosamente perse. Il sistema-paese Germania capisce i fatti, non ragioni, moniti e minacce.
Il governo italiano impone al paese sacrifici durissimi e recessivi in nome dell’integrazione europea. Ma l’integrazione europea è finita, per noi. L’Italia non sarà mai integrata. Quindi sarebbe tempo di rovesciare il tavolo, prima che il governo di centro-destra adesso, e un governo di centro-sinistra domani, facciano qualche altra manovra di salasso, per poi annunciare che, inopinatamente, le manovre non sono sufficienti, e che bisogna alzare l’iva, mettere l’imposta patrimoniale, tagliare le pensioni, marchionnizzare tutto il paese immediatamente e senza discutere per pagare gli interessi sui debiti – in ossequio alla curiosa inversione dei ruoli, oramai dilagata in tutto il mondo libero, in virtù della quale lavoratori, imprenditori e consumatori producono la ricchezza che dà valore alla “carta” prodotta dal settore finanziario, però si ritrova eternamente debitore, anzi devono sottomettersi alle sue regole e alla sua morale.
Ripudiare il debito pubblico, dunque, e uscire dall’Euro. Immediatamente, finché non siamo ancora dissanguati.
Alle lamentale di chi ha comperato titoli del debito pubblico italiani e farà l’indignato quando l’Italia non li pagherà, si replicherebbe che li ha comperati sapendo che erano a rischio, che per il rischio ha avuto un premio di maggior rendimento, e che in ogni caso poteva venderli nei mesi scorsi, vista l’aria che tirava; quindi se la prenda con se stesso;
A chi (banche, perlopiù) li ha ricevuti in garanzia in epoca non sospetta, per l’apertura di una linea di credito non speculativa, si offrirebbe una garanzia sostitutiva;
A Germania e soci, si replicherebbe che i benefici dall’Euro, e ancor prima dallo SME (sistema monetario europeo), e prima ancora dalla politica agricola comune, li hanno avuti proprio loro, e a spese e danno dell’Italia, soprattutto in fatto di competitività, di quote di mercato, di occupazione;
Alla BCE si replicherebbe che il suo comportamento è inaccettabile, in quanto non rende nota la quantità di denaro prodotta e la quantità di crediti erogati;
A Bruxelles si replicherebbe che il SEBC (sistema europeo delle banche centrali) viola l’art. 1 e 11 della Costituzione. L’art. 11, perché questo autorizza limitazioni e non trasferimenti della sovranità; li autorizza per fini di tutela della pace e della giustizia, non finanziari, come fatto per la BCE; li autorizza in favore di altri paesi, non in favore di un organismo sovrannazionale, esente da controllo democratico, come è la BCE; li autorizza a condizioni di parità, mentre la presenza nella BCE delle banche centrali di Regno Unito, Danimarca e Svezia, che non sono soggette a Euro e BCE ma partecipano ai suoi utili e alla sua sovranità monetaria anche sull’Italia, viola tale condizione. Inoltre viola la norma fondamentale, l’art. 1, sia in quanto toglie al popolo la sovranità monetaria ed economica, che è la principale componente della sovranità e del governo; sia in quanto il fine della BCE non è la tutela del lavoro, ma del potere d’acquisto della moneta. L’art. 1 afferma per contro i due principi fondamentali: la sovranità appartiene al popolo, e l’Italia è fondata sul lavoro. Questi principi fondamentali sono limiti assoluti, o contro limiti, a quanto possono disporre trattati internazionali come quello di Maastricht che costituisce il sistema della BCE. Un trattato, quindi, illegittimo ed eversivo dell’ordine costituzionale, come tale le controparti dell’Italia dovevano sapere.
Ma che cosa si potrebbe spiegare a Washington e Londra? Potremmo dire loro che l’Italia ha oramai fatto quanto poteva fare, dall’interno dell’UE e dell’Euro, per ostacolare il costituirsi di una potenza europea concorrente degli USA, con una valuta concorrente al Dollaro. E che ora, per contrastare un’unificazione centro-europea sotto i Tedeschi, è indispensabile che riprenda una certa libertà di manovra.
Fonti:
Petrus Marotta Presidente Artecultura
Avv. Marco Della luna
Eugenio Benetazzo economista
martedì 13 settembre 2011
mercoledì 7 settembre 2011
“Il cancro è una malattia puramente artificiale”, parola di scienziati
Marcello Pamio – 19 ottobre 2010
Evviva, ci sono arrivati perfino gli scienziati: il cancro è una malattia artificiale!
Meglio tardi che mai, possiamo dire.
Dopo innumerevoli tentativi - tuttora in corso - di farci credere che il cancro è un difetto genetico, un microbo errante o peggio ancora un virus, arriva, dagli stessi ambienti dell’establishment medico-scientifico, una notizia alquanto interessante. Una notizia che smentisce loro stessi.
Meglio tardi che mai, possiamo dire.
Dopo innumerevoli tentativi - tuttora in corso - di farci credere che il cancro è un difetto genetico, un microbo errante o peggio ancora un virus, arriva, dagli stessi ambienti dell’establishment medico-scientifico, una notizia alquanto interessante. Una notizia che smentisce loro stessi.
In Inghilterra, per l’esattezza all’Università di Manchester, un gruppo di ricercatori dopo una lunga ricerca che ha scandagliato e perlustrato migliaia di anni di storia, dalle mummie egiziane fino ad alcuni corpi del Sud America, hanno concluso che le patologie tumorali erano pressoché sconosciute dagli esseri umani dell’antichità.
Lo studio, capeggiato dal professor Michael Zimmerman e collega Rosalie David, è stato pubblicato nella rivista scientifica Nature Reviews Cancer.Zimmerman ha espressamente detto che “l’assenza di neoplasie in mummie deve essere interpretato come indicazione della loro rarità nell'antichità, indicando che i fattori che causano il cancro sono limitati alle società moderne industrializzate". Hanno esaminato al microscopio innumerevoli reperti fossili di corpi mummificati, centinaia e centinaia di mummie egiziane, risultato: un solo caso di cancro confermato.
Lo studio, capeggiato dal professor Michael Zimmerman e collega Rosalie David, è stato pubblicato nella rivista scientifica Nature Reviews Cancer.Zimmerman ha espressamente detto che “l’assenza di neoplasie in mummie deve essere interpretato come indicazione della loro rarità nell'antichità, indicando che i fattori che causano il cancro sono limitati alle società moderne industrializzate". Hanno esaminato al microscopio innumerevoli reperti fossili di corpi mummificati, centinaia e centinaia di mummie egiziane, risultato: un solo caso di cancro confermato.
I ricercatori hanno poi rigettato la classica tesi secondo la quale gli antichi egizi non vivevano abbastanza a lungo per sviluppare il cancro, portando invece le prove oggettive del riscontro di altre malattie legate proprio all’avanzare dell'età: indurimento arterioso e ossa fragili. Per tanto la quasi totale assenza di tumori non è da imputarsi alla brevità della vita. D’altronde basta studiare attentamente la storia (non quella dei sussidiari moderni, scritti dalla propaganda di Regime), per rendersi conto che per esempio nell’antica Grecia la longevità era fatto assolutamente normale e che superava anche le nostre attuali tendenze.
Un’ulteriore conferma delle scoperte degli scienziati britannici è venuta dallo studio di migliaia di ossa di uomini di Neanderthal: un solo esempio di un tumore. Mentre le prove di cancro descritte negli antichi testi egizi, secondo i ricercatori sarebbero state causate da vene varicose, lebbra o altro, ma non tumore.
Gli antichi greci furono probabilmente i primi a definire il cancro come una malattia specifica, distinguendo tra tumori benigni e maligni, e tale lavoro è stato portato avanti dal padre della medicina moderna, il grande Ippocrate.
Gli antichi greci furono probabilmente i primi a definire il cancro come una malattia specifica, distinguendo tra tumori benigni e maligni, e tale lavoro è stato portato avanti dal padre della medicina moderna, il grande Ippocrate.
I professori di Manchester continuano la loro requisitoria ricordando che solo nel XVII° secolo vi furono le prime vere descrizioni di operazioni al seno per tumori, e i primi rapporti nella letteratura scientifica di tumori ben distinti si verificarono solo negli ultimi 200 anni o poco più (il cancro ai testicoli negli spazzacamini nel 1775 e il cancro al naso nelle persone che fiutavano il tabacco nel 1761).
In conclusione, il tasso di insorgenza di tumori (soprattutto nei bambini, cioè nelle persone più indifese e sensibili della società) è aumentato esponenzialmente dopo la grande rivoluzione industriale, dimostrando inequivocabilmente che tale aumento non è dovuto alla maggiore longevità delle persone ma all’enorme inquinamento ambientale.
In conclusione, il tasso di insorgenza di tumori (soprattutto nei bambini, cioè nelle persone più indifese e sensibili della società) è aumentato esponenzialmente dopo la grande rivoluzione industriale, dimostrando inequivocabilmente che tale aumento non è dovuto alla maggiore longevità delle persone ma all’enorme inquinamento ambientale.
Il professor Rosalie David, che ha presentato i risultati allo zar britannico del cancro Mike Richards, in una recente conferenza, ha detto: “Nella società industrializzata, come causa di morte il cancro è secondo solo alle malattie cardiovascolari. Ma nei tempi antichi, era estremamente raro. Non c'è nulla nell'ambiente naturale che possa provocare il cancro. Quindi deve essere una malattia artificiale, inquinamento e cambiamenti della nostra dieta e del nostro stile di vita. Abbiamo osservato millenni e non centinaia di anni”.
A tal proposito, il dottor Rachel Thompson, del World Cancer Research Fund, ha detto che “questa ricerca è molto interessante. Circa una persona su tre nel Regno Unito avrà il cancro per cui è abbastanza comune nel mondo moderno.
Una persona su tre, secondo oncologi, in Inghilterra manifesterà il cancro; ogni anno ne muoiono proprio per questa malattia o per le cure associate, oltre 150.000.
A tal proposito, il dottor Rachel Thompson, del World Cancer Research Fund, ha detto che “questa ricerca è molto interessante. Circa una persona su tre nel Regno Unito avrà il cancro per cui è abbastanza comune nel mondo moderno.
Una persona su tre, secondo oncologi, in Inghilterra manifesterà il cancro; ogni anno ne muoiono proprio per questa malattia o per le cure associate, oltre 150.000.
Dati allarmanti che dovrebbero farci tutti riflettere, anche perché, molto probabilmente la mortalità per cancro non è seconda alle malattie cardiovascolari. Quando infatti muore una persona (per cancro o anche per cause naturali) normalmente viene scritto nell’atto di decesso: “arresto cardiorespiratorio” o “arresto cardio-circolatorio”, e questi dati potrebbero andare a gonfiare le statistiche delle mortalità per malattie cardiovascolari, posizionandole al primo posto almeno nel mondo occidentale.
Ufficialmente le cause di morte sono le seguenti:
1° malattie cardiovascolari
2° tumori
3° cause iatrogene: medici stessi.
2° tumori
3° cause iatrogene: medici stessi.
La realtà, come sempre, è assai diversa dalle cose che ci raccontano gli “esperti”.
Ufficiosamente le principali cause di morte sono le seguenti:
Ufficiosamente le principali cause di morte sono le seguenti:
1° tumori
2° malattie cardiovascolari
3° cause iatrogene: medici stessi.
2° malattie cardiovascolari
3° cause iatrogene: medici stessi.
Quello che probabilmente rimane invariato sono proprio le morti iatrogene, cioè indotte e/o provocate da errori medici (farmaci, operazioni, ecc.).
Dal punto di vista igienistico, non ha molto senso tale diversificazione tra malattie cardiovascolari e tumorali, perché entrambe sono il risultato finale dello stile di vita!
Dal punto di vista igienistico, non ha molto senso tale diversificazione tra malattie cardiovascolari e tumorali, perché entrambe sono il risultato finale dello stile di vita!
Per riprendere il titolo della ricerca britannica e del presente articolo, le odierne malattie che stanno mietendo vittime ogni secondo nel mondo industrializzato, sono assolutamente artificiali e non naturali. Perciò non dobbiamo dare la colpa ad un gene viziato o difettoso, ad un microbo (i quali vivono in simbiosi, con noi e dentro di noi, da centinaia di migliaia di anni e sono di vitale importanza per l’economia organica), o ad un esserino un milione di volte più piccolo di una cellula, come il virus, perché è molto più semplice incolpare qualcuno esterno a noi, qualcuno che ci deresponsabilizzi, che ci tolga lo specchio per non guardare la nostra stessa esistenza.
Così facciamo sistematicamente da decenni e i frutti sono sotto gli occhi di tutti coloro che vogliono vedere!
Così facciamo sistematicamente da decenni e i frutti sono sotto gli occhi di tutti coloro che vogliono vedere!
I numeri sono allarmanti e i tempi sono assolutamente maturi per prendere coscienza del fenomeno e soprattutto per muoversi.
Ora gli stessi scienziati dicono che una dieta sana, un’attività fisica regolare, un peso sano possono prevenire circa un terzo dei tumori più comuni. Un terzo.
Poco importa la riduzione di un terzo, piuttosto che tre quarti, sono soltanto numeri, e in quanto tali manipolabili a proprio piacimento. La cosa fondamentale è capire che lo stile di vita ha sempre fatto in passato e fa ancor oggi una grande differenza.
Ora gli stessi scienziati dicono che una dieta sana, un’attività fisica regolare, un peso sano possono prevenire circa un terzo dei tumori più comuni. Un terzo.
Poco importa la riduzione di un terzo, piuttosto che tre quarti, sono soltanto numeri, e in quanto tali manipolabili a proprio piacimento. La cosa fondamentale è capire che lo stile di vita ha sempre fatto in passato e fa ancor oggi una grande differenza.
Cosa s’intende per stile di vita?
Per stile di vita s’intende tutto: quello che mangiamo, respiriamo e beviamo, pensiamo, sentiamo e proviamo; è l’intero mondo dei sentimenti, il corretto del corpo, il riposo, l’aspetto spirituale, ecc.
Per stile di vita s’intende tutto: quello che mangiamo, respiriamo e beviamo, pensiamo, sentiamo e proviamo; è l’intero mondo dei sentimenti, il corretto del corpo, il riposo, l’aspetto spirituale, ecc.
- Un’alimentazione sana nel rispetto della Natura e delle corrette combinazioni e sequenze, è un’alimentazione basata su alimenti vivi e vitali, non morti (raffinati, pastorizzati) o pregni di chimica tossica e cancerogena (additivi, aromi, edulcoranti, zuccheri, ecc.) o acidificanti come tutte le proteine di origine animale (carne, pesce, uova, latticini).
Una alimentazione sana aiuta ad avere digestioni rapidi e veloci, riducendo le tossine derivate da fermentazioni e putrefazioni intestinali, e fornendo oltre all’energia vitale anche le sostanze nutrizionali (vitamine, sali minerali, enzimi) fondamentali per un corretto funzionamento organico e cellulare.
Se è vero, come è vero, che la malattia acuta è una “eliminazione vicariante” delle tossine, cioè il meccanismo intelligente messo in atto dalla Natura per eliminare o abbassare il carico tossico, viene da sé che diminuendo la quantità delle tossine endogene prodotte con l’alimentazione, si riduce la cosiddetta “malattia”.
Una alimentazione sana aiuta ad avere digestioni rapidi e veloci, riducendo le tossine derivate da fermentazioni e putrefazioni intestinali, e fornendo oltre all’energia vitale anche le sostanze nutrizionali (vitamine, sali minerali, enzimi) fondamentali per un corretto funzionamento organico e cellulare.
Se è vero, come è vero, che la malattia acuta è una “eliminazione vicariante” delle tossine, cioè il meccanismo intelligente messo in atto dalla Natura per eliminare o abbassare il carico tossico, viene da sé che diminuendo la quantità delle tossine endogene prodotte con l’alimentazione, si riduce la cosiddetta “malattia”.
- L’attività fisica regolare non è intesa per modellare esteticamente il corpo, ma per smuovere il sistema linfatico. Tramite la linfa infatti avviene da una parte il trasporto di alcuni importanti nutrimenti, e dall’altra l’espulsione delle scorie tossiche che produciamo. Basti pensare che ogni giorno, per l’intera nostra esistenza, muoiono circa 70 miliardi di cellule. Una parte di queste viene riciclata dal corpo stesso, mentre il resto deve essere espulso dal corpo intossicante.
Inoltre il movimento smuovendo muscoli e articolazioni, li mantiene efficienti e attivi (come per esempio il classico esercizio per gli addominali che è straordinario per la funzionalità degli intestini e non solo).
Inoltre il movimento smuovendo muscoli e articolazioni, li mantiene efficienti e attivi (come per esempio il classico esercizio per gli addominali che è straordinario per la funzionalità degli intestini e non solo).
- Il Sole è fonte di vita. Nonostante alcune assurde indicazioni mediche, esporre il più possibile il corpo nudo anche d’inverno fa bene a tutto l’organismo. Nella pelle esposta al Sole si produce per esempio la Vitamina D, l’unica che possiamo correttamente assimilare a differenza di quella di sintesi. Va fatta molta attenzione, durante il periodo estivo, agli orari più caldi per non incorrere in ustioni cutanee gratuite! Ultima precisazione, qui si sta parlando del Sole e non delle deleterie lampade artificiali, perché l’essere umano ha bisogno di tutto lo spettro della radiazione stellare e non di una piccola parte di esso.
- L’aspetto emozionale gioca un ruolo estremamente importante. La televisione per esempio, oltreché strumento di controllo mentale, serve proprio a veicolare spazzatura per la mente, spazzatura emozionale sotto forma di pseudo-notizie (stupri, assassinii, massacri, violenze, terremoti, uragani, ecc.) che inculcano il senso di impotenza; programmi d’intrattenimento beceri e assurdi che hanno l’obiettivo d’ingolfarci la corteccia prefrontale del cervello per far sì che le redini dei comandi (consci e inconsci) vengano prese dal cervello limbico, quello antico, e guarda caso il “cervello emozionale”…
Per questo e per moltissimo altro ancora, la tivù va gettata nella spazzatura quanto prima o centellinata con il contagocce, soprattutto se ci sono bambini.
Per questo e per moltissimo altro ancora, la tivù va gettata nella spazzatura quanto prima o centellinata con il contagocce, soprattutto se ci sono bambini.
Ci sarebbe ovviamente molto altro da dire, ma la cosa importante è diventare una volta per tutte responsabili della propria salute e soprattutto della propria malattia. Basta dare la colpa a esseri microscopici come i batteri o invisibili come i virus; basta incolpare la Natura per un corredo genetico imperfetto o difettoso. Ricordiamo quello che disse Louis Pasteur sul letto di morte, e cioè che il microbo non è niente in confronto al terreno. Il terreno è il nostro intero organismo: cellule, liquidi (sangue, linfa e liquidi extracellulari), organi, muscoli, apparati, ecc.
Poco importa se fu davvero Pasteur a dire quelle parole: sono una profonda e sacrosanta Verità, il Terreno è tutto!
Poco importa se fu davvero Pasteur a dire quelle parole: sono una profonda e sacrosanta Verità, il Terreno è tutto!
Un terreno inquinato, tossico, acido e pregno di tossine endogene (fermentazioni e putrefazioni intestinali dovute ad una alimentazione innaturale basata su proteine animali e nelle scorrette combinazioni e sequenze, ecc.) e tossine esogene (vaccini, inquinanti, metalli pesanti, nano particelle, droghe e farmaci, ecc.) è il preludio di ogni malattia. Viceversa, un terreno biologico sano, predispone alla salute organica.
Detto questo, e tenendo in considerazione che nel Sistema-Uomo, Corpo e Mente viaggiano in due binari paralleli ma collegati e interagenti tra loro, star bene dal punto di vista organico, significa riflettere tale stato nell’aspetto mentale. Ridurre le tossine prodotte nel corpo (e quindi presenti nel sangue) significa ridurre il rischio che tali tossine penetrino la barriera emato-encefalica (B.E.E.) entrando direttamente e pericolosamente nel cervello. Possiamo a questo punto immaginare quali potrebbero essere le conseguenze di tale ingerenza, nell’eziologia o nell’aggravamento di serie problematiche (Alzheimer, Parkinson, Sclerosi, depressione, iperattività, ecc.) aumentate negli ultimi anni a livelli esponenziali. Ci hanno sempre rassicurati che la BEE è una barriera insuperabile, eppure sempre più esami autoptici riscontrano sostanze tossiche e velenose direttamente nel cervello!
Uno degli accessi diretti al cervello è la cosiddetta “via del glutammato”, cioè delle eccitotossine: acido aspartico (vedi aspartame) e acido glutammico (vedi glutammato e glutammato monosodico, MSG).[1] Quando sono presenti nel nostro organismo in quantità elevata, “aprono”, grazie ai recettori presenti dentro e fuori la BEE, un accesso diretto al cervello[2]. Questo potrebbe essere uno dei meccanismi che permette l’entrata dei metalli pesanti (iniettati in vena tramite i vaccini o introdotti con l’alimentazione o la respirazione), come alluminio, mercurio, bario, cadmio, piombo e di tutte le altre tossine presenti nel sangue, come le proteine non completamente digerite (soprattutto “glutine”, la proteina di alcuni cereali, e “caseina” quella dei latticini), candida, scarti e residui metabolici tossici delle proteine animali (indòlo, scatòlo, cadaverina, putrescina, ecc.).
Ecco perché il nostro stile di vita può fare la differenza!
Ecco perché il nostro stile di vita può fare la differenza!
[1] “Eccitotossine: i sapori pericolosi per la salute”, di Marcello Pamio http://www.disinformazione.it/libreria/dispense_quaderni.htm[2] Idem
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