giovedì 16 novembre 2017

DELOCALIZZAZIONE PRODUTTIVA ALL’ ESTERO TRA INCENTIVI

MAURO GIUSTI L’ ESPERIENZA ITALIANA DI DELOCALIZZAZIONE PRODUTTIVA ALL’ ESTERO TRA INCENTIVI E DISSUASIONI Se per delocalizzazione di un’impresa all’estero si intende lo spostamento in altri paesi di processi produttivi o di fasi di lavorazione, al fine di guadagnare competitività, l’esperienza delle imprese italiane di spostare in altri Stati le proprie attività produttive di merci ha origini lontane: rammento trenta e più anni fa la costruzione di stabilimenti della FIAT in Polonia e ancor prima nell’ex Unione Sovietica (Togliattigrad), nei quali venivano costruiti modelli di automobili usciti dalla produzione interna (la 124, la 600, ecc.). Ancor oggi la Piaggio costruisce i motoscooter Vespa ed altri in India. Del resto, in Italia, dagli anni ’50 si era conosciuta una considerevole delocalizzazione interna, dal Nord al Sud, con scarsi risultati perfino nel settore delle imprese pubbliche (all’epoca il 40 per cento dell’ economia), obbligate per legge a concentrare a sud di Roma il 60 per cento dei nuovi investimenti ed il 40 per cento degli investimenti complessivi. Gli esempi citati riguardano essenzialmente imprese di grandi dimensioni: ma la realtà economica italiana è assai diversa. Il 97,80 per cento delle imprese manifatturiere ha meno di 50 addetti; di queste l’82,90 per cento ne ha addirittura meno di 10 ( è la dimensione media più bassa d’Europa, ma non ha valenza necessariamente negativa; Ferrari e Ducati sono imprese medio-piccole, eppure sono campioni del mondo: parva sed pulchra!). Per questo diffuso tipo di microimprese, il processo di globalizzazione ha avuto rilievo essenzialmente come internazionalizzazione dei propri prodotti – spesso di nicchia – alla quale da tempo lo Stato aveva posto attenzione sia con strutture (l’Istituto per il Commercio con l’Estero, ICE) sia con strumenti (ad esempio le garanzie statali per i crediti all’esportazione fornite dalla società pubblica SACE). L’economia classica collocava la produzione vicino alle materie prime ovvero vicino al mercato del consumo: niente di più falso oggi, se si pensa – ad esempio – al fatturato dell’arte orafa fine in Italia (la metà della produzione mondiale), dove non si estrae un grammo d’oro e dove la domanda proviene per oltre la metà dai paesi ricchi del Medio Oriente. 2 MAURO GIUSTI L’ubicazione dei complessi produttivi segue al giorno d’oggi altri impulsi: l’efficienza della logistica e dei trasporti; il peso fiscale; la quiete sindacale; soprattutto, il costo del lavoro. Le delocalizzazioni delle imprese italiane (grandi, medie e in qualche caso medio-piccole, queste talvolta raggruppate in consorzi o in distretti produttivi a tassazione solidale) sono state prevalentemente del tipo low cost seeking, fondato sulla ricerca della riduzione del costo della manodopera e si sono addensate statisticamente in settori produttivi a non alto valore aggiunto, con una forte presenza nelle filiere dell’abbigliamento di qualità (tessili e calzature). Oltre alla grande industria, quasi trent’anni fa ha iniziato a delocalizzare la piccola e media industria della Toscana (pellami, calzature, stoffe di medio livello); quindici anni dopo, ma più massicciamente, la media industria del Veneto (Venezia), che aveva già esperienze in loco di internazionalizzazione della produzione, col ricorso alla abbondante manodopera frontaliera della attuale Slovenia, con essa confinante. Il bisogno era sempre quello di comprimere i costi, grazie allo spostamento all’estero della parte più manuale ed elementare delle fasi produttive. Tenendo in disparte la quiete dei sindacati dei lavoratori (i rinnovi biennali dei contratti collettivi provocano scioperi che neanche il governo di centrosinistra riesce a scongiurare), quanto al primo motivo di delocalizzazione, quello dato dal peso delle imposte sulle imprese (che non costituisce l’oggetto dell’odierna tavola rotonda), non posso non riferirmi al continuo aumento della pressione fiscale complessiva sulle persone giuridiche, giunta al livello medio del 36,57 per cento (8 punti percentuali più della Germania; 12 in più della Francia; 22 in più della Slovenia; 40 in più della Tunisia), dovuto in parte ad una perversa applicazione dell’Imposta Regionale sulle Attività Produttive anche sul costo del lavoro (che è indeducibile dalla base imponibile), con effetti disastrosi sulle aziende labour intensive. Oggi il carico dovrebbe alleggerirsi per le imprese in media di quasi 5 punti percentuali, per l’effetto delle riduzioni denominate “cuneo fiscale”, introdotte con la Legge finanziaria per 2007. Ma il gap resta sensibile, specie con i paesi aventi flat tax. La ricerca dal minor costo del lavoro tout court è invece spinta non da alti livelli salariali dei lavoratori italiani, ma dal costo complessivo del lavoro, gravato a carico dell’impresa quasi di un altro 50 per cento per i contributi parafiscali, il cui importo garantisce l’alto livello del welfare in Italia (assistenza medica, farmaceutica e ospedaliera gratuita per tutti; assicurazione pubblica per gli infortuni sul lavoro; pensioni a 60 anni finora all’80 per cento dell’ultimo stipendio, concesse insieme ad un’indennità di fine rapporto pari ad un mese di salario per ogni anno lavorato; 30 giorni lavorativi di ferie all’anno). L’ ESPERIENZA ITALIANA DI DELOCALIZZAZIONE PRODUTTIVA ALL’ ESTERO TRA INCENTIVI E DISSUASIONI 3 Sono queste le principali ragioni che hanno determinato lo spostamento delle fasi lavorative ad alta concentrazione di manodopera verso paesi con abbondanza di lavoratori non specializzati a basso costo (il costo orario di un lavoratore è in Italia di 19 Euro, in Romania di 1,50 Euro), iniziando da paesi non eccessivamente distanti dalla “casa madre” e verso i quali c’era già una delocalizzazione puramente commerciale in espansione. Esemplifichiamo: la Toscana, che è la più grande delle regioni peninsulari, ha trasferito la sua produzione calzaturiera di medio livello (quella di èlite è rimasta, così come nella Regione Marche: Tod’s; Hogan, ecc.) in Tunisia ed in Marocco, parzialmente per i prodotti migliori di quella fascia, totalmente per quelli scadenti (i sandali estivi per il mercato tedesco); il Veneto invece ha prescelto la Romania (prima dell’UE) ed in particolare la provincia occidentale di Timisoara (dove esisteva un’antica tradizione tessile) per decentrare il proprio “Sistema Moda” sia dell’abbigliamento (Benetton; Stefanel; Marzotto; Diesel, ecc.) sia delle calzature di ogni tipo (compresi gli scarponi da sci): su 800.000 lavoratori rumeni occupati nelle 15.000 imprese italiane in Romania, 150.000 operano in quel distretto industriale, di cui 1.500 nel solo stabilimento della Geox. Ma sono presenti anche AGIP, IVECO, Zoppas. Il modello ricalca quello statunitense degli anni ’60 - ’70 nei paesi meridionali del NAFTA, con l’intero processo produttivo delegato all’estero, mantenendo in patria l’ideazione e la progettazione del prodotto, nonché il design, la finitura e il controllo finale di qualità, per evitare perdite di immagine della marca. Prima di esprimere un giudizio su questo imponente fenomeno (adesso in rallentamento, alla ricerca nel medio periodo di locations più lontane e più convenienti nell’Estremo Oriente e nel Sud Est asiatico), occorre delineare le formule giuridiche usate per realizzarlo. Si va dalla semplice importazione di prodotti finiti realizzati all’estero su licenza ad un vero outsourcing realizzato ricorrendo a subfornitori stranieri; si hanno forme di partenariato, sia con reali partnership sia col franchising; rare sono le joint ventures e anche l’offshoring, ottenuto con l’acquisizione ex novo di imprese mediante investimenti durevoli all’estero (IDE) Ma il 90 per cento delle delocalizzazioni delle piccole e medie imprese è avvenuto con il sistema del TPF (Traffico di Perfezionamento Passivo), consistente nell’esportazione di materie prime o semilavorate (le tomaie e le suole delle scarpe, da assemblare), con garanzia di riacquisto e quindi di reimportazione del prodotto se la lavorazione è stata perfettamente eseguita. Da qui la seconda osservazione tributaria del nostro discorso: questo tipo di traffici presuppone la neutralità doganale, con azzeramento dei dazi (assoluto 4 MAURO GIUSTI per tessili, pellami, calzature), come si è verificato con i paesi del Trattato del Magreb e con quelli dell’Europa Orientale, ancor prima che divenissero membri dell’Unione europea. Della delocalizzazione della produzione si è interessata la legislazione italiana fin dal 1990, con la L. 100 (modificata nel 1998 e nel 2000) che ha istituito la Società Italiana per le imprese Miste all’Estero (SIMEST), a capitale azionario prevalentemente pubblico (76 per cento), per promuovere e garantire gli investimenti durevoli all’estero e anche partecipare al capitale (fino al 25 per cento per un massimo di 8 anni) di società produttrici costituite all’estero da soggetti italiani, sostenute anche con finanziamenti pubblici per le attività delocalizzate. Questa società finanziaria di partecipazioni gestisce dal 1999 quasi tutti gli aiuti per le imprese italiane all’estero, specie nei paesi extra UE, potendo elevare la sua temporanea partecipazione diretta in alcune imprese fino al 50 per cento se si tratta di costituire dei veri e propri “parchi industriali”, nei quali siano accolti in forma organizzata gli investimenti all’estero di capitali italiani. Prolungando gli effetti della legge Ossola del 1977, la società SIMEST agevola anche la semplice penetrazione commerciale (che spesso precede la delocalizzazione) mediante crediti all’esportazione e favorisce la partecipazione a gare internazionali per l’aggiudicazione di commesse, oltrechè ad agire per il sostegno del made in Italy. Con la legge 57/2001 è stata ulteriormente promossa la partecipazione in società miste costituite all’estero, incrementando gli incentivi per l’internazionalizzazione delle imprese, questa volta soprattutto medie e piccole (art. 21). Infine, due più recenti leggi, la 56/05 e la 80/05, hanno incrementato la concessione di aiuti per la delocalizzazione fuori dalla UE, la prima delle due concentrandosi in paesi selettivamente individuati come prioritari dal Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (che opera adesso presso la Presidenza del Consiglio), con ausili erogati secondo studi di fattibilità e prolungati qualora la provvista dei mezzi sia assicurata dalla Banca Europea per gli Investimenti (BEI) o dalla Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERS); è stata anche data una delega al governo per riordinare gli enti operanti per la promozione degli interessi italiani all’ estero (4 ministeri e vari enti pubblici), unificando i fondi disponibili (comma 932 della Legge finanziaria 2007). Questa prima legge ha anche istituito un numero imprecisato di “Sportelli unici” nei paesi di maggior interesse commerciale ed imprenditoriale per l’Italia, cioè degli uffici pubblici polivalenti per garantire ed ampliare il sostegno alle imprese italiane operanti in quei luoghi mediante consulenze ed orienta- L’ ESPERIENZA ITALIANA DI DELOCALIZZAZIONE PRODUTTIVA ALL’ ESTERO TRA INCENTIVI E DISSUASIONI 5 menti di parte pubblica, anche sotto forma di tutela legale delle imprese e dei loro diritti di proprietà industriale ed intellettuale. Uno dei fini principali della legge (art. 5) consiste nella creazione in loco di strutture permanenti di specifico supporto alle produzioni italiane “di qualità”, le uniche la cui collocazione sui mercati non risente del rafforzamento dell’euro. Sorprendentemente, la seconda delle leggi del 2005 citate, la n. 80, immediatamente successiva, prevede anche clausole di salvaguardia alla delocalizzazione d’impresa, stabilendo che tutti i benefici fin qui descritti (che permangono) non si applicano a quelle imprese che, investendo all’estero, non mantengano sul territorio nazionale la direzione commerciale e le attività di ricerca e di sviluppo, “nonché una parte sostanziale delle attività produttive”. Dispone inoltre la L 80/0580 che le imprese italiane che abbiano investito all’estero e abbiano l’intenzione di reinvestire in Italia, godranno delle stesse agevolazioni e degli incentivi che le leggi riservano alle imprese straniere che investano o delocalizzino in Italia. Siamo in presenza della previsione di una vera e propria contro-delocalizzazione, provocata dai primi sintomi di crisi dell’ occupazione qualificata derivante dall’esodo delle aziende ed attuata con una norma restrittiva tesa ad arginare la fuga delle unità produttive ed a premiarne il rientro, usando di veri e propri disincentivi. Questa evoluzione normativa non è così contraddittoria come sembra: più semplicemente mette in risalto le due facce della delocalizzazione, che è virtuosa quando liberamente sostituisce una produzione nazionale con una produzione straniera, mentre è dannosa se provoca contraccolpi all’occupazione, soprattutto a quella qualificata, cosa che avviene quando dal trasferimento di parte degli stabilimenti si passa ad una “rilocalizzazione” nello stato estero dell’intera catena produttiva, per la convenienza di riposizionare l’intera azienda in un contesto di fattori competitivi analogo a quello interno di venti o trenta anni fa. Ciò è avvenuto nei casi nei quali la “casa madre” resta simbolicamente in Italia col suo marchio, ma il processo produttivo si è spostato per l’80 per cento all’estero, coinvolgendo nell’esodo il marketing strategico e parte del lavoro progettuale, che è iniziato a diminuire in modo rilevabile (il 2 per cento in meno). Se da un lato la delocalizzazione d’impresa è sembrata ridurre i flussi di immigrazione (ma l’effetto è dubbio quanto agli immigrati che non lavorano), dall’altro incrementa le importazioni (dei beni finiti) e deprime il Prodotto Interno Lordo complessivo, cui vengono sottratti i salari esteri ed in gran parte i profitti esteri, che colà rimangono. Da qui la tentazione di un protezionismo di ritorno o di un neo-protezionismo per fronteggiare l’eccessiva fuga delle imprese: un espediente vincolativo da parte della politica, che non capisce il multi- 6 MAURO GIUSTI forme fenomeno ma percepisce il disagio che esso provoca nell’elettorato (in Francia il tema è stato oggetto della “campagna” presidenziale). Nella particolare esperienza italiana, è assai difficile tracciare un confine netto tra delocalizzazione virtuosa e delocalizzazione viziosa, per giustificare misure pubbliche tese a sventare l’impoverimento del tessuto economico nazionale. Per quanto concerne il rilevante Sistema del Made in Italy, nei settori dell’abbigliamento ed accessori (si pensi alla Luxottica che è il massimo gruppo mondiale per gli occhiali da sole) e dell’arredo casa (mobili, cucine, divani, oggettistica ornamentale, piastrelle di ceramica, ecc.), la delocalizzazione ha dapprima concesso alle aziende più dinamiche un vantaggio competitivo considerevole, subito dopo ridotto parzialmente dall’avere reso più semplici (anche con la troppo facile vendita delle medesime macchine utensili a chiunque) le falsificazioni di tali prodotti di qualità, sia nelle forme dell’imitazione grossolana sia in quelle delle raffinate copie fraudolente, ambedue assai lesive di questo settore trainante dell’economia, che esporta ancora benissimo, nonostante l’aumento dell’euro, a causa di una domanda consolidata, e cresce se non nel numero dei beni sicuramente nel loro valore, grazie ai moltissimi nuovi ricchi del mondo ed alle tantissime fashion victims. Il poco tecnologico sistema produttivo italiano, dopo anni di arresto, ha ripreso a collocare sui mercati mondiali questi prodotti di pregio a media tecnologia (con qualche punta nell’alta tecnologia), maturando la valutazione dei paesi emergenti non solo come piattaforme produttive (e centrali di contraffazione), ma anche come mercati di sbocco per i beni finali prodotti in Italia o all’estero. Dalla delocalizzazione “stracciona” si è giunti così ad una produzione decentrata market seeking. L’apparato produttivo del paese ha cioè finalmente compreso il vantaggio di operare con filiere produttive decentrate all’estero, che agiscano in nicchie di qualità sempre più numerose: una delocalizzazione offensiva (che comprende la penetrazione sul mercato locale perché in espansione) accanto a quella difensiva (il minor costo per sopravvivere). Il terzo ed ultimo riferimento tributario riguarda il trattamento fiscale dei profitti da delocalizzazione. Premesso che le fabbriche delle società locali sono giuridicamente indipendenti dalla casa madre, gli utili distribuiti restano prevalentemente nel paese straniero, che li assoggetta alla sua fiscalità (minore) e non rilevano per la casa madre italiana. Qualora rifluiscano in società italiane subiscono un trattamento fiscale del tutto equivalente a quello dei redditi delle società di fonte interna (legge delega 80/2003 e decreto legislativo 344/2003, modificato dal decreto legislativo 247/2005). Solo se il percettore fosse un socio imprenditore persona fisica, la tassazione avverrebbe sul 40 per cento dell’utile, al massimo con un acconto L’ ESPERIENZA ITALIANA DI DELOCALIZZAZIONE PRODUTTIVA ALL’ ESTERO TRA INCENTIVI E DISSUASIONI 7 del 12,50 per cento sul dividendo defalcato dell’imposta straniera (cosiddetto “netto frontiera”). Se la somma è negativa, si configura un credito fiscale. La materia è regolata anche (ad es. con la Slovacchia) da singoli Accordi reciproci contro la doppia imposizione: ma il grosso degli utili resta imputato al soggetto estero del gruppo e all’estero rimane, se non è allettato a rientrare da condoni sulla materia valutaria (il riuscito “scudo fiscale” dello scorso governo, che ha tassato al 2,50 il rientro dei capitali). In sintesi, l’aliquota di questa imposta sulle società è al 33 per cento (ma non è la sola: vi si aggiunge quella sulle attività produttive) ed esistono molti casi particolari (per esempio si può configurare un consolidato mondiale del gruppo), i quali non rendono tuttavia più conveniente la tassazione degli utili da delocalizzazione, che in sede fiscale non sono favoriti. Non essendo un sociologo, nulla posso dire sulle conseguenze sociali della delocalizzazione delle imprese all’estero: tuttavia mi accorgo dello sfruttamento della manodopera malpagata e maltrattata e mi accorgo anche dell’esportazione dell’inquinamento da produzione, che ha raggiunto livelli terrificanti nei paesi emergenti. Poiché la possibilità di questi abusi non durerà all’infinito, la delocalizzazione d’impresa dovrà elevarsi a livello di sistema, di visione macroeconomica strategica: la scelta di sola convenienza aziendale, a livello microeconomico, la delocalizzazione cosiddetta imitativa (del vicino) non avranno vita lunga. Si guarderà ancora al vantaggio del minor costo ma accanto a quello delle maggiori vendite, ampliando il parco dell’offerta: gli Stati Uniti non hanno rivali nella redditizia delocalizzazione dei servizi, specie nella logistica, dove l’Europa è assente. Nella globalizzazione avrà successo la specializzazione, se azzeccata e duratura e quindi guidata dalla politica economica e non soltanto dalle singole scelte aziendali.

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