Ha ragione Bersani quanto spiega che la
scissione è già stata consumata. Ma non tra il Pd e qualche parte
della sua classe dirigente, quanto tra questo partito nato nel 2007 e
i suoi elettori e iscritti. Il crollo delle tessere lo dice
chiaramente. Quelle del 2016 – mancano ancora dati ufficiali ma
queste erano le tendenze di qualche settimana fa – erano circa il
10% in meno dell’anno precedente. Nel 2015 il Pd si era fermato a
385.320 iscritti. Un dato drammatico, uno smottamento tremendo per
una forza politica che voleva essere popolare e di massa.
Una scissione sulla carta potremmo dire in
quanto nelle Regioni o nei Comuni non ci pensano minimamente a
scindersi veramente, prendiamo il caso del Comune di Settimo
Torinese, ove le ventate di cambiamento (si fa per dire) sarebbero
arrivate anche nella nostra città, quattro assessori si sarebbero
schierati con la corrente di Rossi, tre altri assessori con la
corrente d'alema (tra questi risalta l'assessore Pace),
più 3-4 consiglieri schierati con la minoranza, adesso che la
scissione di Rossi e D'alema-Bersani è un dato di fatto costororo si
dovrebbero dimettere dalla maggioranza e dal loro incarico per
coerenza e onestà intellettuale, così facendo la giunta Settimese
non avrebbe più la maggioranza e si dovrebbe andare a nuove
elezioni. Secondo voi costoro che hanno un buon lavoro, che in più
percepiscono uno stipendio da assessori pensano veramente di
dimettersi attaccati alla poltrona come sono? Non ci pensano
minimamente, faranno la solita sceneggiata, useranno la solita
retorica ma resteranno al loro posto, diranno che non si dimettono
per senso di responsabilità; già peccato che quando cittadini
sottopongono o chiedono il loro aiuto o intervento per cose serie ma
anche di importanza sociale, non prendono in considerazione,oppure
come già accaduto si rimangino quanto detto il giorno prima. In
breve prima cade questa giunta e meglio sarà per tutti, in tanti
l'hanno capito da tempo, vedi infatti la fuga degli iscritti.
La fuga degli iscritti è costante ma, nel
2013, la ditta di Bersani poteva vantare comunque 539.354
iscritti. Crollati nel 2014, nella scintillante era
Renzi-Lotti-Boschi-Franceschini a 380 mila. Le cronache raccontano di
un Pd paralizzato in intere regioni, quali Sicilia e Calabria. In
Sardegna si sono dimenticati di eleggere da molti mesi il segretario
regionale dopo la spenta parentesi di Renato Soru (l’aedo della
comunità di destino). In Emilia Romagna le adesioni nel 2015
non avevano superato le 37 mila (nel Pci, per dire e senza fare
paragoni impossibili, erano mezzo milione), nella città di Torino
mille, novemila a Milano. A Roma partito commissariato con quasi
tutti i circoli sprangati e gli iscritti in picchiata.
Ecco perché di fronte a una sequela
ininterrotta di sconfitte nate dopo l’ubriacatura del 41% alle
Europee, temere una scissione nel Pd è come non vedere la realtà. I
tre anni di turborenzismo sono edificati su un cumulo di
macerie: le sconfitte nelle amministrative e nelle regionali avevano
preparato il tracollo referendario, una sollevazione popolare di
dimensioni imponenti. Sconfitte non analizzate né affrontate
adeguatamente per fare tesoro degli errori. Ma invece costruite
sapientemente in tre anni, originate dal vizio d’origine della
manovra di palazzo per far fuori un presidente del Consiglio del Pd,
dopo il via libera di Napolitano.
Mettendo in fila le scelte di Renzi nei tre
anni di governo si trova la soluzione (e c’è da restare allibiti
anche per la docile acquiescenza dimostrata dall’informazione, dai
cosiddetti corpi intermedi e dagli intellettuali abbacinati dal mito
assai funesto della giovinezza e della celerità a-democratica).
Anzitutto il disastro che si chiama jobs act. Non è
propagandistico affermare che si tratta della peggior legge dal
dopoguerra, una riscrittura della legislazione sul lavoro imponente
ma con un unico obbiettivo: precarizzarlo, renderlo flessibile al
punto da rendere impossibili le tutele, impoverirlo dei diritti
fondamentali, intimidendo i lavoratori. Gli ammortizzatori sociali,
considerati un lusso scandinavo, sono quasi spariti.
Oltre a questo anche la pervicacia
nell’attacco ai contratti collettivi nazionali, all’aggressione –
fino all’irrisione – delle forze sindacali spesso cloroformizzate
o rinchiuse nei ridotti di aziende e territori (per fare contratti
più o meno vantaggiosi dove si torna alle gabbie salariali), alle
politiche di corto respiro come i bonus a sotto-categorie o a
coriandoli di esse che hanno lasciato una voragine nei conti e non
hanno determinato crescita e sviluppo. La cosiddetta buona scuola ha
determinato uno strappo profondo. Ritenere l’istruzione una merce,
aziendalizzarla, imbrogliare le carte sulle graduatorie e la
precarietà, criminalizzare gli insegnanti e lasciare l’istruzione
pubblica come orpello è stata una prova di forza disastrosa. A
questo si deve aggiungere – lo ammettono anche alcuni ministri –
le leggi che agevolano le devastazione del territorio con
l’incredibile Sblocca Italia, sbocco naturale per un partito
che ha rafforzato oltre ogni remora morale i suoi rapporti con
l’imprenditoria in particolare con quel capitalismo di relazione o
straccione.
Infine, l’azzardo di voler distruggere una
parte della Costituzione. Sono trascorsi alcuni mesi e non si sono
sentite dalle parti del Nazzareno analisi profonde. Renzi e i suoi
ammettono – e ci mancherebbe altro – la sconfitta. Ma la
ritengono frutto di un mero difetto di comunicazione. Non hanno
compreso quei gruppi dirigenti quanto era ed è profondo il
disagio del paese, quanto inadeguata sia stata l’azione del governo
basata su un ottimismo di maniera e su raffiche di annunci. Oltre ad
aver sottovalutato il legame che lega l’Italia alla sua
Costituzione.
Il Pd non esiste più. Esiste il Pd di Renzi
– sono parole del trio Speranza-Rossi-Emiliano – diventato un
partito personale, un partito del capo: fuori all’alveo della
tradizione della sinistra italiana, intossicato da corruzione e
arroganza, incapace di parlare al Paese profondo, pericoloso per la
sua pulsione autoritaria. Nei territori il partito, ridotto ai minimi
termini come forza organizzata, è un grumo avvelenato di correnti
dirette da capi bastone.
A questo punto bisogna avere l’onestà di
riconoscere che la fusione tra Ds e Margherita è stata un errore. Un
gravissimo e colpevole azzardo. Un salvataggio reciproco di partiti
declinanti e che, solo in parte, detenevano le chiavi di antiche
tradizioni. Ora il Pd è in mano a una generazione assai
spregiudicata di democristiani spuri e di post cattolici democratici:
Renzi, Boschi, Guerini, Bonifazi, Delrio, Rosato, Franceschini,
Zanda. Nomi di peso e tutti di estrazione Dc. Gli ex comunisti (che
sono tali, precisiamo) sono stati messi ai margini, massacrati con la
finta rottamazione, irrisi come orpelli novecenteschi (meglio
Bisaglia e Rumor di Berlinguer?) e collocati ad abbellire qualche
comodino come ad esempio Fassino. La tradizione comunista è stata
cancellata, annullata, osteggiata.
Alla base della fusione veltronian-prodiana
c’era inoltre un’idea sbagliata: mettere in soffitta il conflitto
tra capitale e lavoro. Che non significa non vedere i cambiamenti del
lavoro e come si sia scomposto ma come lo scontro degli interessi sia
sempre presente anche nel XXI secolo. E si tratta di interessi che
non coincidono spesso. Tra Landini e Marchionne bisogna decidersi da
che parte stare. Per questo motivo il partito ha smarrito il suo
ruolo, la sua funzione di rappresentanza.
Politiche di centrosinistra difficilmente
distinguibili da quelle di centrodestra, prone alla finanza e a
un’Europa che non è certamente amica, hanno alimentato il
cosiddetto populismo. Scelte del lavoro sbagliate, gestione
immigrazione opaca, diritti dei cittadini e dei consumatori messi da
parte, ambiente non protetto. Burocrazia, ottusità e miopia europea
hanno alimentato i nuovi fascismi ma anche fatto aprire gli occhi su
quanto anche l’Euro fosse un grande, gigantesco imbroglio. Un
partito e un’intera generazione politica che hanno legato il loro e
il nostro destino a una moneta unica, che devasta gli interessi
nazionali e di conseguenza i popoli, ha il respiro corto.
Fa dunque sorridere l’intervista di
Veltroni al Corriere di qualche giorno fa. Lui afferma che la
scissione è un incubo. Non affronta però i nodi del declino
e rilancia la sua ottusa vocazione maggioritaria. Dice che la
sinistra deve affrontare la sfida del mondo nuovo. Ha ragione, ma non
deve farlo con gli strumenti della destra. Il Pd, per sua natura, non
può essere la casa di chi ha storie di sinistra o progressiste o
cerca qualcosa di nuovo. Il Pd è il vecchio, il notabilato,
l’imprenditoria furba. Prenderne atto è urgente.
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