Esteri
16/01/2014
Italia
16/01/2014 - Dunque vediamo un po', L'Egitto non è considerato un paese "democratico" ma per cambiare la Costituzione indicono un referendum per consultare i "non cittadini", l'Italia dicono sia un paese democratico, ma quando anche vengono indetti referendum non senza difficoltà i politici e il governo non ne tengono conto e continuano a fare i loro porci comodi, per quanto riguarda sistema elettorale, finanziamento pubblici dei partiti e costituzione neanche a parlarne, questo è un tema loro, non riguarda mica i cittadini ? A questo punto occorre una riflessione perch'è qualcosa non mi torna.
Egitto, valanga di “sì” al referendum
Ma la scarsa affluenza frena Al Sisi
I media ufficiali: 90% favorevoli alla nuova Costituzione. Ma il generale
si aspettava un endorsement più ampio per candidarsi alle presidenziali
si aspettava un endorsement più ampio per candidarsi alle presidenziali
REUTERS
Un soldato al seggio durante le operazioni di conteggio dei voti
inviata al cairo
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Dopo aver votato per la terza bozza Costituzionale in tre anni l’Egitto attende di sapere quale sarà l’entità dell’investitura del ministro della difesa Al Sisi, il potentissimo generale artefice della rimozione (e messa al bando) dei Fratelli Musulmani che pochi giorni fa aveva affermato di volersi candidare alla presidenza solo se chiamato a gran voce dal popolo (leggasi: una massiccia partecipazione al referendum appena conclusosi). I media ufficiali parlano già di un “trionfo” dei sì (oltre il 90%), ma analisti meno “militanti” suggeriscono che l’affluenza potrebbe essere intorno al 42%, superiore al 33% che poco più di un anno fa approvò la Costituzione a forte impronta islamista e tuttavia non oceanica (nei giorni scorsi i più entusiasti tra i filo governativi vaticinavano improbabili valanghe di consenti intorno al 70%).
Cosa è accaduto e cosa succederà? Mentre si moltiplicano le ipotesi sulle prossime elezioni presidenziali e parlamentari (entro sei mesi) e si contano gli ennesimi “danni collaterali” della turbolenta transizione egiziana (nei due giorni di referendum sono state arrestate 444 persone e 9 sono morte negli scontri tra governativi e pro Fratelli Musulmani, oltre mille dimostranti sono stati uccisi nei 5 mesi successivi alla deposizione di Morsi), è possibile azzardare alcune considerazioni.
Il paese è spaccato in diversi pezzi. La pessima performance dei Fratelli Musulmani (che diversamente dall’Algeria del 1992 hanno governato per un anno) enfatizzata verosimilmente dal sotterraneo boicottaggio di esercito e polizia, ha disgustato la stragrande maggioranza degli egiziani che oggi non vogliono neppure sentir più parlare di loro (il 25 dicembre sono stati dichiarati organizzazione terroristica perché considerati i mandanti degli attentati in Sinai e altre parti del paese). Si respira un odio nei confronti del movimento/partito di Morsi, per cui anche molti liberal avevano votato ob torto collo nel 2012, che è simmetrico solo alla Sisi-mania dilagante (la sua faccia compare su torte, t-shirt, lattine di olio da cucina). Ma c’è anche un’altra frattura, quella tra i rivoluzionari non islamisti che il 30 giugno scorso erano compatti in piazza per chiedere la cacciata di Morsi e che oggi, dopo la durissima repressione messa in campo dall’esercito negli ultimi mesi, sono divisi tra i rassegnati a rischiare “il fascismo militare” pur di scongiurare “il fascismo islamico” e gli irriducibili nemici di qualsiasi autoritarismo che per l’appunto hanno disertato il referendum.
Per quanto giuri di voler tornare nelle caserme al termine della road map, l’esercito, che si dice controlli almeno un terzo dell’economia nazionale, è ancora pesantemente in campo. Rafforzato per giunta stavolta dall’impressione che gli egiziani, popolo bambino, abbiano voluto giocare alla democrazia con i Fratelli salvo accorgersi poi di quanto fossero cattivi e invocare in soccorso il padre (l’uomo forte). Inoltre la fetta consistente di analfabeti egiziani (circa il 38%) rappresenta un “tesoretto” per chiunque, religioso o militare, voglia demagogicamente approfittare della disponibilità popolare a mettersi nelle mani di un dio e credere al suo Verbo.
L’economia è al collasso. Il turismo è in ginocchio (in luoghi come Luxor il consenso di el Sisi, alias “il ritorno all’ordine”, è altissimo). Se non fosse per i soldi del Golfo (Arabia Saudita e Kuwait, in chiave anti Qatar), il paese sarebbe in bancarotta. L’isolamento della comunità internazionale, ostile a quello che i pro Morsi vedono come “il golpe più sanguinario dai tempi di Nasser” e i governativi come “la seconda rivoluzione”, non aiuta. Gli Stati Uniti però hanno deciso di scongelare gli aiuti di 1,5 miliardi di dollari sospesi a ottobre per protesta. Cosa accadrà se el Sisi diventa presidente?
I giovani, anima della rivoluzione del 25 gennaio 2011, non sono andati a votare al referendum e chi l’ha fatto ammette “abbiamo votato per dar via la nostra libertà”. Le critiche non erano tanto alla Costituzione (che quasi tutti considerano buona). Per quanto amaro possa apparire, questo dato contiene un aspetto positivo. L’impressione è che gradualmente stia crescendo in Egitto una terza coscienza, nè con i Fratelli Musulmani nè con i militari, i due poteri forti e non esattamente democratici ormai abbondantemente sperimentati.
Che faranno alla lunga i sostenitori dei Fratelli Musulmani (i cui leader sono ormai tutti in prigione insieme a 11 mila membri del gruppo)? Resteranno in trincea permanentemente? Si voteranno al terrorismo? Apriranno le porte a una riconciliazione nazionale nel caso le istituzioni gliela offrissero? La storia non è finita. Ma un paio di giorni prima del referendum l’ex leader di piazza Tahrir Mohammed el Baradei, espatriato ad agosto in protesta contro la repressione dei militari che pure aveva invocato contro Morsi, ragionava camminando di passaggio a Roma: “La situazione oggi è terribile, ma il paese non tornerà indietro”.
Cosa è accaduto e cosa succederà? Mentre si moltiplicano le ipotesi sulle prossime elezioni presidenziali e parlamentari (entro sei mesi) e si contano gli ennesimi “danni collaterali” della turbolenta transizione egiziana (nei due giorni di referendum sono state arrestate 444 persone e 9 sono morte negli scontri tra governativi e pro Fratelli Musulmani, oltre mille dimostranti sono stati uccisi nei 5 mesi successivi alla deposizione di Morsi), è possibile azzardare alcune considerazioni.
Il paese è spaccato in diversi pezzi. La pessima performance dei Fratelli Musulmani (che diversamente dall’Algeria del 1992 hanno governato per un anno) enfatizzata verosimilmente dal sotterraneo boicottaggio di esercito e polizia, ha disgustato la stragrande maggioranza degli egiziani che oggi non vogliono neppure sentir più parlare di loro (il 25 dicembre sono stati dichiarati organizzazione terroristica perché considerati i mandanti degli attentati in Sinai e altre parti del paese). Si respira un odio nei confronti del movimento/partito di Morsi, per cui anche molti liberal avevano votato ob torto collo nel 2012, che è simmetrico solo alla Sisi-mania dilagante (la sua faccia compare su torte, t-shirt, lattine di olio da cucina). Ma c’è anche un’altra frattura, quella tra i rivoluzionari non islamisti che il 30 giugno scorso erano compatti in piazza per chiedere la cacciata di Morsi e che oggi, dopo la durissima repressione messa in campo dall’esercito negli ultimi mesi, sono divisi tra i rassegnati a rischiare “il fascismo militare” pur di scongiurare “il fascismo islamico” e gli irriducibili nemici di qualsiasi autoritarismo che per l’appunto hanno disertato il referendum.
Per quanto giuri di voler tornare nelle caserme al termine della road map, l’esercito, che si dice controlli almeno un terzo dell’economia nazionale, è ancora pesantemente in campo. Rafforzato per giunta stavolta dall’impressione che gli egiziani, popolo bambino, abbiano voluto giocare alla democrazia con i Fratelli salvo accorgersi poi di quanto fossero cattivi e invocare in soccorso il padre (l’uomo forte). Inoltre la fetta consistente di analfabeti egiziani (circa il 38%) rappresenta un “tesoretto” per chiunque, religioso o militare, voglia demagogicamente approfittare della disponibilità popolare a mettersi nelle mani di un dio e credere al suo Verbo.
L’economia è al collasso. Il turismo è in ginocchio (in luoghi come Luxor il consenso di el Sisi, alias “il ritorno all’ordine”, è altissimo). Se non fosse per i soldi del Golfo (Arabia Saudita e Kuwait, in chiave anti Qatar), il paese sarebbe in bancarotta. L’isolamento della comunità internazionale, ostile a quello che i pro Morsi vedono come “il golpe più sanguinario dai tempi di Nasser” e i governativi come “la seconda rivoluzione”, non aiuta. Gli Stati Uniti però hanno deciso di scongelare gli aiuti di 1,5 miliardi di dollari sospesi a ottobre per protesta. Cosa accadrà se el Sisi diventa presidente?
I giovani, anima della rivoluzione del 25 gennaio 2011, non sono andati a votare al referendum e chi l’ha fatto ammette “abbiamo votato per dar via la nostra libertà”. Le critiche non erano tanto alla Costituzione (che quasi tutti considerano buona). Per quanto amaro possa apparire, questo dato contiene un aspetto positivo. L’impressione è che gradualmente stia crescendo in Egitto una terza coscienza, nè con i Fratelli Musulmani nè con i militari, i due poteri forti e non esattamente democratici ormai abbondantemente sperimentati.
Che faranno alla lunga i sostenitori dei Fratelli Musulmani (i cui leader sono ormai tutti in prigione insieme a 11 mila membri del gruppo)? Resteranno in trincea permanentemente? Si voteranno al terrorismo? Apriranno le porte a una riconciliazione nazionale nel caso le istituzioni gliela offrissero? La storia non è finita. Ma un paio di giorni prima del referendum l’ex leader di piazza Tahrir Mohammed el Baradei, espatriato ad agosto in protesta contro la repressione dei militari che pure aveva invocato contro Morsi, ragionava camminando di passaggio a Roma: “La situazione oggi è terribile, ma il paese non tornerà indietro”.
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